Nell’anno che, salvo miracoli, sarà il più caldo di sempre e il primo a superare gli 1,5 gradiCelsius di aumento della temperatura media globale rispetto all’era preindustriale (1850-1900), i leader dell’intera comunità internazionale tornano a incontrarsi per discutere del futuro del clima. Che è anche il futuro di ciascuno e ciascuna di noi. Da lunedì 11 novembre a venerdì 22 novembre a Baku, capitale dell’Azerbaigian, prende il via la ventinovesima conferenza delle parti (Cop29) che fanno parte della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc).
Per avere un’idea del valore di questo appuntamento, basta dare uno sguardo ai dati. Per evitare che la crisi climatica assuma le dimensioni di una catastrofe, l’aumento della temperatura media globale entro la fine del secolo dovrebbe restare entro gli 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Su questo, la comunità scientifica è netta. E anche l’Accordo di Parigi sul clima chiede agli stati di fare tutto il possibile per non superare tale soglia.
Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) esiste ancora uno spiraglio per centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi, ma richiede un impegno drasticamente superiore a quello attuale. Sempre l’Accordo di Parigi chiede agli stati di presentare periodicamente le proprie promesse di riduzione delle emissioni (Nationally determined contributions, Ndc). Quelle in vigore porterebbero la temperatura media globale a crescere di almeno 2,6 gradi nel corso di questo secolo, con il rischio di arrivare a 3,1 gradi. Quando le dovranno aggiornare, all’inizio del 2025, i governi dovranno essere ben più coraggiosi. Per centrare l’obiettivo degli 1,5 gradi serve una riduzione complessiva delle emissioni pari al 42 per cento entro il 2030 e al 57 per cento entro il 2035 rispetto ai livelli del 2019.
Com’era andata a finire la Cop28
Ci si può attendere coraggio dalle conferenze sul clima? Dipende, perché la loro storia è fatta di alti e bassi, di speranze e delusioni. Soprattutto, è una storia fatta di dialogo. La Cop, infatti, è l’organo di governo supremo di una convenzione internazionale; in questo caso l’Unfccc, di cui fanno parte 196 paesi. 196 soggetti molto diversi tra loro che devono trovare una posizione comune su argomenti che determineranno le sorti del pianeta e anche dell’intero sistema economico in cui viviamo.
Ci sono stati alti e bassi anche durante la Cop28, tenutasi a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, nella prima metà di dicembre del 2023. Con una mossa del tutto inedita, nel primo giorno dei negoziati è stato raggiunto l’accordo per istituire il fondo per il risarcimento delle perdite e dei danni legati al clima (loss and damage). Più controverso il documento finale, il global shocktake, cioè il bilancio quinquennale dell’impatto delle azioni per il clima adottate dagli stati membri dell’Unfccc. Per la prima volta, il documento parla esplicitamente della necessità di allontanarsi dai combustibili fossili: lo fa però adottando una formula ambigua, transitioning away, più forte di phase down (ridurre) ma più debole di phase out (abbandonare).
Cosa succederà alla Cop29 di Baku?
A raccogliere il testimone è la Cop29 di Baku, ospitata dalla capitale azera dall’11 al 22 novembre 2024. Anche se molti già guardano alla successiva, la Cop30 che si terrà a Belem, nell’Amazzonia brasiliana, nel 2025.
Il paese ospitante, l’Azerbaigian
Come la conferenza sul clima che l’ha preceduta, anche la Cop29 è ospitata da un paese che impernia la propria economia sui combustibili fossili. Le riserve di petrolio e gas naturale dell’Azerbaigian, d’altra parte, sono ingenti: l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) le calcola rispettivamente in 7 miliardi di barili (a terra e nel mar Caspio) e 2.500 miliardi di metri cubi. Sono stati proprio gli introiti degli idrocarburi a permettere allo stato, divenuto indipendente nel 1991, di decuplicare il proprio prodotto interno lordo pro capite tra il 2000 e il 2014. Ancora oggi, i sussidi pubblici continuano a focalizzarsi sulle fonti fossili: si spiega così il fatto che le rinnovabili producano uno striminzito 1,5 per cento dell’energia. In sostanza, riassume il sito specializzato Carbon Brief, il paese che ospita la Cop29 è impreparato alla transizione energetica. In termini sia economici, sia infrastrutturali. Basti pensare che, senza petrolio e gas, l’Azerbaigian vedrebbe svanire il 95 per cento dell’attuale valore delle sue esportazioni.
Anche il presidente della Cop29, come il suo predecessore Sultan Ahmed Al Jaber, ha un passato nell’industria petrolifera. Si chiama Mukhtar Babayev, ha lavorato per ventisei anni per Socar (la State oil company of Azerbaijan Republic, di proprietà pubblica) e dal 2018 ricopre il ruolo di ministro dell’Ambiente e delle risorse naturali. Il principale negoziatore è Yalchin Rafiyev, viceministro degli esteri.
COP29 President Designate Mukhtar Babayev attended the coordination meeting for Alliance of Small Island States (AOSIS), in the lead up to #COP29Azerbaijan. #COP29 will be an essential platform for all stakeholders to work together towards a more resilient and climate-adaptive… pic.twitter.com/MJUiE2uUOF
21 novembre: natura e biodiversità / popoli indigeni / parità di genere / oceani e zone costiere
22 novembre: negoziati finali
Chi partecipa ai negoziati
Ogni paese invia alla Cop una delegazione che è guidata dal ministro o dalla ministra competente, affiancato da altri funzionari. Alcuni paesi scelgono anche un inviato speciale per il clima: può trattarsi di un diplomatico o di un profilo più tecnico. Esiste poi un’area ad hoc per le organizzazioni non governative e la società civile, detta green zone (per differenziarla dalla blue zone dove si svolgono i negoziati).
Trattandosi di un palcoscenico di grande rilievo, di norma sono presenti anche i capi di stato e di governo. Su questo fronte, però, la Cop29 di Baku vede già parecchie defezioni. Non ci saranno Joe Biden (Stati Uniti), Lula (Brasile), Modi (India), Xi Jinping (Cina), Ursula von der Leyen (Commissione europea), Anthony Albanese (Australia), Olaf Scholz (Germania), Dick Schoof (Paesi Bassi), Emmanuel Macron (Francia), Justin Trudeau (Canada), Cyril Ramaphosa (Sudafrica).
Deve essere la Cop della finanza
Forse non sarà l’argomento più accattivante al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, ma senza dubbio è quello che fa la differenza tra le promesse rimaste sulla carta e quelle realizzate. Stiamo parlando della finanza, la vera protagonista della Cop29 di Baku.
C’erano una volta i 100 miliardi di dollari all’anno per il clima
Partiamo dal principio. Nel 2009, alla Cop15 di Copenaghen, i paesi industrializzati hanno promesso di mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 per permettere ai paesi in via di sviluppo di lavorare per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici.
Un proposito che è stato formalizzato alla Cop16, per poi scontrarsi con due grandi problemi. Il primo è che questa cifra di 100 miliardi era puramente politica. Aveva un peso, perché i principali responsabili dell’aumento delle emissioni di gas serra finalmente si assumevano le loro responsabilità, ma il fatto che fosse proprio di 100 miliardi (e non 50 o 1.000) non aveva nulla a che fare con le reali esigenze dei futuri beneficiari.
Per giunta, e qui sta il secondo problema, per anni gli stanziamenti reali sono stati molto più bassi. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ne ha tenuto traccia: nel 2021 erano a quota 89,6 miliardi, nel 2022 sembrano aver superato la soglia dei 100, con due anni di ritardo sulla tabella di marcia. C’è anche chi sostiene che questi numeri siano gonfiati: Oxfam, per esempio, sottolinea che per la maggior parte siano prestiti erogati ai tassi di mercato. Il che significa che i paesi beneficiari si sono indebitati ancora di più, trovandosi costretti anche a pagare gli interessi.
Il nuovo obiettivo globale per la finanza climatica
In ogni caso, questo obiettivo di 100 miliardi andrà in pensione, perché alla Cop29 di Baku i negoziatori dovranno adottarne un altro. In gergo se ne parla con l’acronimo Ncqg, new collective quantified goal (nuovo obiettivo quantificato collettivo). Alla vigilia dell’inizio, i nodi da sciogliere sono ancora tanti e tutt’altro che banali. A cominciare dalla cifra che, a differenza dei 100 miliardi, dovrà rispecchiare le necessità e le priorità dei paesi in via di sviluppo. Sono stati condotti tanti calcoli, con risultati anche molto diversi tra loro, ma verosimilmente l’ordine di grandezza dovrà crescere di almeno dieci volte rispetto a quello attuale. Insomma, si dovrà parlare di migliaia di miliardi (trillions in inglese), non più di miliardi: è questo lo spartiacque.
Bisognerà poi decidere chi dovrà stanziare questi soldi e quanto tempo avranno a disposizione gli stati per raggiungerla: ai tempi della Cop15 erano i ventiquattro paesi che erano membri dell’Ocse nel 1992, ma da allora gli equilibri dell’economia mondiale sono cambiati parecchio. Stabilire l’entità dei fondi è il punto di partenza, ma poi bisogna anche fare in modo che l’accesso sia rapido, semplice e che non faccia accumulare altro debito estero a economie che sono già molto vulnerabili.
The new collective quantified goal (#NCQG) is much more than just a number.
C’è anche il fondo per il loss and damage da riempire
Un altro tema di dibattito, oltre al quanto, al chi e al quando, è il cosa. In altre parole: come si potranno spendere questi fondi? Di sicuro i paesi beneficiari li potranno investire in misure di mitigazione delle emissioni e di adattamento del territorio all’impatto della crisi climatica. Resta ancora un punto di domanda il loss and damage, cioè quel meccanismo finanziario volto a risarcire i paesi più vulnerabili per le perdite e i danni che subiranno in ogni caso per via della crisi climatica. L’impegno è stato annunciato alle battute conclusive della Cop27 di Sharm el-Sheik, per poi essere confermato nel primo giorno dei negoziati della Cop28 di Dubai.
Per ora sappiamo che la Banca mondiale amministra il fondo per i primi quattro anni, che c’è un consiglio di amministrazione che ha sede nelle Filippine ed è composto da 26 membri (di cui 12 designati dai paesi industrializzati) e che Ibrahima Cheikh Diong ha il ruolo di direttore esecutivo. Manca all’appello il punto più importante, cioè le risorse. Stando a quanto riportato dal World resources institute, a partire dalla Cop28 sono stati promessi circa 700 milioni di dollari. Poco, anzi pochissimo, rispetto alle reali necessità. Secondo alcuni studi, le perdite e i danni andranno da un minimo di 290 a un massimo di 580 miliardi di dollari entro il 2030. La coalizione internazionale per il loss and damage chiede 724 miliardi di dollari all’anno, tutti sotto forma di finanziamenti a fondo perduto (e non di prestiti). Miliardi, non milioni. Qualunque sia la cifra, alla Cop29 bisognerà decidere anche se inserirla nel nuovo obiettivo globale per la finanza climatica (Ncqg) o se farle seguire un percorso a parte.
Transizione energetica, a che punto siamo
L’articolo 28, quello che contiene la discussa formula del transitioning away dai combustibili fossili, è il cuore del global shocktake con cui si è chiusa la Cop28. E contiene anche altri obiettivi inerenti alla transizione energetica. Innanzitutto, triplicare la potenza installata di energie rinnovabili e raddoppiare il ritmo di miglioramento dell’efficienza energetica entro il 2030. L’approccio nei confronti del carbone, la fonte più sporca e obsoleta, è piuttosto morbido: parla solo di “accelerare la diminuzione dal carbone” e peraltro si riferisce solo a quello unabated, cioè privo di sistemi di cattura della CO2. Il punto c prevede poi di “accelerare gli sforzi a livello globale per arrivare ad avere sistemi energetici ad emissioni nette azzerate, utilizzando combustibili a basso o nullo impatto ben prima o attorno alla metà del secolo”. Il testo chiede anche di eliminare i sussidi inefficaci alle fonti fossili. Specificando che possono essere ritenuti “inefficaci” se non contribuiscono ad affrontare la povertà energetica o la transizione giusta.
La domanda è lecita: a che punto siamo? Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, nel corso di questo decennio la crescita della capacità globale delle energie rinnovabili sarà impetuosa. Si parla di un incremento di 5.500 gigawatt (GW): è come aggiungere l’intera capacità energetica di Cina, Unione europea, India e Stati Uniti messi assieme. Entro il 2030, la metà dell’elettricità a livello globale sarà generata dalle fonti pulite. Soprattutto dal fotovoltaico. Dominatrice indiscussa del mercato delle rinnovabili è la Cina che, da sola, contribuirà quasi al 60 per cento delle installazioni nel corso del decennio.
Gli Stati Uniti, da parte loro, durante l’amministrazione di Joe Biden hanno investito risorse nelle energie rinnovabili con un impeto mai visto prima. Ma contestualmente sono anche saliti in cima alla graduatoria dei produttori di petrolio, sfiorando i 14 milioni di barili al giorno. Ed è proprio qui il grande tema. L’aumento della produzione di energia pulita è una buona notizia, ma il vero obiettivo è il calo delle emissioni. E per ottenerlo bisogna smettere di bruciare combustibili fossili, e farlo in fretta. Altrimenti saranno proprio carbone, petrolio e gas a farci esaurire ben presto il nostro carbon budget. E nulla potranno fare le rinnovabili per evitarlo.
La Cop29 si svolge proprio nelle ultime settimane prima dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, il cui legame con l’industria dei combustibili fossili è acclarato. Sarà l’Unione europea, reduce dalle elezioni che hanno rinnovato Parlamento e – indirettamente – Commissione, ad assumersi quel ruolo di leadership che l’amministrazione repubblicana difficilmente vorrà avere? Ci vorrà ancora tempo per capirlo, ma questa Cop29 potrà far trapelare qualche indizio.
Quel che è certo è che, al di là degli orientamenti politici, è il mercato a chiedere la transizione ecologica. Un percorso che le industrie hanno già avviato, mettendolo al centro della propria strategia di crescita per i prossimi decenni. Lo dimostra la lettera aperta pubblicata alla vigilia della Cop29 dalla Alliance of ceo climate leaders, che riunisce i dirigenti di aziende che insieme fatturano 4mila miliardi di dollari l’anno e danno lavoro a 12 milioni di persone. Le richieste, a guardarle bene, non sono troppo diverse da quelle avanzate dalle ong ambientaliste: fare promesse di riduzione delle emissioni ambiziose e credibili, incrementare (e di molto) i flussi finanziari per il clima, rimuovere gli ostacoli alla transizione energetica, puntare sulle nuove tecnologie.
Cosa aspettarsi dalla Cop29
Fare presto. Leggendo i rapporti scientifici o gli appelli delle aziende, è sempre questa l’esortazione che traspare: fare presto. Non è detto che ci si riesca. La Cop16 sulla biodiversità che si è appena chiusa a Cali, in Colombia, ne è un esempio. Nel bel mezzo di una crisi conclamata, che ha visto – tra le altre cose – crollare del 73 per cento l’abbondanza delle popolazioni di vertebrati selvatici in cinquant’anni, i delegati hanno preso tempo. Rinviando ancora una volta iniziative che sarebbero state dirimenti, a partire dall’istituzione di un Fondo per la biodiversità. Ed è vero che qualsiasi iter negoziale segue delle logiche che sono fatte anche di tecnicismi, tentativi, compromessi. Ma è vero anche che sul clima non c’è più niente da scoprire, perché la scienza ci ha già detto tutto. Sappiamo qual è il problema (l’aumento delle emissioni) e qual è la soluzione (smettere di bruciare combustibili fossili). La scienza ha fatto la sua parte, una parte del mondo industriale anche, la società civile è sempre più consapevole. La politica deve chiudere il cerchio.
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