Dal 30 novembre al 12 dicembre si tiene la Cop28 di Dubai, la conferenza sul clima delle Nazioni Unite.
A presiedere la Cop sarà il sultano al-Jaber, la cui nomina è stata fortemente criticata in tutto il mondo.
Mitigazione, loss and damage, picco delle emissioni: cosa ci si aspetta dalla comunità internazionale nei prossimi giorni.
Intanto, un’inchiesta indipendente rivela che gli Emirati Arabi Uniti vorrebbero sfruttare la Cop28 per siglare nuovi accordi fossili.
Sono passati otto anni dalla ventunesima conferenza sul clima delle Nazioni Unite. Era il 2015, infatti, quando nella capitale francese venne approvato l’Accordo di Parigi, al termine della Cop21.
Otto anni. Un periodo di tempo infinitesimale se si ragiona dal punto di vista climatico. Ma che diventa gigantesco a causa del gravissimoritardo che i governi di tutto il mondo hanno ormai accumulato nel rispondere all’emergenza posta dal riscaldamento globale. Non a caso, la comunità scientifica, in modo pressoché unanime, le organizzazioni non governative e le stesse Nazioni Unite sin dal 2016, dalla Cop22 che si tenne a Marrakech, in Marocco, hanno insistito nel chiedere che a quell’accordo fosse data attuazione concreta. Di passi avanti sostanziali, però, ne sono stati fatti troppo pochi. Ed è per questa ragione che la Cop28, in programma a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti dal 30 novembre al 12 dicembre, rappresenta l’ennesimo appuntamento cruciale. L’ennesima ultima spiaggia. L’ennesima ultima chiamata per il pianeta Terra.
Il nodo della presidenza della Cop28
Purtroppo, però, al summit mondiale non si arriva con i migliori auspici. Innanzitutto per chi la ospita. Come noto, a presiedere la Cop sarà Ahmed al-Jaber, amministratore delegato del gigante petrolifero degli Emirati Arabi Uniti, la Abu Dhabi national oil company (Adnoc). Una scelta imbarazzante, che non ha mancato di suscitare forti proteste da parte della società civile. Il rischio, ovvio e palese, è di un conflitto d’interessi tra ciò che è utile al colosso delle fossili emiratense e ciò che, invece, è necessario per il clima.
Al di là, infatti, dei roboanti proclami giunti proprio da chi continua a sfruttare carbone, petrolio e gas, ad oggi per centrare l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi, ovvero limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali, abbiamo una sola strada a disposizione: abbandonare al più presto le fonti fossili e puntare decisamente sullo sviluppo di quelle pulite. Parlare di tecnologie di carbon capture (Ccs) è come parlare di fusione nucleare: si tratta di sistemi che, ad oggi, sono nel primo caso non maturi, nel secondo futuribili, e in entrambi estremamente costosi.
Verso un phase-out, un addio al carbone?
Tuttavia, proprio la presidenza di al-Jaber potrebbe consentire, paradossalmente, di ottenere dei passi avanti per quanto riguarda la più dannosa delle fonti fossili: il carbone. Alla Cop26 di Glasgow, nel 2021, si era accesa una speranza in questo senso. Per alcuni giorni, nelle bozze di dichiarazione conclusiva (la cosiddetta cover decision) era stata indicata la volontà di abbandonare la fonte. Nei documenti infatti campeggiava la dicitura phase-out (uscita, appunto). Ciò con stupore di molti addetti ai lavori, poiché non ci si aspettava un passo avanti così chiaro ed evidente. Alla fine, però, nella dichiarazione finale si scelse una formula ben più debole: soltanto un phase-down (diminuzione).
L’ipotesi è che alla Cop28 al-Jaber voglia tentare quello che, a seconda dei punti di vista, potrebbe essere preso come un colpo di scena o un’immensa operazione di greenwashing. Il sultano potrebbe infatti puntare a non far fallire la conferenza, anche per dare lustro alla diplomazia emiratense. In che modo? Proprio cercando di ottenere l’accordo che mancò a Glasgow sul carbone. La Adnoc, infatti, è attiva nel settore del petrolio: in questo senso, un addio ad una fonte fossile concorrente potrebbe non essere malvisto.
C’è chi vorrebbe fare affari con le fossili, ai negoziati sul clima
Ciò, naturalmente, si scontra col fatto che, alle Cop, vige la regola del consenso: affinché una dichiarazione finale possa essere approvata occorrere l’approvazione di tutte le parti. Ovvero di tutti i quasi 200 governi presenti. il rischio, insomma, è che altre nazioni per le quali il carbone è ancora estremamente importante possano mettersi di traverso. Inoltre, l’ipotesi di buoni propositi da parte della presidenza sembra già scontrarsi con la realtà: un’inchiesta pubblicata dalla Bbc rivela i contenuti di documenti ottenuti da giornalisti indipendenti del Center for climate reporting, secondo i quali gli Emirati starebbero pianificando di sfruttare il loro ruolo di nazione ospitante per concludere accordi su petrolio e gas. In questo senso, sarebbero state già avviate discussioni con una quindicina di stati, tra i quali Mozambico, Canada e Australia. La presidenza della Cop28 ha risposto indicando che gli elementi dell’inchiesta sarebbero “inesatti”.
UAE planned to use its role as host of UN climate talks to strike oil and gas deals with other nations, leaked documents show https://t.co/gZ6sjW4u5o
Si tratta, però, proprio di quel rischio di conflitto d’interessi che è stato da più parti evidenziato. Quanto alle nazioni che potrebbero fare “muro” contro un’eventuale tentativo di affondare il colpo sul carbone, non parliamo soltanto di India, Cina o Australia. Anche numerosi paesi dell’Europa dell’Est sono ancora fortemente dipendenti da tale fonte.e probabilmente è anche per questa ragione che, il 16 ottobre scorso, i paesi dell’Unione europea si sono accontentati di mantenere i loro obiettivi dal punto di vista della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra (-55 per cento di cui al 2030), nonostante un aumento delle ambizioni fosse più che benvenuto.
Possibili passi avanti per l’attuazione del fondo loss and damage
Un’accelerazione alla Cop28 sulla mitigazione è invece quanto mai necessaria. Alla Cop27 che si è tenuta a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la questione non è stata ripresa. Per espressa volontà della presidenza, si è preferito accantonare il tema della mitigazione (ancorché i tempi stringessero in modo drammatico) al fine di poter poter raggiungere un accordo sulla questione del cosiddettoloss and damage. Ovvero la necessità di indennizzare le perdite e i danni subiti dalle nazioni più vulnerabili (e spesso meno responsabili) di fronte ai cambiamenti climatici. L’istituzione di un fondo ad hoc punta a rendere agevole il risarcimento finanziario, ad esempio in caso di inondazioni derivanti dall’innalzamento del livello dei mari, causato a sua volta dalla fusione dei ghiacci polari. Tale strumento, però, va creato da zero: occorrerà decidere di quanti finanziamenti disporrà, chi sarà a metterli a disposizione e quali saranno le modalità per poter potervi attingere.
A Sharm el-Sheikh fu indicato solamente che il fondo sarà destinato ai paesi “particolarmente vulnerabili”. Il che apre ad ampi margini di interpretazioni. Si immagina che per lo meno tutte le piccole nazioni insulari, nonché i cosiddetti “paesi meno avanzati”, potranno contare sui finanziamenti. si tratta di un gruppo di Stati stabilito dalle Nazioni Unite in funzione del prodotto interno lordo o dello Human development index (indicatore di sviluppo umano alternativo al Pil). Ne fanno parte, ad esempio Afghanistan, Bangladesh, Haiti o ancora Madagascar. Ma non ne fa parte il Pakistan, il cui territorio è stato però letteralmente devastato dalle inondazioni nel 2022, e che per questo si trova ad affrontare costi immensi per la ricostruzione, stimati inoltre 30 miliardi di dollari.
Global stocktake: alla Cop28 il primo va approvato il bilancio sull’azione climatica
Ciò si aggiunge il capitolo dei fondi per l’adattamento. Ovvero per tutti gli aggiustamenti infrastrutturali che le nazioni vulnerabili dovranno effettuare per limitare gli impatti dei cambiamenti climatici. In questo caso, dunque, non si tratta di riparare danni già subiti ma di tentare di limitarne in futuro, con la prevenzione. Anche in questo caso gli stanziamenti delle nazioni ricche, e più responsabili del riscaldamento globale, a favore di quelle più povere sono infinitamente più bassi rispetto alle necessità.
Infine, alla Cop28 si tenterà per la prima volta di negoziare, scrivere e approvare un primo global stocktake, cioè il primo bilancio globale dell’azione climatica. Ovvero un documento che si è in grado di far capire su quale traiettoria siamo in termini di mitigazione del riscaldamento globale, nonché di adattamento ai suoi effetti. È facile prevedere che anche in questo senso i punti di vista espressi dai singoli governi saranno estremamente diversi tra loro. La speranza è che a prevalere possa essere la scienza. Benché la soglia degli 1,5 gradi si stia sempre più avvicinando, infatti, abbiamo ancora la possibilità di farcela. E, anche qualora la si dovesse superare, ogni decimo di grado conterà. Ogni decimo di grado significherà garantire meno danni, meno impatti economici e salvare centinaia di migliaia di vite.
Ufficializzare il picco delle emissioni nel 2025, tra poco più di un anno
A prescindere da quanto si faccia in termini di promesse di riduzione, di mitigazione e quant’altro, le linee guida definite dal global stocktake devono essere adottate e usate come timone. Nel documento rilasciato dalla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) e che la Cop28 deve discutere e adottare si fa riferimento alla necessità di raggiungere il picco delle emissioni nel 2025 per cercare di rimanere nel solco dei 2 gradi di aumento della temperatura media globale. E per farlo bisogna, ormai l’abbiamo imparato, triplicare il ritmo annuale con cui installiamo nuova potenza rinnovabile e raddoppiare l’efficienza energetica. Un punto cruciale questo, su cui anche Stati Uniti e Cina hanno convenuto.
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