La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
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I leader delle comunità Oromo hanno convinto la loro gente a smettere di cacciare l’alcelafo di Swayne, scongiurandone la scomparsa.
All’inizio degli anni Novanta l’alcelafo di Swayne (Alcelaphus buselaphus swaynei), una specie di antilope endemica dell’Etiopia, era a un passo dall’estinzione, decimata dal bracconaggio e dalla perdita di habitat. Questo grande erbivoro dal muso prominente, di cui sono state classificate otto sottospecie, sopravvive oggi solo nel Senkelle swayne’s hartebeest sanctuary, un’area protetta istituita nel 1971 che si estende per 58 chilometri quadrati nella regione dell’Oromia, in Etiopia.
Nel giro di un solo anno, tra il 1991 e il 1992, la popolazione di alcefali di Swayne è crollata, passando da circa 3.500 esemplari a meno di 70. Le cause sarebbero da ricercarsi nella grave instabilità politica che colpì il Paese alla fine degli anni Ottanta che, tra le altre cose, lasciò i parchi e le aree protette incustoditi e vulnerabili. Di colpo gli alcefali, conosciuti localmente come “qorkey”, videro invaso il loro santuario e furono vittime di una caccia massiccia.
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Prima che fosse troppo tardi, però, il massacro di alcefali di Swayne cessò, rapidamente come era iniziato. Ma chi salvò questo raro erbivoro dalla scomparsa? Il merito è di alcune comunità locali che si sono fatte carico della conservazione della specie, anche in virtù di alcuni precetti culturali e religiosi. Kabeto Edamo Wabe, attuale leader del popolo Oromo, ha raccontato al giornale Mongbay che un ruolo decisivo fu ricoperto da suo zio, leader religioso della comunità negli anni Novanta. L’uomo riunì le popolazioni dei villaggi circostanti invitandole a pensare alle conseguenze dell’estinzione dell’alcefalo di Swayne e suggerendo loro che Dio li avrebbe mal giudicati per la scomparsa di queste creature.
Visto che il governo non era in grado di garantire la tutela del santuario degli alcefali, i nativi formarono un apposito comitato per occuparsene, confermando la grande importanza dei popoli indigeni nella conservazione della natura. “Da quel giorno la caccia agli alcefali di Swayne si fermò”, ha dichiarato Wabe. Se questo fu possibile il merito è anche del gada, il tradizionale sistema di classi sociali del popolo Oromo.
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Il gada, inserito nel 2016 nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco, regola le attività politiche, economiche, sociali e religiose della comunità occupandosi di questioni come la risoluzione dei conflitti e la tutela dei diritti delle donne. Serve inoltre come strumento per rafforzare la condotta morale, favorire la coesione sociale ed esprimere forme di cultura comunitaria. Il gada impone, tra le altre cose, il rispetto degli animali selvatici e delle piante.
Tali precetti sono particolarmente sentiti dal clan di Hambentu, che infatti è stato tra i più attivi nella tutela degli alcefali di Swayne. “Ciò che rende Hambentu unico è che la pena prevista per l’uccisione volontaria di un alcefalo di Swayne equivale a quella per l’uccisione di un essere umano”, ha spiegato Azmach Teshita Sammato Bullo, leader del clan. Il Senkelle swayne’s hartebeest sanctuary, ultimo luogo al mondo ad ospitare gli alcefali di Swayne, è uno dei pochi santuari per la fauna selvatica in Etiopia e ha adottato diverse misure per favorire la convivenza tra uomini e animali (alle popolazioni locali è consentito raccogliere l’erba secca di cui gli animali non hanno più bisogno per sostenersi) e le persone stanno iniziando a comprendere l’importanza del santuario. Il futuro di queste bizzarre antilopi, la cui popolazione conta oggi circa 600 esemplari, è però ancora incerto a causa del pascolo illegale di bestiame e dell’elevato tasso di mortalità dei vitelli.
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