Prendiamoci cura del clima

La Cop 25 è finita, i leader hanno risposto con un sussurro al grido dei giovani

La Cop 25 si è conclusa con due giorni di ritardo. Con pochissimi passi avanti e la prospettiva di un 2020 in salita. A mancare, ancora una volta, è la volontà politica.

Si è chiusa pochi minuti fa la Cop 25, la più difficile degli ultimi anni. Dopo due notti e due giorni, oltre alle due settimane canoniche, di negoziati complessi e disarmanti, il mondo è uscito dalla Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite con pochissimi passi avanti, numerosi punti di stallo e la prospettiva di un 2020 lungo e in salita.

“Enorme distanza tra società civile e governi”

“La scienza è chiara, ma viene ignorata”, ha twittato l’attivista svedese Greta Thunberg nella serata di sabato. Aggiungendo tuttavia che “in ogni caso noi non ci arrendiamo. Abbiamo appena cominciato”. Tuttavia, la delusione è palpabile. Così come l’enorme distanza esistente tra gli allarmi della scienza e le richieste della società civile, da una parte, e i governi, dall’altra.

“Era chiaro da alcuni giorni – ha commentato il vice presidente del Kyoto club, Francesco Ferrante – che questa Cop sarebbe terminata con un fallimento. Il dato politico che emerge è che l’Europa, per quanto portatrice del documento più avanzato, il Green new deal, da sola non basta. Quando ci fu l’unico vero balzo in avanti, a Parigi, fu merito delle amministrazioni di allora di Stati Uniti e Cina. L’Europa deve continuare a mantenere accesa la speranza, ma la verità è che senza i big non si va da nessuna parte”. Dello stesso avviso Catherine Abreu, della rete di ong Climate action network, secondo la quale “non viene data una direzione chiara alle parti sugli obiettivi che occorre centrare il prossimo anno. Lo spirito con il quale si approvò l’Accordo di Parigi oggi sembra un ricordo lontano”. “Il mondo sta gridando per chiedere un’azione concreta ma questo summit ha risposto con un sussurro. Le nazioni più povere stanno lottando per sopravvivere mentre molti governi hanno deciso di fare soltanto pochissimi passi rispetto ai blocchi di partenza. Anziché impegnarsi a tagliare sostanzialmente le emissioni di gas serra, si sono incaponiti sui tecnicismi”, ha commentato l’associazione umanitaria Oxfam.

Il passo indietro di Cina, India, Brasile e Sudafrica

All’alba di domenica si è perfino vociferato sul rischio della mancanza di un numero sufficiente di delegati per poter proseguire i lavori. Moltissimi ministri erano infatti partiti nelle ore precedenti. I lavori sono proseguiti, pure tra grandi difficoltà. A cominciare dall’annoso nodo degli Ndc. Sigla con la quale gli addetti ai lavori indicano le Nationally determined contributions: le promesse di riduzione delle emissioni di CO2 avanzate dai governi di tutto il mondo. Queste sono state inviate all’Unfccc, la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite che organizza le Cop, nel 2015. I calcoli effettuati nel corso del tempo, tuttavia, hanno mostrato che tali impegni, pur se rispettati, non basteranno.

La temperatura è destinata infatti ad aumentare ben oltre la soglia suggerita dagli scienziati di 2 gradi, raggiungendo 3,2 gradi. Nel pomeriggio di giovedì 12, nel pieno di una seduta plenaria, sul punto, era piombato macigno. Cina, India, Brasile e Sudafrica avevano fatto sapere di aver “già proposto il massimo possibile in termini di ambizione climatica”. Il che, tradotto, significa che i governi di queste quattro grandi paesi emergenti non sono pronti a proporre nuovi Ndc.

Un disastro dal punto di vista dei negoziati, tenendo conto del fatto che Cina e India oggi sono responsabili di più di un terzo delle emissioni mondiali di CO2. Senza di loro – e con gli Stati Uniti di Donald Trump in fase di disimpegno – sarà estremamente difficile centrare gli obiettivi climatici.

L’impegno di 80 nazioni per ridurre le emissioni di CO2

Sempre sul fronte degli Ndc la seconda notizia – stavolta positiva – giunta alla Cop 25 di Madrid è il fatto che sono un’ottantina le nazioni che si sono impegnate a consegnare nuove promesse di riduzione della CO2 o che hanno avviato le discussioni interne sul tema. Problema: il peso dei “virtuosi” in termini di quantitativo di emissioni globali è di poco superiore al 10 per cento. Come previsto, infatti, nei due gruppi non sono presenti né Cina, né Stati Uniti. E neppure l’Italia. Ma va detto che il ministro dell’Ambiente Sergio Costa ha assicurato a chiare lettere a LifeGate che “il nostro Paese ci sarà, non c’è alcun dubbio su questo”.

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Il ministro dell’Ambiente Sergio Costa alla Cop 25 di Madrid © Camilla Soldati/LifeGate

Lo stallo sull’articolo 6

Per l’intera durata della conferenza di Madrid, i delegati si sono scontrati quindi sul nodo dell’articolo 6. Quello che avrebbe dovuto indicare le regole che governeranno il nuovo sistema per lo scambio delle quote di emissioni di CO2. Di fronte all’impossibilità di trovare un compromesso tra le nazioni, tutto è stato rimandato alla prossima sessione dell’Unfccc, che si terrà come sempre a Bonn, a giugno.

L’articolo in questione è di gran lunga il più complesso dell’Accordo di Parigi (non a caso, nella capitale francese, fu approvato soltanto all’ultimo momento). Punta a incoraggiare una cooperazione volontaria tra le nazioni di tutto il mondo, nell’ambito dello sforzo per limitare le emissioni globali. Ciò attraverso “un meccanismo per contribuire alla mitigazione della CO2 e promuovere lo sviluppo sostenibile, sotto l’autorità e la guida della Cop”.

Ciò significa che un paese che ha rispettato e perfino superato i propri obiettivi di riduzione può cedere ad altri paesi dei “diritti ad inquinare”. Ad esempio, se una nazione A si fosse impegnata a ridurre le emissioni di 10 miliardi di tonnellate di CO2, ma avesse centrato in realtà un calo pari a 11 miliardi, potrebbe vendere quote di emissioni pari a 1 miliardo sul mercato internazionale. Che potrebbero essere acquistate da una nazione B, che al contrario non ha saputo centrare i propri obiettivi.

Le proteste degli attivisti alla Cop 25 di Madrid
Le proteste degli attivisti il 13 dicembre, l’ultimo giorno ufficiale della Cop 25 a Madrid © Camilla Soldati/LifeGate

In questo modo si potrebbe definire un tetto complessivo di emissioni a livello globale e far sì che esso non venga in ogni caso superato. A Madrid, però, il mondo si è di fatto diviso in più blocchi sulle regole che dovranno governare il meccanismo. Giungendo alla fine, appunto, alla resa. Ciò anche perché nazioni come l’Australia si sono rifiutate di sacrificare i “vecchi” carbon credit che erano stati maturati nell’ambito del meccanismo in vigore negli anni del protocollo di Kyoto. E che rischierebbero di non rientrare più nel nuovo, previsto dall’Accordo di Parigi. “I governi devono ripensare completamente il modo con cui conducono queste trattative, perché l’esito di questa COP è totalmente inaccettabile”, ha aggiunto Jennifer Morgan, direttrice esecutiva di Greenpeace. “Alla Cop 25 servivano decisioni che rispondessero alle sollecitazioni lanciate dalle nuove generazioni, che avessero la scienza come punto di riferimento, che riconoscessero l’urgenza e dichiarassero l’emergenza climatica. Anche per l’irresponsabile debolezza della presidenza cilena, paesi come Brasile e Arabia Saudita hanno invece fatto muro”.

Il tema dei diritti umani alla Cop 25

Altro tema sul quale si è discusso a lungo è quello legato ai diritti umani. Associazioni e organizzazioni non governative presenti alla Cop 25 hanno chiesto a gran voce di integrarne il rispetto in numerosi aspetti dall’Accordo di Parigi. “Nell’ultima bozza di testo per la definizione del sistema per lo scambio di emissioni di CO2 – ha spiegato Chiara Soletti dell’Italian climate network – l’unica menzione ai diritti umani era presente in un rimando al preambolo non vincolante dell’Accordo di Parigi”. Altro punto dolente riguarda poi il Meccanismo di Varsavia sui cosiddetti loss and damage, danni e perdite. Ovvero i trasferimenti di denaro che il Nord del mondo dovrà garantire ai paesi più poveri e vulnerabili di fronte alla crisi climatica, per consentire loro di adattarsi a conseguenze estreme.

Su questo punto il governo spagnolo ha reso nota in l’introduzione del Santiago network, sistema che dovrebbe consentire a organizzazioni internazionali ed esperti di fornire assistenza tecnica alle nazioni più in difficoltà. Si tratta di una delle richieste giunte direttamente dal gruppo dei piccoli stati insulari. Resta tuttavia aperto il nodo dei finanziamenti, che ha rappresentato il cuore delle discussioni sul tema. Senza sufficienti fondi, infatti, per le nazioni povere sarà impossibile fronteggiare la crisi climatica.

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“Il clima non è un business”. Le proteste di Greenpeace la mattina dell’ultimo giorno di negoziati alla Cop 25 © Camilla Soldati/LifeGate

Resta un vuoto che bisogna colmare nel 2020

Una buona notizia, forse l’unica della Cop 25, è arrivata infine dell’inaspettata approvazione del Piano per l’azione di genere (Gender action plan, Gap). Programma volontario dedicato alla promozione dei diritti delle donne e della loro rappresentazione e partecipazione nelle politiche climatiche. “Dopo due anni di intenso lavoro negoziale – spiega Chiara Soletti – si è giunti finalmente alla fine. Durante la Cop 25 abbiamo però vissuto momenti di grande preoccupazione per la rimozione improvvisa dei riferimenti ai diritti umani nel testo, nonostante fossero presenti nella bozza approvata alla Cop 24 di Katowice. Si è temuto che si potesse arrivare ad un accordo con poche implicazioni pratiche, se non addirittura allo stralcio dell’intero programma”.

Alla fine, invece, il Gap è stato approvato. I riferimenti ai diritti umani inseriti. E aggiunta anche la possibilità di accedere direttamente al Green climate fund per poter ottenere i fondi necessari alle iniziative correlate.

Nonostante ciò, il vuoto lasciato dalla Cop 25 resta enorme. E lo si potrà colmare soltanto attraverso uno slancio da parte della politica. Le elezioni che si terranno negli Stati Uniti a novembre saranno, in questo senso, cruciali per il mondo intero, affinché l’Accordo di Parigi non rimanga lettera morta. Prossima tappa a Glasgow, nel Regno Unito, per la Cop 26.

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