La Cop28 è finita, ma bisogna essere consapevoli del fatto che il vero test risiede altrove. Dalla disinformazione al ruolo delle città, ciò che conta avviene lontano dai riflettori.
Su come sia andata la Cop28 si è per fortuna scritto e discusso molto negli ultimi giorni. Credo quindi che i contributi aggiuntivi possano concentrarsi su una domanda particolarmente tecnica e sofisticata: e mo’, che si fa?
La prima cosa credo sia equipaggiarsi per far fronte alla crescente e sofisticata, questa davvero, disinformazione sulla crisi climatica. Lo abbiamo visto anche a questa Cop, grazie al Guardian, che ha fatto uscire alcune affermazioni del Presidente di Cop28 Al Jaber, il quale pungolato da Mary Robinson, sosteneva come l’uscita dal fossile avrebbe riportato gli uomini nelle caverne. Affermazioni la cui sostanza è poi stata smentita dal Sultano. Tuttavia, la quantità di disinformazione antiscientifica, fake news, opposizione politica e lobbista organizzata sul fenomeno climatico e sulle implicazioni della conversione ecologica è pari se non maggiore a quella che ha “goduto” il fenomeno migratorio negli anni prima della pandemia. I trend sulle tesi complottiste e antiscientifiche legate al clima cominciano ad essere studiati e analizzati: chiunque sia impegnato oggi nel contrasto alla crisi climatica deve esserne a conoscenza e arricchire la propria cassetta degli attrezzi di alcuni strumenti nuovi per farci fronte.
La seconda questione è proprio una proposta sul primo strumento per la nostra nuova cassetta. È giunto il momento di adottare una narrazione molto più offensiva sulle fonti fossili, fondata su evidenze scientifiche, che non sia solo centrata sugli evidenti impatti climatici dell’estrazione, produzione, distribuzione e consumo energetico di carbone, petrolio e gas, ma anche e soprattutto sulle profonde ingiustizie sociali ed economiche associate alla (tossico)dipendenza da fossile delle nostre economie. Grazie innanzitutto al Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si è riusciti quest’anno a tracciare una chiara linea di demarcazione del dibattito che ha messo al centro dei negoziati la questione delle fonti fossili. A partire dalla spinta data a settembre dal Summit mondiale sul Clima, voluto e organizzato da Guterres (poco seguito dai media nostrani ma trampolino di lancio fondamentale per questa Cop), e grazie alla mobilitazione di attivisti, negoziatori, sindaci, popolazioni indigene, giornalisti, leader di imprese, la Cop28, sebbene abbia fallito nel riconoscere il bisogno dell’eliminazione graduale (“phase out”) delle fonti fossili, ha avuto innanzitutto il merito di non lasciare più spazio a interpretazioni alternative.
My message to young people at #COP28 & climate activists around the world:
The fight for keeping temperature rise to 1.5°C is not over.
Come ha già scritto Ferdinando Cotugno su Il Domani “l’idea che il clima fosse un problema di combustibili fossili era il messaggio di scienza e ambientalisti: ora è patrimonio della comunità politica delle nazioni”. Partendo da qui, il prossimo passo è quello di mettere ancora più a nudo il re. Il modello di sviluppo fondato sui combustibili fossili non è solo disastroso dal punto di vista climatico, ma è intriso di disuguaglianza e ingiustizie. Le comunità la cui vita è legata ai luoghi di estrazione si ammalano di più e sono più povere. L’enorme quantità di denaro pubblico usato per sussidiare e sovvenzionare la produzione del fossile crea extraprofitti per pochi invece che benessere e ricchezza per molti. La volatilità dei prezzi legati al gas produce bollette altissime e nei paesi in via di sviluppo i sussidi pubblici per il consumo energetico legato al fossile non beneficiano le fasce più deboli ma quelle più benestanti. È un paradosso possibile solo in quest’epoca bizzarra in cui viviamo che l’onere della prova su cosa sia equo e non elitario sia sempre messo sulla conversione ecologica e non su un’industria inquinante, insicura e dannosa per l’ambiente e le persone. Cominciamo a ribaltarlo quest’onere.
La terza questione è la brugola della nostra rinnovata cassetta: lo strumento decisivo per la nostra impresa. Dare concretezza e tangibilità alla troppo spesso evocata ma non praticata “transizione giusta”. O “conversione ecologica socialmente desiderabile” per dirla con Alexander Langer. Il Green New Deal europeo è stato un fondamentale pilastro istituzionale nella lotta alla crisi climatica ma ha rivelato la sua fragilità (e temo lo farà ancora di più durante l’imminente campagna elettorale europea) proprio nella questione sociale e lavorativa, non sufficientemente integrata né nelle misure né nella comunicazione della riforma. Anche nell’avvicinamento e svolgimento di Cop28, le argomentazioni principali usate dai lobbisti del fossile contro il “phase out” erano proprio quelle della contrapposizione tra politiche climatiche e politiche economiche, tra clima e lavoro. Dimostrare non solo che la transizione energetica produce più lavoro del cosiddetto “business as usual”, come già stabilito dalle analisi scientifiche, ma che le opportunità della transizione siano davvero per tutti, è e sarà la cartina tornasole del nostro successo. Nessun modello è perfetto, ma per capire come fare politiche economiche, sociali e climatiche insieme potrebbe essere utile, in questo caso, guardare oltreoceano.
To those who opposed a clear reference to phase out of fossil fuels during the #COP28 Climate Conference, I want to say:
Whether you like it or not, fossil fuel phase out is inevitable. Let’s hope it doesn’t come too late. pic.twitter.com/q2LqMw75K1
Non solo all’Inflation Reduction Act dell’amministrazione Biden, uno dei più grandi investimenti pubblici sul clima: costruito insieme ai sindacati e pensato come una politica sul lavoro e contro l’inflazione che colpisce le classi medie. Ma soprattutto a Justice 40, una misura federale che richiede che il quaranta per cento di certi investimenti federali (tra cui su clima, ambiente ed energia) vadano direttamente a beneficiare le persone più povere, le comunità più vulnerabili all’inquinamento, e chi si batte per la giustizia climatica. Oppure si può guardare ad alcune delle grandi città del mondo che stanno mettendo in pratica politiche di riduzione della domanda dei combustibili fossili in modo equo ed inclusivo. Come Varsavia, che all’apice dello scontro con un governo nazionale negazionista e autoritario, ha sviluppato un intervento di rimozione delle stufe a carbone a favore dell’installazione di pompe di calore nelle case popolari e nei quartieri più difficili, bypassando le caldaie a gas e riducendo la povertà energetica là dove c’era più bisogno.
E a proposito di città, arrivo alla quarta e ultima questione. La lotta alla crisi climatica può essere sia più efficace che giusta se mette al centro i territori, le comunità locali, le città. Alla Cop28, per la prima volta, si sono portati i bisogni locali e le voci dei sindaci nel cuore dei negoziati, grazie al primo “Local Climate Action Summit” che si è tenuto nel quadro del Summit dei Leader mondiali durante i primi giorni della Cop. Non solo. Più di settanta stati, tra cui Brasile, Stati Uniti e Italia, hanno aderito all’iniziativa promossa dalla Presidenza di Cop “Coalition For High Ambition Multilevel Partnerships” in cui i governi si impegnano a includere le città e le rispettive politiche climatiche nell’elaborazione dei cosiddetti Ndcs, gli obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni che dovranno essere aggiornati nel 2025. Nella rete C40 Cities, 75 per cento delle nostre città stanno riducendo le emissioni pro capita più velocemente dei rispettivi governi.
Sono migliaia le città che hanno piani compatibili con l’Accordo di Parigi a differenza degli stati nazionali che si contano sulle dita di una mano. Sono moltissimi gli esempi di politiche urbane capaci di ridurre le emissioni e far fronte agli impatti della crisi in modo equo e inclusivo: da Jakarta che ha raddoppiato il trasporto pubblico riducendo i costi sulle famiglie a Barcellona che punta all’eliminazione della povertà energetica attraverso la formazione di “advisor energetici” dedicati alle fasce più vulnerabili e l’aumento dell’efficienza energetica. Infine, durante questa Cop, i sindaci hanno dimostrato chiaramente da che parte stare sulla questione delle fonti fossili: sostenendo il Segretario Generale delle Nazioni Unite, partecipando agli appelli collettivi sul phase out ed esprimendo un chiaro posizionamento attraverso la lettera aperta ai Capi di Stato da parte dei due co-presidenti di C40. Serve quindi che ci sia una maggiore attenzione al ruolo che le città possono avere nella conversione ecologica, nel racconto dei media, nell’investimento pubblico e privato, nel sostegno da parte della società civile, nei sistemi di governance nazionali ed europei. Per esempio, per essere efficace il Green New Deal deve essere molto più capace di passare dalle stanze di Bruxelles all’implementazione reale nelle strade delle nostre città. E l’unico modo per farlo è attraverso l’ascolto e il coinvolgimento reale di chi quelle strade le abita e le governa.
La Cop28 è finita e credo che chiunque abbia contribuito a tenere alta la pressione e non permettere ai lobbisti e agli interessi organizzati di prendere totalmente il sopravvento debba essere orgoglioso. Orgoglioso, ma perennemente vigile e consapevole che il vero test non è negli accordi, ma nell’azione quotidiana lontana dai riflettori.
Si parla tanto di finanza climatica, di numeri, di cifre. Ma ogni dato ha un significato preciso, che non bisogna dimenticare in queste ore di negoziati cruciali alla Cop29 di Baku.
Basta con i “teatrini”. Qua si fa l’azione per il clima, o si muore. Dalla Cop29 arriva un chiaro messaggio a mettere da parte le strategie e gli individualismi.
L’ad del colosso statunitense, Darren Woods, ha parlato dalla Cop29 di Baku. Exxon prevede di investire nella transizione oltre 20 miliardi di dollari entro il 2027.
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, intervenendo alla Cop29 a Baku, ha ribadito il proprio approccio in materia di lotta ai cambiamenti climatici.