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Il consumo di suolo in Italia è pari a 5 piazze del Duomo di Milano al giorno
In Italia ci sono sempre meno aree verdi. Urbanizzazione, abusivismo edilizio e sfruttamento dei terreni partecipano al grave aumento del consumo di suolo.
“Per quest’anno non cambiare. Stessa spiaggia stesso mare”. Nell’estate del 1963, quando Piero Focaccia cantava questa sua hit famosissima, nei cinema trasmettevano Le mani sulla città di Franco Rosi. Sono trascorsi quasi 60 anni da una delle pellicole capolavoro del neorealismo italiano, eppure la sua trama è ancora oggi di sconvolgente attualità – con la violenta affermazione dell’urbanizzazione e del consumo di suolo – in un Paese che, peraltro, sta vedendo sbriciolati i suoi iconici litorali: se rimanessimo arditamente sul palcoscenico di un festival musicale, potremmo dire che siamo passati da “una rotonda sul mare” ad “una saracinesca sul mare”.
L’ultimo rapporto Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici firmato anche quest’anno congiuntamente dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e dal Sistema nazionale di protezione dell’ambiente (Snpa), costituito dalla federazione di tutte le agenzie regionali per la protezione ambientale (Arpa), infatti, descrivendo lo stato di salute del paesaggio italiano, ne rivela tutte le sue endogene fragilità e, indirettamente, le sue esogene possibilità.
Consumo di suolo e rischio idrogeologico
Secondo le stime del 2019, alla riduzione della popolazione – valutata in 120mila unità e causata dalla crescita dell’emigrazione per lo più giovanile, nonché dal decremento delle natalità (solo 420mila bambini nello stesso periodo) – non è associata una proporzionale de-impermeabilizzazione delle superfici naturali. Secondo uno dei nuovi indicatori qualitativi introdotti nell’indagine di quest’anno, perciò, è come se ogni nuovo nato avesse in “dote” una culla di cemento di 135 metri quadri che, in media, diventano poi una superficie pro-capite di 355 metri quadri. Il consumo di suolo continua ad aumentare.
Alla velocità, ad oggi costante, di 2 metri quadrati al secondo sono stati artificializzati altri 57,5 chilometri quadrati di terreno naturale e agricolo, alla media di quasi 16 ettari al giorno.
È come se realizzassimo cinque piazze del Duomo di Milano ogni giorno. Per ogni giorno dell’anno. In un Paese che, complessivamente, ha il 7,10 per cento del suo territorio impermeabilizzato e oltre il 90 per cento dei comuni ad alto e ad altissimo rischio idrogeologico. In tal senso risulta critica la situazione della Liguria che raggiunge la percentuale del 30 per cento di suolo impermeabilizzato in aree a pericolosità idraulica.
In presenza di cambiamenti climatici e di intensi fenomeni di degrado del suolo, con perdita di biodiversità, il suolo è diventata una delle risorse più vulnerabili in assoluto (Fao, 2017). E questo deterioramento, nello specifico, è avvenuto per il 55 per cento nelle aree urbane a più alta densità e a più alta frammentazione: non solo, dunque, si è peggiorato il comfort termo-igrometrico urbano per la diffusione delle isole di calore; ma anche, conseguentemente, si è ridotta la superficie naturale. Nel solo 2019, infatti, si sono persi 29 metri quadri per ogni ettaro di area verde. Non proprio l’ideale per urbanità che – si dice – devono ricercare e costruire una nuova condizione di naturalità e innescare un nuovo “regime climatico”.
La salute del suolo italiano
A livello territoriale, per una più congrua diagnostica della delicata patologia ambientale, riconosciamo alcuni distinti ambiti omogenei: tra i principali, quello regionale e quello comunale. Nel primo caso, seppur con stime migliori del 2018, si conferma lo stesso podio: il Veneto, con 785 ettari di nuovo consumo di suolo, è la regione più “cemento-oriented”; poi la Lombardia con 642 ettari e, infine, la cosiddetta “regione più bella del mondo”, la Puglia, con 625 ettari. Seguono Sicilia ed Emilia-Romagna, con trend di crescita comunque significativi.
A livello comunale, invece, se da un lato non stupisce che Roma – con 108 ettari persi negli ultimi 12 mesi che salgono a 500 se valutassimo la serie storica dal 2012 – sia rimasta il capoluogo di una regione e di un’area metropolitana particolarmente esposto al fenomeno, anche speculativo quando non abusivo, delle nuove urbanizzazioni per lo più residenziali; dall’altro meraviglia che al secondo posto si insinui il piccolo territorio di Uta, dell’area metropolitana di Cagliari, che ha coperto quasi 60 ettari per realizzare enormi parchi fotovoltaici.
Questa esperienza ci rivela due delle principali anomalie del fenomeno del consumo di suolo: quella degli oneri di urbanizzazione e delle royalties che vengono drenate dai fragili bilanci comunali, già in difficoltà tra spending review e minori entrate fiscali; quella delle energie rinnovabili che coprono le superfici agricole e produttive, in sostituzione dei tetti condominiali o dei capannoni dismessi. Al terzo posto delle città maggiormente attraversate da questa particolare manifestazione di degrado del suolo troviamo Catania, con 48 ettari di suolo convertito a funzioni diverse da quelle originarie.
Ai richiamati ambiti territoriali possono essere associati, inoltre, particolari contesti “funzionali”: le aree costiere e le aree protette. Le prime, particolarmente vulnerabili per il combinato disposto rappresentato dall’erosione e dall’abusivismo edilizio, stanno conoscendo – soprattutto nelle Regioni del Mezzogiorno – una impermeabilizzazione non inferiore del 30 per cento che rischia di esacerbare la pericolosità idraulica. Le seconde, invece, rappresentano la principale “buona notizia” del rapporto Ispra di quest’anno: nel 2019, infatti, sono “solo” 61,5 gli ettari di suolo compromesso, con una riduzione quasi del 50 per cento rispetto all’anno precedente, con 14,7 e 10,3 ettari concentrati, rispettivamente, nel Lazio e in Abruzzo.
Proteggere le aree protette e, nello specifico, il loro patrimonio di biodiversità, non comporta solo il beneficio strumentale di ottemperare ad alcune raccomandazioni internazionali, quali gli Obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030 sul conseguimento dei quali il nostro Paese è in ritardo; ma anche il beneficio economico-ecologico scaturito dalla valorizzazione dei servizi ecosistemici. Dal 2012, infatti, la loro alienazione a causa del consumo di suolo ha generato un danno economico di oltre 3 miliardi di euro ogni anno.
È necessario riformulare il sistema urbano
Non tutti i problemi si risolverebbero con una legge nazionale per il contenimento o l’azzeramento del consumo di suolo (attesa dal 2012), in conformità alla richiesta europea di azzerarlo entro il 2050 e in presenza di dispositivi regionali spesso equivoci e contraddittori, ma certamente aiuterebbe a gestire meglio la complessità contemporanea, tra la necessità di ridurre l’impermeabilizzazione e la volontà di investire nei processi di rigenerazione urbana. Ad oggi, pur essendo state depositate 13 proposte di legge nella congiunta commissione Ambiente e Agricoltura del Senato e pur avendo i suoi componenti spesso ricevuto dei precisi solleciti dal ministro dell’Ambiente Sergio Costa, un provvedimento di sintesi ancora non c’è, testimoniando, dunque, un ritardo anche e soprattutto culturale.
In un Paese che non ha mai investito nella prevenzione e nella manutenzione ordinaria dei suoi paesaggi, per interventi strategici assolutamente prioritari per garantire la sicurezza di tutti i cittadini sia che vivano nelle aree urbane sia in quelle marginali, l’auspicio, infine, è che le ingenti risorse garantite dal recovery fund, destinato ad investimenti generativi e innovativi, o quelle previste dal green deal europeo, possano essere impiegate anche per sanare le diffuse ferite ambientali distribuite sul corpo fragile del nostro Paese e consegnarlo sano alle prossime generazioni.
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