Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.
La Cop26 è andata così
Com’è andata la Cop26, un commento a mente fredda sulla conferenza sul clima di Glasgow. Non è ancora il tempo per abbandonare la speranza.
Questo articolo è tratto dall’episodio della newsletter il Climatariano di martedì 16 novembre
Da dove cominciare per capire com’è andata la Cop26? Analizzare quanto successo avendo vissuto per giorni all’interno delle mura della fiera di Glasgow, come di qualsiasi delle altre città che hanno preceduto questa conferenza, è difficilissimo. Probabilmente cominciando a capire quale fosse l’obiettivo.
Il primo obiettivo era “trovare un obiettivo”. La comunità scientifica, infatti, ci ha fatto capire in ogni modo che mantenere l’aumento della temperatura media della Terra “ben al di sotto dei 2 gradi centigradi”, come fissato dall’Accordo di Parigi nel 2015, non è sufficiente per evitare uno scenario oscuro e imprevedibile. Quindi l’obiettivo principale era mettere nero su bianco che l’unico modo per sopravvivere su questo pianeta fosse rimanere il più vicino possibile a un aumento pari a 1,5 gradi.
Questo obiettivo è stato raggiunto alla Cop26?
Sì, tutti i paesi che fanno parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc), ovvero quasi la totalità delle nazioni della Terra, hanno riconosciuto nel Patto di Glasgow sul clima che “gli impatti dei cambiamenti climatici saranno di gran lunga inferiori se la temperatura aumenterà di 1,5 invece che 2 gradi” e hanno quindi deciso che si sforzeranno “per limitare tale aumento a 1,5 gradi”.
Gli stessi paesi hanno riconosciuto che “limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi richiede riduzioni rapide, drastiche e durature delle emissioni di gas ad effetto serra”, come la CO2 e il metano. Un obiettivo da raggiungere attraverso la “riduzione della CO2 a livello globale del 45 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli registrati nel 2010, per poi raggiungere le emissioni nette zero intorno a metà del secolo”.
Già oggi l’aumento della temperatura è di quasi 1,2 gradi rispetto all’epoca pre-industriale. Quindi dobbiamo fare più che in fretta, ci resta solo questo decennio per tagliare le emissioni. È matematica, è il carbon budget, cioè quante emissioni ci restano prima che sia troppo tardi.
Come leggere questo passaggio?
Da un lato positivamente, perché gli stati hanno finalmente un quadro preciso, quantitativo, di quali devono essere i passi da seguire. Dall’altro, invece, c’è ancora molto lavoro da fare perché scrivere che bisogna “raggiungere le emissioni nette zero intorno a metà del secolo” non equivale a farlo.
Perché hanno scritto “intorno a metà del secolo” invece che 2050?
Perché Cina e India hanno fatto sapere al mondo che loro potranno raggiungere la neutralità climatica (così si definisce il raggiungimento delle emissioni nette zero), rispettivamente, entro il 2060 e il 2070.
E perché Cina e India hanno deciso di ritardare le loro azioni se il resto del mondo o emette già pochissimo (vedi i paesi in via di sviluppo) o ha deciso di darsi come obiettivo il 2050 (vedi l’Unione europea)?
Del concetto della “responsabilità comune ma differenziata” (così viene definito in ambito negoziale), ne abbiamo parlato in parte in questo episodio e il relativo articolo lo potete trovare anche qui. Detto semplice, i paesi che definiamo “occidentali” o industrializzati hanno sulle loro spalle la responsabilità pressoché totale dell’aumento di temperatura che viviamo oggi (quasi 1,2 gradi). Hanno causato circa la metà delle emissioni dal 1850 ad oggi, eppure rappresentano solo il 12 per cento della popolazione globale. Quindi devono essere i primi ad agire, devono dare il buon esempio anche se esistono realtà, come Cina e India, che – in valori assoluti – oggi causano la maggior parte delle emissioni a livello globale. Questo soprattutto perché hanno una popolazione che sfiora i tre miliardi di persone e perché stanno tentando di uscire ora dalla povertà.
Un esempio per capire meglio questo aspetto: nel 2020 un americano ha emesso 14,2 tonnellate di CO2, un cinese quasi la metà: 7,4 tonnellate. E i tanto criticati, attaccati e definiti nelle ultime ore “antisportivi” indiani? Un indiano nel 2020 è stato responsabile di meno di 1,8 tonnellate di CO2. Avete letto bene, uno-virgola-otto. E in India vivono 1,4 miliardi di persone. Un miliardo e quattrocento milioni di persone. Un terzo di questi, cioè un numero di persone paragonabile all’intera popolazione dell’Europa, vive al di sotto della soglia di povertà. Un indiano, quindi, ha il tasso di emissioni pro-capite tra i più bassi al mondo, inferiore a paesi quali il Botswana o il Gabon e paragonabile a quella delle isole Figi, stato insulare che rischia di sparire dalle carte geografiche per l’innalzamento del livello dei mari. L’Italia è a quota 5 tonnellate.
Dicevamo, quindi, che l’obiettivo per non finire “cotti e mangiati” è rimanere entro gli 1,5 gradi di aumento della temperatura e per farlo abbiamo due date di scadenza, una al 2030 e una al 2050 (circa). Eppure sulla tabella di marcia siamo in mega-ritardo perché calcolando le promesse di riduzione fatte fin qui siamo ben oltre (e non ben al di sotto) i 2 gradi. Nessun paese è in linea con quanto chiesto dalla scienza, nemmeno la “vecchia e cara” Europa.
Chi paga la transizione ecologica?
Per garantire una transizione ecologica “rapida e duratura” c’è bisogno di qualcosa che non si può né quantificare, né inventare: la solidarietà. C’è bisogno che i paesi che si sono arricchiti sulle fonti fossili e sulle spalle del resto del mondo, oltre ad agire di più e prima degli altri, destinino parte del loro profitto proprio verso “quel” resto del mondo che per secoli è stato depredato delle risorse naturali e che ora (non in un futuro non meglio precisato, ora!) soffre le conseguenze – manco a dirlo – peggiori della crisi climatica. Questo trasferimento di soldi e tecnologie deve garantire una transizione equa, giusta, che non lasci indietro nessuno, come specificato nel testo del Patto (altro successo diplomatico).
Come vengono trasferiti questi soldi?
Ci sono due modi, il primo era stato annunciato già dall’ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama alla Cop15 del 2009: attraverso un fondo verde per il clima da 100 miliardi di dollari l’anno, dal 2020 al 2025, utili a supportare la transizione ecologica laddove mancano soldi e tecnologie. Ad oggi non sono stati raggiunti nemmeno i 100 miliardi del primo anno (sui 600 miliardi complessivi).
Il secondo modo è quello richiesto dai governi dei paesi in via di sviluppo, ma mai affrontato davvero: ricevere risarcimenti legati ai danni che il riscaldamento globale provocato dai “ricchi” sta già causando in molte aree del pianeta. Un concetto riassunto nell’espressione “loss and damage”, perdita e danni. È l’espressione scelta dai negoziatori per esprimere il concetto di “giustizia climatica”, chiesto invece a gran voce dagli attivisti di tutto il mondo. Un esempio? Chi paga i danni delle alluvioni mai viste prima in paesi dell’Africa subsahariana? Chi paga i danni causati all’agricoltura in Madagascar dove è in corso la prima carestia dovuta al riscaldamento globale? Chi paga il trasferimento di un popolo perché la sua terra è stata sommersa dall’oceano? Secondo questi paesi dovrebbero pagare i veri responsabili. Ma su questo fronte non è stato deciso nulla.
Se il carbone causa danni enormi perché lo si vuole usare ancora?
Questo è il nodo da sciogliere. Senza un sostegno economico e finanziario e senza un adeguato passaggio tecnologico, per i paesi emergenti la via più facile, più economica per sconfiggere la povertà, quella vera, quella che ti fa andare a letto con la fame (sempre che ci sia un tetto sopra il letto), è usare i combustibili fossili, come il carbone. Anche se il carbone è poi responsabile di tutte le catastrofi ambientali e climatiche che stiamo imparando a conoscere. È come se l’India, per citare l’esempio della settimana, si trovasse di fronte all’ingrata scelta del male minore. Meglio morire di fame oggi o a causa di un monsone senza precedenti domani?
Sciogliere questo nodo, far sì che ci si possa sviluppare senza rischiare di rimanere intrappolati in qualche evento meteorologico estremo, convincere i paesi industrializzati a sposare la solidarietà aiutando quelli in via di sviluppo o emergenti, metterà anche questi ultimi in una posizione di apertura e di voglia di partecipazione e condivisione. Senza mettere in discussione qualcosa di basilare come la necessità di abbandonare per sempre il carbone per contrastare la crisi climatica.
Dopo aver letto tutto questo, per voi com’è andata la Cop26? Quanto ritenete giusto attaccare il governo indiano? E quanto dovremmo far pressione sui nostri governi affinché capiscano che la solidarietà e il trasferimento di risorse verso il “resto del mondo” (perché è da lì che viene la nostra ricchezza) è l’unico modo per vincere una guerra che, se vinta, ci vede tutti vincitori e, se persa, ci vede tutti sconfitti?
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