La prima volta che ho partecipato ad una conferenza della parti, ormai comunemente conosciuta come Cop, era il 2009 e a Copenhagen si teneva l’incontro che avrebbe dato i lumi ad uno degli accordi più controversi sul clima. Negli anni, ne ho viste altre. Documentate quasi tutte. Poi ho iniziato a concentrarmi soprattutto sui negoziati che avevano ad oggetto quella che oggi mi sento di poter considerare una delle più gravi crisi dei nostri tempi. Più urgente e grave, nei suoi effetti, di quella climatica: la crisi della biodiversità. Ecco perché mentre siedo davanti al computer, pronta a riassumere i risultati della Cop16 appena conclusasi a Cali, in Colombia, provo una sensazione di amarezza, mista a sconforto e frustrazione.
Dopo una maratona di 24 ore in cui i delegati dei 196 paesi che hanno ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica hanno discusso di come progredire sugli obiettivi e i target fissati dall’Accordo di Kunming-Montreal (Kmgbf), i risultati sono deboli e i passi avanti sono simili ad impronte lasciate sulla sabbia poco prima della marea che avanza.
Le discussioni sull’istituzione di un nuovo fondo per la biodiversità, così come altre decisioni chiave, sono state alla fine rinviate, minando la fiducia di chi ci aveva creduto davvero che questa fosse la “Cop della gente” – com’è stato ripetuto più volte – e la plenaria, ricca di abbracci tra le alte cariche presenti, è stata sospesa nella mattinata di sabato 2 novembre perché non c’era più un numero sufficiente di negoziatori per progredire con le decisioni.
The main goal of the COP16 summit was to lay out a detailed funding plan for species protection. But the meeting ran hours over time and ended without an agreement.https://t.co/bhnp4KJ9ib
Tra le buone notizie, c’è l’istituzione del Fondo Cali, dedicato alla condivisione dei benefici derivanti dall’utilizzo delle informazioni sulle sequenze digitali delle risorse genetiche (Dsi, Digitial sequence information), appartenenti a piante e animali, con i paesi da cui provengono. Le risorse, infatti, provengono per lo più da specie che vivono in paesi caratterizzati da un alto tasso di biodiversità e un altrettanto importante livello di povertà diffusa, e trovano impiego in svariati settori, come quello del farmaco e della cosmetica, in grado di fruttare miliardi di fatturato alle multinazionali. La decisione approvata alla Cop16 prevede che le aziende che utilizzano tali dati nei loro prodotti, versino lo 0,1 per cento delle loro entrate o l’1 per cento dei loro profitti nel fondo e, sebbene i dettagli sull’erogazione siano ancora in fase di definizione, è stato concordato che il 50 per cento del ricavato sarà assegnato alle popolazioni indigene e alle comunità locali, sia direttamente che attraverso i relativi governi. Tuttavia, è bene ricordare che gli Stati Uniti, la più grande economia del mondo, è una delle due nazioni che non hanno mai ratificato la Convenzione sulla diversità biologica – l’altra è il Vaticano – il che significa che le aziende statunitensi potrebbero essere ancora meno incentivate ad adeguarsi e pagare una per l’utilizzo di dna estratto da organismi selvatici.
This allows for the effective implementation of Article 8J and the recognition of the traditional knowledge of indigenous peoples and local communities, both for compliance with the CBD and the implementation of the 23 targets of the Global Biodiversity Framework. pic.twitter.com/ERuVDz2XWD
Nonostante le pressanti richieste provenienti dai paesi non industrializzati – sostenuti dal Brasile – nessun passo avanti è stato fatto in merito all’istituzione di un nuovo fondo per la biodiversità. Nel 2022, alla Cop15 di Montreal, 196 paesi si erano infatti accordati per la creazione di un fondo dedicato a progetti di ripristino e conservazione della natura (Global biodiversity framework fund – Gbff), il cui funzionamento dipende dal Fondo mondiale per l’ambiente (Global environment facility, Gef), un’organizzazione internazionale che gestisce i finanziamenti per la protezione ambientale. Nonostante, 12 paesi – Austria, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Regno Unito – si siano impegnati a versare una somma totale pari a 396 milioni di dollari, ad oggi risultano effettivamente stanziati 244,62 milioni di dollari, una somma ben lontana dall’obiettivo di mobilitare 30 miliardi di dollari l’anno entro il 2030. Senza contare la poca autonomia decisionale concessa ai paesi del sud del mondo che pur essendo destinatari della maggior parte dei progetti ad oggi finanziati – su un totale di 22 – sono tutti gestiti da grandi organizzazioni internazionali come Wwf e Conservation international, così come da banche multilaterali di sviluppo e agenzie Onu.
“Nonostante, 12 paesi – Austria, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Norvegia, Provincia del Québec, Spagna e Regno Unito – si siano impegnati a versare una somma totale pari a 396 milioni di dollari, ad oggi risultano effettivamente stanziati 244,62 milioni di dollari, una somma ben lontana dall’obiettivo di mobilitare 30 miliardi di dollari l’anno entro il 2030”.
Fumata nera anche sul tentativo di colmare le lacune relative al monitoraggio e al processo di revisione globale (stocktake) nel 2026 e nel 2030, che contribuirebbe a responsabilizzare i Paesi sull’attuazione dell’Accordo di Kunming-Montreal, così come sulle azioni necessarie ad identificare con chiarezza, e possibilmente eliminare, i sussidi dannosi per la natura.
L’articolo 6 della Convenzione sulle misure generali per la conservazione e l’uso sostenibile delle risorse naturali, infatti, stabilisce che le Parti che l’hanno ratificata devono, in accordo con le loro rispettive capacità, elaborare strategie, piani o programmi nazionali per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica (oppure adattare le esistenti in modo tale da riflettere le misure e gli obiettivi della Convenzione). Esse, inoltre, devono integrare per quanto possibile e come appropriato, la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica nei piani, programmi e politiche settoriali o intersettoriali pertinenti, e procedere con una pianificazione nazionale obbligatoria relativa alla conservazione della biodiversità. Eppure, al termine dell’incontro sono state presentate solo 44 strategie e piani d’azione nazionali per la biodiversità (Nbsap) e 119 parti hanno presentato obiettivi nazionali aggiornati, pari quindi a circa il 63 per cento dei paesi.
Negotiators at #COP16 have weakened a draft decision on climate change and biodiversity, after removing a mention of the global commitment to “transition away” from fossil fuels agreed at last year’s COP28 climate summit in Dubai.https://t.co/FdUiux0rWR
Nonostante i chiari legami tra l’estrazione di combustibili fossili, la perdita di biodiversità e la violazione dei diritti delle popolazioni indigene – ai quali è stata concessa l’istituzione di un organismo permanente di rappresentanza – i combustibili fossili non hanno avuto un ruolo di primo piano nemmeno questa volta. Un finale più che scontato per un capitolo senza fine nella storia del pianeta e l’ennesimo schiaffo in faccia per tutte le persone che, nelle settimane trascorse in Amazzonia, mi hanno portata a sentire il tanfo del petrolio e a vedere come l’oro nero continua ad uccidere tutto ciò che incontra sul suo cammino.
Restano le buone intenzioni della Colombia che, nel corso del negoziato, aveva sostenuto la proposta pionieristica di creare un Trattato di non proliferazione dei combustibili fossili collegando le agende relative alla crisi climatica e la biodiversità.
Buone notizie per gli oceani
Escluso a lungo dai negoziati, l’oceano tira invece un piccolo respiro di sollievo visto che, dopo otto anni di discussioni, uno dei flebili segni di speranza è dettato dall’adozione di un nuovo meccanismo per descrivere le “aree marine ecologicamente o biologicamente significative” (Ebsa). Tale decisione apre formalmente la strada al Trattato globale sugli oceani entro giugno 2025, e comporta l’adozione di una metodologia basata su criteri e metodologie scientifiche per identificare e proteggere le aree marine che sono essenziali per la salute degli oceani e dell’ambiente in generale. Una svolta significativa che potrebbe contribuire concretamente al raggiungimento dell’obiettivo di tutelare il trenta per cento dei mari e delle terre emerse entro il 2030 visto che, ad oggi, risultano protette solo il 17,6 per cento delle terre e delle acque interne e l’8,4 per cento degli oceani e delle aree costiere. Inoltre, un consorzio di undici filantropi, tra cui il Bezos earth fund e la Blue nature alliance, ha promesso di stanziare 51,7 milioni di dollari per sostenere lo sviluppo di aree marine protette in alto mare, una previsione che contribuirà, si spera, all’attuazione del relativo Accordo strategico adottato dalle Nazioni unite nel giugno del 2023 e dopo ben 15 anni di negoziati.
E così, dopo quasi due settimane di incontri e negoziati dentro e fuori la plenaria allestita a Cali, in uno dei paesi più biodiversi al mondo, les jeux sont faits, rien ne va plus . Il palcoscenico si svuota e gli attori si dirigono verso Baku, dove verrà allestito il nuovo spettacolo con la crisi climatica come attrice principale.
Che futuro per la biodiversità?
A noi spettatori resta la speranza di una trama diversa. Eppure, proprio la speranza sembra sempre di più un sentimento sopravvalutato e, oserei dire, quasi indotto con astuzia da chi ha bisogno di farci credere che va tutto ancora bene. Che c’è tempo per agire. E questo nonostante, proprio alla Cop16, l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) abbia presentato la Lista rossa aggiornata delle specie in via d’estinzione ribadendo che, oggi, più di un quarto delle piante e degli animali catalogati stanno scomparendo. Un dato che tristemente rafforza l’allarme lanciato dalla comunità scientifica secondo cui gli esseri umani stanno causando la sesta estinzione di massa il che, tradotto in numeri, significa che sono a rischio circa un milione di specie animali e vegetali e, di queste, il quaranta per cento potrebbe non esistere più entro il 2050.
Ecco che, dunque, sarebbe forse giunto il momento di rifiutare la favola della buonanotte perché, se è vero che la paura è un sentimento in grado di bloccare, lo è altrettanto l’evidenza che nessun vero cambiamento, nessuna lotta, nessuna rivoluzione è mai iniziata da un popolo felice. La speranza sta dimostrando di non avere le potenzialità per spingere all’azione e diventa sempre più un mantra ripetuto da chi non convive, quotidianamente, con la perdita. È un sentimento che fa comodo a chi lo racconta, perché è simile ad un morbido paraocchi da calare all’occorrenza, e a chi lo indossa, perché fornisce sempre una buona scusa per rimandare e delegare la necessità di prendere in mano la situazione. Con buona pace delle rispettive coscienze. Siamo giunti al punto in cui dobbiamo ammettere a noi stessi che far finta che vada tutto bene non ci porterà da nessuna parte e che in ballo c’è non solo la nostra sopravvivenza ma quella di milioni, se non di miliardi di specie che rendono questo pianeta un luogo meraviglioso per cui lottare.
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Siamo stati tre giorni tra borghi, vallate e foreste dell’Appennino centrale, per vedere le misure adottate per favorire la coesistenza tra uomini e orsi marsicani.
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La Cop16 di Cali, in Colombia, è stata sospesa per il mancato raggiungimento del quorum necessario per lo svolgimento della plenaria finale. Tempi supplementari a Roma, nel 2025, sperando che le parti trovino le risorse per tutelare la biodiversità.
Ha 300 anni e può essere visto persino dallo spazio. È stato scoperto nel Triangolo dei Coralli grazie a una spedizione della National Geographic society.