Cop29 di Baku, cosa è andato bene e cosa no

Finanza climatica, carbon credit, gender, mitigazione. La Cop29 si è chiusa risultati difficilmente catalogabili in maniera netta come positivi o negativi.

La Cop29, la ventinovesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, ha chiuso i battenti a Baku, in Azerbaigian, nella notte tra sabato e domenica, dopo tredici giorni di discussioni estremamente complesse. Rese tese dalle resistenze del mondo ricco ad accettare di pagare la maggior parte del prezzo che i cambiamenti climatici ci impongono. Dallo scemare delle fiducia di una fetta non indifferente del Sud del mondo non soltanto nei confronti dei paesi sviluppati, ma anche nello stesso processo multilaterale delle Cop. Dall’ennesima presidenza affidata a un petro-stato. Dalla presenza massiccia della lobby del settore fossile. E, non da ultimo, da un contesto geopolitico difficilissimo, in un impasto di tensioni, guerre, crisi, condito dal ritorno imminente di un negazionista climatico alla guida della prima economia del mondo.

Con quali richieste si è arrivati alla Cop29 di Baku

Non sorprende, perciò, né che si siano dovuti giocare i “tempi supplementari” per raggiungere un accordo (la chiusura della Cop29 era prevista nella serata di venerdì), né che quest’ultimo, alla fine, abbia scontentato fortemente un bel pezzo del Pianeta. Ma quali sono le ragioni delle critiche? E quali sono stati invece i passi avanti, benché spesso insufficienti e non privi di punti interrogativi?

Il principale obiettivo della Cop29 di Baku era legato alla creazione di meccanismi utili per mobilitare quella che viene definita finanza climatica. Alla Cop15 di Copenaghen, nel 2009, il mondo ricco – ammettendo di essere il principale responsabile delle emissioni di gas ad effetto serra – aveva promesso trasferimenti di almeno 100 miliardi di dollari all’anno a favore dei paesi più vulnerabili e meno ricchi. Tale impegno è stato rispettato per intero, però, solo tredici anni dopo, nel 2022.

Nel frattempo, gli eventi meteorologici estremi causati dal riscaldamento globale si sono moltiplicati, sia in termini di frequenza che di intensità. E con essi i costi conseguenti. Prima della Cop29 l’Unfccc – la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici – aveva chiesto a un gruppo di esperti di quantificare i bisogni delle nazioni del Sud del mondo (Cina esclusa). Ciò sia in termini di diminuzione delle emissioni di CO2, sia in termini di adattamento agli impatti del riscaldamento globale, sia per fronteggiare le perdite e i danni subiti. Risposta: serviranno 2.400 miliardi di dollari all’anno.

Il mercato dei carbon credit

Nel primo giorno della Cop29 è stato annunciato immediatamente un primo risultato: l’adozione delle regole per il funzionamento del controverso mercato dei carbon credit. Si tratta di un sistema, previsto dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che permette di scambiare dei “diritti ad inquinare”: una nazione o un’azienda che non riescono a centrare i propri obiettivi di riduzione dell’emissione di gas ad effetto serra possono compensare tale mancanza attraverso l’acquisto, appunto, di carbon credit. L’idea è che il dover pagare per poter inquinare di più rappresenti un deterrente e spinga governi e imprese ad essere più virtuosi.

Aliyev
Il presidente azero Ilham Aliyev nel suo discorso di apertura della Cop29 in Azerbaigian © Cop29 press office

Dopo ben nove anni di negoziati, dunque, finalmente un passo avanti concreto è stato effettuato su uno dei meccanismi considerati più importanti. Vanno però sottolineati due aspetti: il primo è che, contrariamente a quanto indicato dalla presidenza azera della Cop29, non tutte le regole di funzionamento sono in realtà state stabilite. Alcuni negoziatori europei lo avevano ammesso sin da subito. Isa Mulder, di Carbon market watch, ha confermato che “i difetti dell’articolo 6 non sono stati purtroppo risolti. Sembra che i paesi fossero più disposti ad accettare regole insufficienti e gestirne poi dopo le conseguenze, piuttosto che prevenire queste stesse conseguenze”.

La finanza climatica

I vari gruppi di paesi in via di sviluppo presenti alla Cop29 hanno chiesto 1.300  miliardi di dollari alle economie sviluppate (inizialmente non si erano fatte cifre, successivamente si era parlato di mille). Alla fine, queste ultime si sono impegnate a stanziarne solamente 300. La parola “decide” (decides) è stata utilizzata infatti soltanto per questi 300 miliardi. In un altro paragrafo, il riferimento alla cifra ben più alta di 1.300 miliardi è stato inserito come semplice “richiesta” (calls on), senza imporre alcun obbligo in capo alle nazioni ricche. La delusione da parte del Sud del mondo è stata perciò palpabile, con in particolare India e Nigeria che al termine della Cop29 hanno tuonato nel corso dell’assemblea plenaria. Mentre le organizzazioni non governative hanno parlato senza mezzi termini di “tradimento”.

Ma per quale ragione i paesi in via di sviluppo hanno accolto così male la promessa di 300 miliardi? Non si tratta, comunque, del triplo rispetto a quanto indicato nel 2009? Le ragioni della delusione sono politiche e tecniche. In primo luogo, la resistenza opposta dal mondo ricco è apparsa inaccettabile di fronte all’aggravarsi della crisi climatica: “I governi sembrano aver dimenticato il motivo per cui siamo tutti qui: salvare vite umane”, ha dichiarato Tina Stege, inviata speciale per il clima delle Isole Marshall.

Ma non è tutto: il testo sulla finanza climatica licenziato alla Cop29 non indica che dovranno essere unicamente i paesi ricchi a farsi carico degli oneri legati ai 300 miliardi. C’è scritto che essi dovranno essere “in prima fila”, il che non è la stessa cosa (né indica una quota precisa). Inoltre, si fa riferimento esplicitamente a “un’ampia gamma di fonti, pubbliche e private, bilaterali e multilaterali”, il che lascia intendere che i capitali non dovranno uscire soltanto dalle casse pubbliche. Ciò, agli occhi del Sud del mondo, rende gli stanziamenti meno sicuri.

Per questo i paesi in via di sviluppo avevano usato la metafora dell’avocado: la richiesta era di avere un “nocciolo duro”, sul quale poter fare affidamento, al quale affiancare poi anche la mobilitazione di capitali di diversa provenienza. In altri termini, la richiesta era che venisse specificato in modo molto più chiaro da dove dovessero provenire i 300 miliardi di dollari, facendo in modo che arrivassero direttamente dai governi, il che avrebbe permesso successivamente di mobilitare altre risorse. Ciò in quanto i fondi privati spesso “seguono” quelli pubblici. Così, secondo il Sud del mondo, si sarebbe potuto davvero puntare all’obiettivo complessivo dei 1.300 miliardi.

Sulla questione della Cina, considerata ancora paese in via di sviluppo dall’Unfccc ma che oggettivamente è cresciuta molto negli ultimi decenni, si è scelta una formula che le consentirà di contribuire in modo volontario. È stato invece stralciato un principio che era apparso in alcune delle bozze circolate a Baku, e che avrebbe previsto un calcolo dei contributi di tutti i governi in funzione, da un lato, delle emissioni storiche, dall’altro del prodotto interno lordo pro-capite. Si sarebbe trattato di un passo avanti enorme, poiché avrebbe imposto un principio di giustizia climatica valido per tutti. Nel testo finale, però, il riferimento è stato appunto eliminato.

Il principio del non-indebitamento e la “Strada per Belém”

Nel testo è però almeno passato un principio che era stato dapprima inserito,  nelle bozze che via via si sono susseguite sui tavoli dei negoziatori, quindi stralciato e infine riproposto definitivamente. Si tratta della richiesta che gli strumenti utilizzati per fornire denaro ai Paesi poveri “non creino debito”. Una delle ragioni per le quali le nazioni meno abbienti faticano a contrastare i cambiamenti climatici e adattarsi ai loro impatti è legata proprio al fatto che le loro economie sono spesso schiacciate dal debito estero e mancano di conseguenza dei fondi necessari. L’idea è perciò quella di privilegiare le sovvenzioni ai prestiti.

Alla Cop29 di Baku si è arrivati all'ultimo giorno, con ancora numerose difficoltà
I negoziati alla Cop29 di Baku sono stati particolarmente difficili © Sean Gallup/Getty Images

Consci delle difficoltà incontrate nei negoziati a Baku, i governi hanno accettato di inserire nel testo finale sulla finanza climatica un paragrafo che indica la creazione di una “Strada da Baku a Belém verso i 1.300 miliardi”. Non si sa in cosa consisterà concretamente, ma è chiaro che si tratta di una richiesta giunta dai paesi in via di sviluppo, che sperano si possa evitare di dover aspettare un anno per cercare di dare corpo e sostanza alle indicazioni per ora troppo vaghe sugli obiettivi finanziari.

La mitigazione dei cambiamenti climatici

Un passo indietro, invece, è stato registrato sull’Uae Dialogue: il “Dialogo degli Emirati Arabi Uniti”, introdotto alla Cop28 di Dubai con l’obiettivo di dare attuazione concreta al Global Stocktake, il principale documento pubblicato alla conferenza del 2023. Ciò che si attendeva era una “traduzione” in termini concreti della discussa locuzione transitioning away from fossil fuels”, traducibile come “processo di transizione per superare le fonti fossili”. Una frase oggettivamente interpretabile, priva di date e indicazioni concrete.

Ebbene, a Baku si è trattato a lungo ma alla fine sul testo permanevano talmente tanti punti di disaccordo che il presidente della Cop29 Mukhtar Babayev ha annunciato che “alla luce delle preoccupazioni espresse dalle parti”, se ne riparlerà alla Cop30 di Belém, in Brasile. Un problema, perché la mitigazione dei cambiamenti climatici è probabilmente il nodo più importante in assoluto da affrontare (anche gli stanziamenti della finanza climatica saranno inferiori se si conterrà il riscaldamento globale). Ma nel caso specifico anche un sollievo in qualche modo: nel testo era infatti presente un passaggio nel quale si arrivava a “riaffermare il fatto che i combustibili di transizione possono giovare un ruolo nel facilitare la transizione energetica, assicurando la sicurezza”. Un riferimento chiaro al gas, che per l’Azerbaigian rappresenta una fonte di introiti enorme (e “un dono di Dio”, per usare le parole del presidente della nazione asiatica, Ilhem Aliyev). Meglio insomma un non-accordo che un cattivo accordo, da questo punto di vista.

In attesa delle nuove Nationally determined contributions (le promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra avanzate dagli stati di tutto il mondo) che saranno depositata a inizio 2025, la Cop29 è per lo meno la terza di seguito nella quale gli avanzamenti su questo fronte sono davvero troppo pochi. L’anodino “transitioning away” della Cop28 era stato infatti preceduto, alla Cop27 di Sharm el-Sheikh da un sostanziale accantonamento della questione: in Egitto si era deciso di concentrarsi sul tema, pur importante, del loss and damage (le perdite e i danni patiti dalle nazioni meno responsabili più esposte alle conseguenze dei cambiamenti climatici).

A Baku, sulla mitigazione, di fatto si è scelto soltanto di proseguire le discussioni. Il testo sull’attuazione concreta del Global Stocktake verrà dunque discusso nella sessione intermedia prevista nel mese di giugno a Bonn, in Germania. Che da semplice appuntamento dedicato al lavoro preparatorio per la Cop30 di Belém, quest’anno si trasformerà probabilmente in un vero e proprio negoziato. “Ci si poteva attendere per lo meno una ripresa dei termini indicati alla Cop29, ma non si è riusciti a fare neppure questo”, ha commentato all’agenzia Afp François Gemenne, ricercatore dell’università di Liegi.

I cambiamenti climatici e la parità di genere

La questoine della parità di genere, allo stesso modo, non sembra essere stata al centro della Cop29. A gennaio aveva destato scalpore la notizia di un comitato organizzativo della conferenza composto da soli uomini. Di fronte alle critiche piovute da tutto il mondo, la presidenza azera era corsa ai ripari modificando in fretta e furia i membri, ma la scarsa attenzione al tema era apparsa ormai palese.

Nel corso dei negoziati, inoltre, i governi erano chiamati a concordare un’estensione (di cinque o dieci anni) del piano d’azione sulla parità di genere, che attende attuazione dalla Cop20 di Lima del 2014. Anche su questo punto, però, le divisioni sono state ampie, a partire dalla durata dell’estensione stessa, su cui non c’è stato accordo. Allo stesso modo, i paesi del Sud hanno chiesto finanziamenti per attuare politiche rivolte alla parità di genere, mentre quelli del Nord hanno chiesto che non fosse quella la sede per discutere di fondi, proponendo che si concentrasse tutto sui tavoli dei negoziati per la finanza climatica.

Ma a dividere è stato anche il linguaggio sulla diversità di genere. Formule come “diversità” e “diritti umani” sono stati oggetto di grandi discussioni tra i gruppo. Con in particolare Unione Europea e Ailac (America Latina e Caraibi) a favore; G77, Russia, Indonesia e paesi africani contrari. Alla fine, si è deciso di eliminare i termini “intersezionalità” e “diversità”, ma per lo meno si è accettato di mantenere un riferimento ai diritti umani.

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