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Come i cambiamenti climatici stanno influenzando la moda
Tessile e clima sono due realtà molto connesse, che si influenzano a vicenda. E la crisi climatica sta cambiando molte cose.
- Gli eventi atmosferici violenti a cui stiamo assistendo e i cambiamenti climatici hanno un effetto importante sulla catena di approvvigionamento della moda, in particolare per quanto riguarda il settore del lusso.
- Molte fibre naturali di pregio e qualità, come il cotone e il cashmere ad esempio, sono minacciati uno dalla siccità e l’altro dal modificarsi dell’ecosistema in cui vivono gli animali da cui è prodotto.
- D’altra parte anche le stesse collezioni stanno cambiando, adattandosi sempre di più alle condizioni climatiche mutate in cui stiamo vivendo.
Ondate di caldo estremo, siccità, inondazioni devastanti: l’impatto dei cambiamenti climatici ultimamente è stato più evidente che mai ed è destinato ad intensificarsi. Il verificarsi di eventi tanto estremi ha effetti pesanti su una molteplicità di attività e settori produttivi, tra cui l’industria tessile e, in modo specifico, la moda di lusso perché particolarmente dipendente dalle materie prime di alta qualità, spesso derivanti da sistemi naturali e agricoli geograficamente limitati.
Il gruppo Kering insieme alla società di consulenza Bsr ha redatto un rapporto dal titolo “Cambiamenti climatici: implicazioni e strategie per il settore della moda di lusso” che identifica sei materiali come a rischio di estinzione: pelle bovina e di vitello, pelle di pecora e agnello, seta, vigogna, cashmere e cotone. Gli ultimi tre, in particolare, a causa della loro limitata disponibilità geografica e della dipendenza dai sistemi naturali.
I pericoli legati al clima, come l’intensificarsi dell’intensità e della frequenza di eventi meteorologici violenti come uragani, siccità, inondazioni e precipitazioni, influiscono sulla disponibilità di acqua, sulla vulnerabilità della biodiversità e sull’interconnessione di tutti i sistemi naturali che porta a inevitabili scossoni anche nell’agricoltura e nell’allevamento.
Come i cambiamenti climatici influenzano la produzione di materie prime
Paesi produttori di fibre chiave per l’industria, come il Pakistan, da cui proviene una larga fetta del cotone mondiale, stanno subendo le conseguenze di un clima impazzito. Le inondazioni che hanno interessato il paese tra giugno e settembre del 2020 hanno diminuito la resa annuale di cotone del 40 per cento, spiega Vogue Business.
Le cose non vanno poi tanto meglio negli Stati Uniti, ovvero il più grande esportatore di cotone a livello mondiale, dove il Dipartimento dell’agricoltura ha previsto un calo dell’offerta del 28 per cento causato della siccità in Texas. Questa fibra infatti ha un estremo bisogno di acqua e la sua produzione entra in crisi con la scarsità di quest’ultima e con l’alzarsi delle temperature.
Ad essere a rischio, però, sono anche altre fibre naturali, come la seta e la lana. La pelle di pecora è vulnerabile a parassiti e malattie che possono essere più frequenti con l’aumento delle temperature. Non solo: animali come le capre cashmere, le capre pashmina e la vigogna, che producono alcune delle fibre naturali più pregiate e costose al mondo, potrebbero vedere i loro habitat restringersi a dismisura mentre i bachi da seta soffrono sia l’aumento della temperatura, che le fluttuazioni di umidità.
“In Australia ci sono grossi dal punto di vista della produzione della lana dovuto sia a periodi di siccità forte, in cui non cresceva l’erba e gli animali non riuscivano a mangiare, oggi invece le fattorie del Queensland sono messe in crisi dalle inondazioni. L’umidità crea problemi sia dal punto di vista dell’ovicultura che da quello della qualità stessa della lana” spiega Francesco Magri, manager per Europa centrale e orientale per Woolmark, il consorzio della lana australiana. “Le inondazioni costringono gli allevatori a far salire in altura le pecore, quindi c’è un grosso lavoro da parte degli allevatori che stanno vedendo ridursi i loro guadagni”.
Gli effetti sulle collezioni
L’approvvigionamento non è l’unica parte del processo ad essere messa in crisi: il clima impazzito e le stagioni che non si comportano più come dovrebbero pongono delle nuove sfide anche per i designer, che si trovano a dover ripensare alcuni drop di prodotto, come quello della maglieria, che in molti casi viene spostato più avanti nell’autunno rispetto al canonico mese di settembre in cui i maglioni erano soliti arrivare nei negozi.
In un mondo che è mediamente più caldo nelle zone dove il turnover degli abiti legato alla moda è storicamente più veloce, come l’Europa in generale e l’area del Mediterraneo in particolare, potremmo trovarci nella situazione di non aver più bisogno, per la vita di tutti i giorni, di indumenti estremamente caldi e coprenti. Al contrario se i modelli climatici che ci indicano come sarà la vita in questa zona di mondo da qui al 2050 sono corretti probabilmente saranno sempre più richiesti tessuti leggeri e traspiranti per far fronte a temperature sempre crescenti, ma anche di design che favoriscano il rinfrescarsi del corpo, quindi indumenti non troppo attillati o fascianti. Secondo il rapporto State of the Global Climate del 2021 redatto dell’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) delle Nazioni Unite, i sette anni tra il 2015 e il 2021 sono stati i più caldi mai registrati.
Non solo caldo però: gli eventi atmosferici estremi saranno sempre più comuni, come forti piogge e inondazioni, trovare alternative sostenibili per l’impermeabilizzazione tradizionale ad alta prestazione probabilmente sarà una priorità. Nel 2050 probabilmente tutto quello che indosseremo fuori da casa sarà abbigliamento tecnico studiato per ripararci da condizioni atmosferiche estreme, ma potrebbero anche venire progettati abiti e accessori in grado di proteggerci dal diffondersi di altre pandemie.
Gli abiti in definitiva, da sempre, non hanno fatto altro se non rispondere a delle specifiche esigenze della razza umana e, se il nostro obiettivo primario da qui al 2050 sarà quello di salvarci la pelle come specie, è molto probabile che la moda andrà sempre più nella direzione di essere sia più funzionale, che meno impattante possibile. Oggi ci sembra fantascienza, ma magari tra 50 o 100 anni indosseremo solo abiti usati, o ricavati da tessuti già esistenti o riciclati o creati a partire dalle piante, oppure non succederà nulla di tutto questo, ma una cosa è certa: il modo di produrre e consumare per come lo conosciamo oggi deve cambiare radicalmente se vogliamo avere una speranza di avere ancora occasioni per le quali valga la pena di scegliersi un look.
Spezzare il cerchio
Questo è una sorta di circolo vizioso, di gatto che si morde la coda: l’industria tessile è responsabile per una larga parte dell’inquinamento globale, della produzione di CO2 e di conseguenza dei cambiamenti climatici, i cambiamenti climatici d’altra parte impattano sull’approvvigionamento di materie prime mettendo in crisi il settore. Questo rende chiara una cosa: il comparto deve agire e deve agire subito, se non per interesse nei confronti del pianeta quantomeno per la sua stessa sopravvivenza.
Trasparenza e tracciabilità della filiera produttiva sono elementi chiave da cui ripartire. Un sistema più virtuoso è anche un sistema più sano. Sfruttare un terreno fino a desertificarlo, come è successo in Uzbekistan per produrre cotone in maniera massiccia non solo crea un danno ambientale enorme, ma ha effetti a cascata anche su altre dinamiche produttive, che entreranno sempre più in crisi.
Tutelare gli ambienti montani andini, dove vivono le vigogne, o le montagne del Cashmere è qualcosa di necessario per la salute del sistema nel suo complesso, dall’aspetto più connesso alla salute della natura fino alle condizioni economiche e sociali delle popolazioni che con l’allevamento di questi animali si sostentano.
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