Se dovesse arrivare l’ok del Senato in Francia passerà un disegno di legge che prevede una tassa per i produttori di abbigliamento fast fashion.
Perché il consumo critico è così importante
In un mondo dominato dai brand anche la sostenibilità ne è diventato uno: per consumare meglio è necessario consumare meno
- In un mondo dominato dalle logiche del capitalismo, l’unico modo per riuscire a convincere 8 miliardi di persone a rallentare il passo è convincerle che sia cool oltre che giusto.
- Gli italiani sembrano essere particolarmente attenti ai loro acquisti in fatto di moda sostenibile, il problema è che comprano ancora troppo.
- Moltissimi brand si stanno dando da fare per rendere le loro produzioni il meno impattante possibile, ma per combattere la sovrapproduzione e l’inquinamento derivante dal tessile dobbiamo ridurre drasticamente i nostri consumi.
In molti lo considerano “la Bibbia del consumo critico” e non a torto: “No Logo” di Naomi Klein, pubblicato nel 2000, ha analizzato e predetto quella che sarebbe stata la nostra realtà a ventitré anni di distanza.
È stato in quegli anni che le aziende hanno iniziato a vendere ai consumatori, più che dei prodotti specifici, uno stile di vita e delle aspirazioni. Il capitalismo si fonda sul desiderio di appartenenza prima ancora che sui consumi veri e propri. Oggi che probabilmente abbiamo ceduto al branding in ogni aspetto delle nostre vite e delle nostre culture – è sorprendentemente raro trovare esperienze culturali, festival o campagne di sensibilizzazione senza sponsor – le stesse armi che hanno fatto la fortuna della società dei consumi sono quelle che stanno facendo leva sullo spirito critico dei consumatori.
Ma cosa significa consumo critico?
Avere una coscienza ambientale e praticare un consumo critico oggi è considerato posizionate e, se questo chiaramente alza di molto il rischio che molte operazioni “green” altro non siano se non greenwashing, sicuramente in un mondo estremamente ricettivo come quello della moda qualche tassello lo sposta, e in bene.
Quando giganti come Leonardo Di Caprio o Emma Watson si fanno portavoce di una moda più compatibile a un punto di vista ambientale ed etica nel trattamento dei lavoratori, significa che il messaggio arriva a milioni di persone. Un’enormità di pubblico se confrontato con le manifestazioni e movimenti no global dei primi anni Duemila che, per quanto ben nutriti, non avevano la forza, ma soprattutto l’appeal, per essere appunto globali.
Sembra un controsenso, è vero, ma per cambiare abitudini e modi di essere così radicati come quelli legati ai consumi, serve qualcosa che convinca otto miliardi di persone che rallentare il passo è cool. Le stesse tecniche di marketing che hanno tenuto per più di vent’anni premuto il piede sull’acceleratore dei consumi, oggi sono l’unica possibilità che abbiamo, come società, per spostare quel piede sul freno. Nel momento in cui il concetto stesso di sostenibilità è diventato un brand, la sua forza come tale è in grado di orientare consumi e non consumi.
Avere un’etica del consumo significa acquistare e consumare prodotti secondo principi che trascendono il puro interesse personale, ma che hanno a che fare con convinzioni politiche, sociali, religiose o ambientali. C’è chi sceglie di non mangiare carne per motivi religiosi, chi di tutela nei confronti degli animali e altri ancora sono mossi dal fatto che gli allevamenti di carne intensivi sono quanto di più dannoso ci sia per l’ambiente.
Nel tessile diciamo che queste convinzioni non sono sempre così nette, spesso entrano in contrasto con il nostro bisogno di esprimerci e di sentirci accettati in ambienti sociali e lavoratici, e soprattutto, non è così semplice individuare le aziende che sono veramente etiche da quelle che non lo sono ma si spacciano per tali, per questo una cosa fondamentale è quella di informarsi.
La maggior parte delle informazioni di cui abbiamo bisogno ce le fornisce già l’etichetta, ma in attesa che ci siano delle regole più stringenti per quanto riguarda il greenwashing, ci sono app come Good on you o siti come Ethical Consumer dove poter fare la ricerca per brand.
Per 8 italiani su 10 fare scelte di abbigliamento responsabile è un modo per ridurre l’impatto ambientale
L’80 per cento degli italiani è convinto del fatto che operare scelte sostenibili in fatto di abbigliamento sia una delle strade a nostra disposizione per ridurre l’impatto ambientale. A dirlo è un rapporto dell’osservatorio sulle abitudini degli italiani realizzato da Pulsee, brand digitale e green di luce e gas di Axpo Italia, in collaborazione con la società di ricerche di mercato NielsenIQ.
Stando a quello che è venuto fuori dall’osservatorio – che ha coinvolto uomini e donne tra i diciotto e i sessantacinque anni – l’83 per cento degli interpellati cerca di riutilizzare abiti che già possiede, il 68 per cento che invece compra orienta le sue scelte su brand eco-conscious, 66 su 100 provano a comprare meno, 51 su 100 puntano sul second hand e oltre l’81 per cento si impegna per allungare la vita degli abiti che non mette più.
Gli italiani da questo punto di vista sembrerebbero sia informati che attivi nel divulgare buone pratiche: un italiano su quattro ritiene di essere molto informato sull’impatto ambientale se si parla di industria della moda e ben il 63 per cento desidera informare gli altri sul problema dell’inquinamento legato al settore, parlando ad esempio del consumo di energia e di materie prime. Tutto bene quindi? Niente affatto. Perché questi dati, sebbene chiaramente incoraggianti, vanno incrociati con altri, che altrettanto non lo sono.
Lo shopping infatti continua a essere concepito come sinonimo di svago e divertimento per una larghissima fetta di popolazione italiana, l’81 per cento. Il 32 per cento del campione acquista vestiti regolarmente una o due volte volte al mese, mentre a farlo solo una o due volte ogni sei mesi sono 22 italiani su 100.
Se poi si va ad analizzare quanti di questi acquisti non usciranno mai dall’armadio si scopre che 43 per cento degli italiani – nello specifico, il 34,8 per cento degli uomini e il 52,5 per cento delle donne – afferma di aver più volte comprato abiti o accessori che poi non ha mai indossato. Sicuramente il fatto che oggi più di ieri ci sia una coscienza ambientale più sviluppata rispetto al passato è buona cosa, ma continuare a comprare come se non ci fosse un domani, anche qualora si tratti di marchi rispettosi per l’ambiente, non è un comportamento che si possa considerare etico.
Il consumatore etico è il consumatore che compra poco
La sovrapproduzione è uno dei problemi più grandi che affliggono il settore del tessile e questo purtroppo non cambia anche se si tratta di prodotti realizzati con tutti i crismi del caso. Per riuscire veramente ad avere un approccio critico ai consumi, oltre a prediligere brand che siano attenti al loro impatto sull’ambiente ed equi nel trattamento dei lavoratori, bisogna necessariamente cambiare il nostro approccio al consumo, limitandolo il più possibile.
Sicuramente è importante che i brand facciano la propria parte riducendo i consumi e l’impatto dei processi produttivi, ma noi dobbiamo necessariamente ridurre quello che scegliamo di comprare, testimoniando con il nostro comportamento questa scelta. Andando fieri del fatto che indossiamo molte volte lo stesso maglione o la stessa t-shirt e puntando a indossare tutto quello che compriamo almeno 100 volte.
Conosci la sfida dei #100wears? Dopotutto se star planetarie e reali, come Cate Blanchett, Helen Mirren, Kate Middleton o Letizia di Spagna indossano più volte lo stesso vestito per red carpet e occasioni ufficiali un motivo ci sarà e un cambio di rotta è all’orizzonte, basta solo impegnarsi perché questo penetri nelle coscienze e nei comportamenti delle persone.
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