La morte che ha invaso le strade della città al confine col Ruanda per mano dei miliziani dell’M23 ha origini lontane, ma un movente sempre più attuale: la competizione per materie prime critiche, cruciali per la transizione.
Dopo una rapida azione militare iniziata il 26 gennaio scorso e proseguita per alcuni giorni, le milizie del Movimento 23 marzo, conosciuto con la sigla “M23”, hanno ottenuto il controllo della città congolese di Goma, situata nella provincia nordorientale di Nord Kivu. Questo importante centro di oltre un milione abitanti – molti dei quali sfollati – a ridosso del confine con il Ruanda è ricco di risorse minerarie, specialmente delle cosiddette materie prime critiche fondamentali per l’industria tecnologica e la transizione ecologica. Anche per questo motivo, non è nuovo alle violenze dei ribelli: la prima presa di Goma risale al novembre 2012, un momento che ha sancito la perdita quasi definitiva di controllo territoriale da parte dei militari della Repubblica Democratica del Congo (Rdc). Il venire meno dello Stato ha favorito l’emergere di centinaia di gruppi armati spesso in lotta fra loro e ha lasciato spazio alla penetrazione di eserciti stranieri che nutrono la pretesa di imporre il proprio controllo sulla regione, come nel caso di Ruanda e Uganda. Anni di conflitto a bassa intensità e il precipitare della situazione negli ultimi giorni hanno peggiorato la grave crisi umanitaria in corso che, oltre alle tremende scende di morte per le strade degli ultimi giorni, negli anni ha causato centinaia di migliaia di sfollati e migliaia di morti. Il riaccendersi delle violenze locali pone poi una questione di più ampio respiro, legata agli interessi strategici da parte della Cina e dell’occidente – capeggiato da un Trump poco interessato all’Africa durante il suo primo mandato presidenziale – nella regione. Forse proprio il l’urgenza spietata di questa nuova corsa alle materie prime, cruciali per la transizione, potrebbe costringere perfino l’inquilino della Casa Bianca a cambiare versione sul clima allontanandosi, nei fatti, dal negazionismo della sua propaganda.
Il Movimento del 23 marzo è un gruppo paramilitare attivo nella provincia del Nord Kivu. L’origine del nome è da rintracciare nell’accordo di pace firmato proprio il 23 marzo 2009 tra il Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp) – gruppo ribelle antesignano dell’M23 – e l’esercito congolese, che ha messo temporaneamente fine a al conflitto intestino del Kivu. Da sempre l’M23 è considerato un movimento filo ruandese, perché composto prevalentemente da militari tutsi, che con gli hutu costituiscono uno dei due gruppi etnici principali del Ruanda. I tutsi furono vittima del genocidio del Ruanda del 1994, operato dal governo a guida hutu e dai gruppi paramilitari hutu Interahamwe e Impuzamugambi.
L’M23 si è formato ufficialmente come forza temporanea per difendere i tutsi congolesi dagli attacchi dei numerosi gruppi armati, soprattutto degli hutu, ma oggi considerato il braccio militare con cui Kigali cerca di estendere la propria influenza oltreconfine. Da tempo, infatti, le Nazioni Unite documentano un canale di sostegno diretto dal governo guidato da Paul Kagame alle milizie stanziate in Congo, nonostante Kigali neghi ogni coinvolgimento. Sempre l’Onu sostiene che, attualmente, potrebbero esserci tra i 3.000 e i 4.000 soldati ruandesi.
Sino ad ora ogni sforzo diplomatico finalizzato ad abbassare il livello di tensione nella regione è stato vano. Il 15 dicembre 2024, i colloqui di pace si sono interrotti dopo che il governo congolese ha rifiutato le richieste del Ruanda di negoziare direttamente con l’M23. Il presidente congolese Felix Tshisekedi e i suoi funzionari congolesi hanno etichettato l’M23 come un gruppo terroristico e si sono rifiutati di legittimare il gruppo attraverso un dialogo diretto. Da allora si è registrato un aumento delle violenze nel Nord Kivu e nelle aree settentrionali del Sud Kivu. I ribelli si erano mossi per catturare la città portuale di Minova il 21 gennaio, rimuovendo il flusso di merci e attrezzature militari a Goma dal sud, e infine Sake il 23 gennaio. Una serie operazione che hanno isolato Goma, fino all’assalto definitivo che ha portato sia l’esercito congolese che le i caschi blu dell’Onu stanziati nel Nord Kivu a ritirarsi.
#DRCongo 🇨🇩: as the last pockets of resistance in #Goma fall to #M23, government soldiers seek refuge in large numbers at the Uruguayan UN base in the city.
Già prima degli ultimi attacchi, Goma ospitava quasi 600mila sfollati, ma il precipitare degli eventi coinciso con l’inizio dell’anno ha portato questo numero a circa un milione. Oggi si stima che Goma abbia dai 2 ai 3 milioni di abitanti, metà dei quali sarebbero bambini, secondo i dati di Save the Children. Nel corso di una conferenza stampa tenutasi pochi giorni fa, Adelheid Marschang, inviato dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e numerose agenzie umanitarie hanno segnalato che gli ospedali di Goma erano sovraffollati e “centinaia di pazienti sono costretti a curarsi con ferite da arma da fuoco, mortaio e schegge, mentre molti cadaveri giacciono per le strade”. Nella giornata di mercoledì, il Comitato internazionale della Croce rossa ha dichiarato che il suo ospedale aveva ricevuto oltre 100 feriti in sole 24 ore.
Il valore strategico di Goma e del Nord Kivu
Goma è la capitale provinciale del Nord Kivu, nonché un centro economico fondamentale e uno snodo commerciale proprio con il Ruanda. La città è infatti situata sul confine che separa i due stati ed è contigua a Gisenyi, località nota per le sue attrazioni turistiche situata sul versante ruandese del lago Kivu. Numerose aziende congolesi e internazionali, Organizzazioni non governative e organi di stampa hanno uffici a Goma. Già nel 2012 le milizie ribelli avevano preso il controllo della città con la compartecipazione delle Forze di difesa ruandesi (Rdf), occupando prima l’aeroporto internazionale e della sede della radio nazionale. Allora gli scontri coinvolsero molte aree di Goma, dal momento che le forze armate della Rdc combattevano insieme a numerosi gruppi armati sorti in almeno 13 quartieri della città. A causa dell’instabilità generale della regione, il governo congolese aveva anche nominato una leadership militare a guidare la provincia, ma il maggiore generale Peter Cirimwami è morto a seguito di uno scontro con l’M23 il 23 gennaio.
#DRC: The battle for Goma has escalated. M23 and Rwandan forces have taken the city’s airport & radio station and are pushing into South Kivu.
Ma ad interessare a tutte le forze in campo, militari e paramilitari, statali e parastatali, non è solo la città principale, bensì tutta la provincia del Nord Kivu e, soprattutto, il suo sottosuolo. Nelle sue rocce sono custodite grandi quantità d’oro, sfruttato da decenni, ma negli ultimi anni si stanno moltiplicando i siti per la ricerca delle cosiddette materie prime critiche, così chiamate perché indispensabili al funzionamento dei dispositivi digitali che usiamo ogni giorno e per la transizione ecologica. Si stima infatti che oltre il 70 per cento del cobalto mondiale viene prodotto nella Rdc, con una percentuale che oscilla tra il 15 e il 30 per cento appartenente alle cosiddette attività minerarie artigianali (informali) e su piccola scala.
A partire dal 2009, l’International Peace Information Service (Ipis), un ente di ricerca idipendente specializzatosi nella raccolta e analisi dei dati delle risorse naturali dell’Africa subsahariana, ha condotto quasi 7.000 visite sul campo per mappare questi specifici nell’est della Rdc, costruendo un database e mappe interattive consultabili. Al momento, i dati si fermano al 2023, con Ipis specifica che “il contesto minerario della Rdc muta rapidamente per quanto riguarda il numero di macchinari impiegati nell’estrazione, presenza di gruppi armati etc.”. Nei 3.409 siti minerari mappati, il 64 per cento riguarda l’oro, seguito dal 22 per cento – oltre 700 siti -– di aree adibite alla ricerca e allo sfruttamento della cassiterite, il minerale principale dello stagno. Sebbene se ne parli meno rispetto ad altri minerali critici, lo stagno è un componente chiave per il rivestimento di pannelli solari, batterie agli ioni di litio e saldature per un’ampia gamma di prodotti elettronici. Nei primi sei mesi del 2024, il prezzo dello stagno era aumentato del 29 per cento, con il Brasile a fare da traino tra i principali paesi esportatore. Il coltan, con oltre 200 siti mappati, rappresenta la terza voce di questa lista. Anche in questo caso, si tratta di un minerale utile all’industria tecnologica perché in grado di ottimizzare il consumo di corrente elettrica nei chip – il vero atomo costitutivo di ogni dispositivo digitale – permettendo loro di risparmiare energia. L’M23 ricava entrate significative dal contrabbando di risorse naturali come il cobalto e dalla tassazione dei minatori e degli utenti della strada attraverso i posti di blocco nella regione. Allo stesso tempo governo ruandese è stato accusato di sostenere l’M23 per ottenere il controllo delle risorse minerarie congolesi, tra cui appunto l’oro e lo stagno, oltre al tantalio – anch’esso utilizzato nei microchip degli smartphone – e il tungsteno, materiale di estrema densità e durezza capace di resistere ad altissime temperature, per questo utilizzato e nella produzione di missili anticarro.
Il monopolio di Pechino sul cobalto congolese
In queste miniere vengono sistematicamente perpetrate violazioni dei diritti umani, ma fungono da leva economica e politica per numerosi gruppi armati, che, controllandone l’estrazione e la produzione, si assicurano ricchezza e influenza regionale e non solo. La stabilità e la sicurezza dell’Africa continuano dunque ad essere legate a doppio filo ad una competizione spietata per le materie prime che sta incalzando, persino quella per gli idrocarburi. Una competizione che non è solo locale, come testimoniato sia dal coinvolgimento degli eserciti di Ruanda e Uganda che dagli interessi convergenti di Pechino e Washington sulla regione.
È ormai chiaro da anni che la Cina sta cercando di estendere la propria influenza in Africa, radicando le proprie relazioni internazionali attraverso accordi bilaterali basati in gran parte sullo scambio tra infrastrutture e spazio commerciale. Secondo il documento “China and Africa in the new era: a partnership of equals”, pubblicato dal Consiglio di stato della Repubblica popolare nel 2021, nei 25 anni precedenti le aziende cinesi hanno aiutato i paesi africani a costruire o ammodernare più di 10.000 chilometri di ferrovie, quasi 100.000 chilometri di autostrade, circa 1.000 ponti, quasi 100 porti e 66.000 chilometri di reti per la trasmissione e distribuzione dell’energia. Inoltre, le aziende cinesi hanno contribuito a costruire una capacità installata per la generazione di energia pari a 120 milioni di kilowatt (kW), una rete dorsale di comunicazioni di 150.000 chilometri e un servizio di rete che copre quasi 700 milioni di terminali utente.
Riguardo al comparto minerario, le relazioni tra Cina e Rdc sono strettissime. Per quanto riguarda il cobalto congolese, la Cina è oggi il principale investitore straniero: possiede circa il 72 per cento delle miniere attive di cobalto e rame del paese, tra cui la miniera Tenke Fungurume, la quinta miniera di rame più grande al mondo e la seconda miniera di cobalto più grande al mondo. Il gruppo cinese Cmoc Group Limited è la principale società di estrazione di cobalto al mondo. Potrebbe produrre fino a 70.000 tonnellate, grazie alla miniera di Kisanfu acquistata nella provincia meridionale del Lulaba. Secondo i dati dell’Agenzia atomica internazionale (Iea), nel 2019, la Rdc e la Cina erano responsabili di circa il 70 per cento della produzione globale di cobalto e del 60 per cento delle terre rare.
In Congo perfino Trump potrebbe gettare la maschera (negazionista)
Contrastare una presenza commerciale e infrastrutturale tanto capillare, oltre relazioni internazionali improntate al medio-lungo periodo – lo scorso settembre il presidente cinese Xi Jinping ha promesso di aumentare il sostegno della Cina in tutta l’Africa con un finanziamento di quasi 51 miliardi di dollari in tre anni, sostenendo più progetti infrastrutturali e la creazione di almeno 1 milione di posti di lavoro – appare complicato per gli Stati Uniti e, in misura molto minore, per l’Unione europea. Al tempo della dichiarazione del presidente cinese Washington entrava nel vivo della campagna elettorale, dove il tema dei rapporti con l’Africa non ha mai costituito un vero elemento dal punto di vista elettorale. Con la vittoria di Trump è inoltre piombata un’incognita sul futuro delle relazioni con l’Africa, dal momento che gli interessi geopolitici del neopresidente sembrano virare su tutt’altro orizzonte. Tra il 2o16 e il 2020, nel corso del suo primo mandato, Trump si era tenuto fuori dagli affari africani, addirittura senza mai programmare una sola visita nel continente. Secondo alcuni osservatori, il ricordo di quegli anni potrebbe, forse, aver convinto Kagame ad agire nel Nord Kivu supportando le milizie ribelli, consapevole di non diventare il prossimo dossier a finire sulla Resolute desk, la scrivania dello studio ovale.
Durante l’amministrazione Biden il tema delle ricchezze minerarie della Rdc era tornato in auge nell’ambito di una più ampia operazione che riguardava lo sviluppo dell’Angola come porto sull’Atlantico. A fine 2024, infatti, l’ormai ex presidente si era recato a Luanda per rilanciare il Lobito Corridor, un progetto infrastrutturale per collegare le ricchezze minerarie della Rdc e dello Zambia al porto di Lobito, sulla costa atlantica angolese. In quell’occasione aveva annunciato 600 milioni di nuovi finanziamenti per progetti infrastrutturali lungo il corridoio, portando il totale degli investimenti statunitensi a oltre 4 miliardi di dollari. Un progetto importante anche per l’Unione europea, che nel 2023 ha firmato un Protocollo d’intesa con Zambia e Rdc. Insieme ai partner del G7 e alle banche di sviluppo regionali, gli investimenti internazionali nel Corridoio di Lobito hanno superato i 6 miliardi di dollari.
The Lobito Trans-Africa Corridor represents the right way to invest in partnership with countries and people.
As a part of this project, in Angola, we will install clean energy infrastructure to power hundreds of thousands of homes and expand high-speed Internet for millions. pic.twitter.com/DiG331LMwd
Resta da vedere se l’amministrazione Trump intenderà raccogliere il testimone passatogli da Biden sull’Africa. Di certo, c’è che il negazionismo climatico diffuso urbi et orbi dalla propaganda trumpiana stride con l’approccio molto più pragmatico, ancorché basato su uno stile aggressivo e avvezzo agli ultimatum, con cui il neopresidente sta conducendo i suoi primi passi in politica estera. Le rivendicazioni sulla Groenlandia, anch’essa fondamentale riserva di idrocarburi e terre rare, divenuta più vulnerabile a causa dell’aumento delle temperature medie globali e la conseguente fusione dei ghiacci, sembrano infatti stridere con la teoria della “giant hoax” – la gigantesca bufala – con cui Trump ha più volte spiegato in modo antiscientifico i cambiamenti climatici. Non è detto, dunque, che l’interesse già manifestato verso luoghi ricchi di risorse minerarie fondamentali per completare la transizione possa dirigersi anche al continente africano e, per forza di cose, ai paesaggi già tartassati del Nord Kivu.
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