Dal 2020 sono stati rovesciati otto governi nei paesi dell’Africa francofona, portando al potere giunte militari. Un’analisi di questa tendenza e a cosa potrebbe portare.
Il ritiro di circa 1.500 soldati con i loro armamenti dal Niger, che era uno degli ultimi alleati di Parigi nel Sahel prima del colpo di stato del 26 luglio, arriva dopo quelli in Mali e Burkina Faso, dove la Francia era già stata accompagnata alla porta da giunte ostili. È l’ultima conseguenza dell’ondata di colpi di stato che dal 2020 ad oggi hanno portato al potere delle giunte militari nel continente africano. Solo negli ultimi tre anni sono stati rovesciati ben otto governi nei paesi dell’Africa francofona.
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A questi andrebbe poi aggiunto il caso del Sudan dove, nel 2019 e a seguito di imponenti manifestazioni di massa, i militari avevano spodestato il dittatore Omar al-Bashir promettendo un governo di transizione civile che però è durato poco. Infatti, gli eventi che ne sono seguiti hanno portato allo scoppio di un conflitto civile che sta distruggendo il Paese con oltre tre milioni di sfollati. Considerando anche il dramma sudanese, ad oggi sulla cartina geografica si potrebbe disegnare una “cintura di golpe” che dal mar Rosso attraversa il continente arrivando fino all’oceano Atlantico.
Dopo il Sudan sono avvenuti in successione quelli di Mali (agosto 2020 e maggio 2021), Ciad (aprile 2021), Guinea (settembre 2021), Burkina Faso ( gennaio e settembre 2022), Niger (luglio 2023), Gabon (agosto 2023).
Nell’immaginario comune il colpo di stato è sempre collegato all’America Latina, ma in realtà nella storia africana ne sono stati registrati molti di più: 214 golpe tentati dal 1950 ad oggi di cui 106 riusciti. Questa dinamica sembrava aver subito un relativo rallentamento negli ultimi venti anni con un dimezzamento nella frequenza media, ma gli eventi recenti rappresentano una recrudescenza sorprendente, dopo anni di sforzi di Unione Africana, Onu e fondazioni private nel consolidamento delle società civili nel continente.
Ci sono vari motivi che possono spiegarlo e non sono tutti riconducibili a “lotta per il potere di oligarchie”, “un complotto russo” o un “rifiuto dell’occidente”. Sono tutti elementi che compaiono con varie sfumature a seconda del caso, ma non spiegano tutto perché è la società del continente ad essere coinvolta in profonde trasformazioni che appaiono trascurate.
In 1963 independent African states & liberation movements met in Addis Ababa #Ethiopia to form Africa’s first post-independence continental institution The Organization of African Unity OAU whose Charter was adopted on May 25 #AfricaDay 1963 #OurAfricaOurFuturepic.twitter.com/3Jzy85zDWH
C’è un distinguo tra i “casi” dei paesi della regione del Sahel e quelli di Ciad e Gabon, oltre al già citato Sudan. A N’Djamena è avvenuto un golpe anomalo perché i militari in pratica hanno semplicemente sostituito il vecchio presidente Idriss Déby, morto in un’operazione militare, con il figlio, il generale Mahamat Idriss Deby, violando la costituzione.
In Gabon, lo scorso 30 agosto, i militari hanno spodestato il presidente Ali Bongo, dichiarato vincitore alle elezioni per un terzo mandato, e la popolazione aveva esultato, convinta che fosse giunta la fine di quasi sessant’anni di dominio del “sistema” della famiglia Bongo. Ma, anche se assistiamo alle prime epurazioni eccellenti, la vecchia élite politico-economica è ancora al suo posto e il generale che ha preso il potere a Libreville, Brice Oligui Nguema, è un cugino del presidente deposto.
In questi due contesti i colpi di stato assomigliano più a dei casi di gattopardismo a cui nel continente si è abituati, nei quali si “cambia tutto per non cambiare nulla”. Non a caso, in entrambe le situazioni la Francia, ex-potenza coloniale, non aveva espresso fermo biasimo e deboli, se non inesistenti, erano state le reazioni della comunità internazionale. Un segnale che forse un certo status-quo favorevole agli interessi geo-economici era rimasto intatto.
Il Sahel che si infuoca e l’addio alla françafrique
Per i paesi del Sahel il quadro è davvero diverso e forse più preoccupante, in quanto in questa regione e da decenni sono in corso sconvolgimenti legati ai cambiamenti climatici, alle migrazioni e all’aumento dei conflitti inter-comunitari di cui LifeGate ha ampiamente dato conto.
Rammentiamo che in queste aree passano le principali rotte dei traffici illegali di droga, armi, risorse naturali ed esseri umani. È qui che da oltre dieci anni si concentra la lotta all’espansione del pensiero estremista religioso e ad alcune delle organizzazioni jihadiste attive a livello mondiale.
L’ondata di colpi di stato in questa regione porta in sé una serie di significati. Innanzitutto il punto in comune tra le varie vicende è la fine progressiva del modello neo-coloniale francese nato negli anni Sessanta con il presidente Charles de Gaulle e il suo consigliere Jacques Foccart, soprannominato “monsieur Afrique”. Era il sistema conosciuto come “Françafrique” con cui si creavano e sostenevano Stati indipendenti e pseudo-democratici sulla carta, ma di fatto subalterni alla potenza ex coloniale.
Un apparato ingannevole che si è indebolito nell’ultimo ventennio con l’entrata in scena di partners politico-economici alternativi e competitivi come la Cina, la Turchia o la Russia. Come sottolineato dal giornalista francese Pierre Hasky su France Inter, è arrivato il momento che Parigi “ripensi la sua politica estera in Africa, ricostruisca una sua immagine e rinegozi una partnership paritaria”.
Al di là del significato simbolico, questi golpe hanno provocato il ritiro dell’assistenza militare nel Sahel. I soldati di Parigi saranno per ora presenti solo in Ciad, Senegal, Costa d’Avorio e Gabon.
Al loro posto è entrata in gioco Mosca. Si è molto discusso, infatti, sul ruolo dei mercenari russi del gruppo Wagner nell’aver favorito e supportato le nuove giunte militari per poter ampliare e consolidare l’influenza Russa nella regione e accedere alla sue risorse. E’ probabilmente vero, ma in realtà il Cremlino, attraverso la strategia attuata da uomini come Yevgeny Prigozhin, ha solo letto i cambiamenti in corso nella società per poi approfittarne usando i social media e le fake news a dovere.
Le armi non bastano
L’altro punto che emerge dalla serie di putsch è il fallimento dell’approccio securitario al Sahel. Tutti questi anni di guerra al terrorismo, ai trafficanti e alle rotte migratorie portata avanti anche da Stati Uniti e Unione europea, non hanno portato a risultati concreti e duraturi. Prova ne è che oggi Mali e Burkina Faso sono tra i luoghi più mortali al mondo per quanto riguarda il terrorismo e il Niger, che aveva registrato un calo di attacchi nell’ultimo anno, rischia seriamente di cadere nella stessa spirale.
È paradossale, ma la presenza di truppe esterne in questi Paesi ha accidentalmente contribuito alla salita al potere dei regimi militari. In pratica le giunte al potere nel Sahel oggi sono state armate e formate dalle stesse potenze che oggi vengono messe alla porta.
Questo è la prova che il supporto nel settore della sicurezza avrebbe dovuto essere accompagnato da una più ampia e ingente politica di aiuti allo sviluppo. In particolare il trasferimento di know how su sicurezza alimentare e resilienza ai cambiamenti climatici, la creazione di opportunità di impresa e di lavoro sostenibili e la diffusione di istruzione, diritti e sanità pubblica.
NEW: While #Niger's junta has cited rising insecurity as a justification for the coup, violence has been on the decline. In the first half of 2023, conflict incidents decreased by an estimated 39% compared to the previous six-month period.
— Armed Conflict Location & Event Data Project (@ACLEDINFO) August 3, 2023
Il neosovranismo
Il gran numero di persone che sono scese nelle piazze di Bamako, Ouagadougou, Conakry e Niamey testimonia un appoggio popolare alle nuove giunte militari e questo ha un altro significato. Secondo un recente studio realizzato da Afrobarometer e dall’organizzazione internazionale Open Society Foundations più della metà dei cittadini africani, pur ritenendo che la democrazia sia la miglior forma di governo, in caso di “abusi” da parte dei governanti democraticamente eletti riterrebbe legittimo un intervento militare. Sempre secondo lo studio, sono i giovani di età compresa fra i 18 e i 35 anni ad essere i più scettici nei confronti di altre soluzioni democratiche.
In questi Paesi i golpe appaiono come l’unica via d’uscita per ottenere il cambiamento all’interno di società infettate da profonde divisioni e dalle strutture stagnanti.
Secondo il politologo Achille Mbembe sul quotidiano Le Monde, l’Africa sta entrando in un nuovo ciclo storico e la società sta subendo trasformazioni che “interessano tutti i livelli e si traducono in rotture a catena”. Oggi assistiamo all’ingresso nello spazio politico e pubblico delle generazioni nate fra gli anni Novanta e l’inizio dei Duemila. Giovani che non hanno vissuto la decolonizzazione, ma le forme democratiche che ne sono scaturite e le profonde crisi economiche successive. Contemporaneamente, è arrivata dirompente la tecnologia con la sua connettività, la globalizzazione, la maggior mobilità internazionale e con essa l’influenza delle diaspore e gli effetti di nuovi modelli-socio culturali. Queste giovani generazioni, soprattutto nei grandi centri urbani, entrano sempre più in conflitto con quelle precedenti e perdono fiducia nel sistema e nell’élite al potere che non rispondono alle loro richieste mentre coltivano ingiuste alleanze con potenze straniere.
“In questo contesto di caos ideologico, disorientamento morale e crisi di significato si è innestata l’ascesa del neo-sovranismo africano, una versione impoverita e adulterata del panafricanismo”.
Achille Mbembe, politologo
Con l’intento di focalizzare l’attenzione sul continente e la sua identità, i sostenitori sempre più numerosi nell’opinione pubblica, individuano una via più immediata ed estrema: “Sbarazzarsi dell’ultimo fantasma neocoloniale per emanciparsi definitivamente”. Cacciare le vecchie potenze coloniali come la Francia per i più radicali diventa un’ossessione, a tal punto da accettare di sostituirle con altri attori per nulla disinteressati come la Russia o la Cina. Nel mezzo di questa fissazione, che si alimenta in particolare sui social network, finisce con l’opporsi anche alla democrazia in sé, vista come “il cavallo di Troia dell’ingerenza internazionale”.
Ci si vuole ridefinire come costruttori di un ordine statale proprio ed è così che si assiste all’accettazione indulgente dei colpi di stato, alla diffusione del culto degli uomini forti, e alla riaffermazione della forza come mezzo legittimo di esercizio del potere.
Tutto ciò potrebbe ritorcersi contro la popolazione stessa creando, molto probabilmente, nuovi regimi dittatoriali ancor più conservatori. A quel punto il grande timore è che il patto sociale si rompa di nuovo creando nuova instabilità.
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