L’ad del colosso statunitense, Darren Woods, ha parlato dalla Cop29 di Baku. Exxon prevede di investire nella transizione oltre 20 miliardi di dollari entro il 2027.
Non siamo nemmeno arrivati al giro di boa e a Baku è già la Cop del sottosopra. La vittoria di Donald Trump alle presidenziali negli Stati Uniti ha contribuito a sparigliare le carte ancora prima di iniziare, ponendo un gigantesco punto di domanda sull’assetto geopolitico che sta facendo da sfondo e non solo ai lavori sul clima in corso in Azerbaigian. Il registro, lungo, troppo lungo, delle assenze da parte dei capi di stato e di governo alla Cop29 – a cominciare proprio dal presidente uscente Joe Biden passando per Ursula von der Leyen, Emmanuel Macron, Vladimir Putin, Xi Jinping e Narendra Modi, tutti alla guida di “pesi massimi” in termini di emissioni – ne hanno sensibilmente ridimensionato la portata. Le parole pronunciate martedì da Ilham Aliyev, presidente autocrate dell’Azerbaigian che ha definito il gas e il petrolio “un dono di Dio” hanno chiarito urbi et orbi le posizioni di Baku, alimentando un clima di sfida nei confronti delle politiche per la transizione non perdendo occasione per mostrare i muscoli. Ma sono state altre parole a rendere questa conferenza sul clima ancora più surreale.
President of COP29 host nation Azerbaijan calls their oil and gas reserves a 'gift of God' and defends the country hosting the conference. pic.twitter.com/edmDRaXzbo
Sempre martedì Darren Woods, amministratore delegato del gigante petrolifero statunitense Exxon Mobil, ha chiesto al futuro presidente Trump di non ritirarsi dall’Accordo di Parigi sul clima, che impegna i paesi firmatari a ridurre le emissioni di gas climalteranti: “Abbiamo bisogno di un sistema globale per la gestione delle emissioni. – ha detto Woods al New York Times da Baku – Trump e le sue amministrazioni hanno parlato di tornare al governo e di riportare il buon senso. Penso che potrebbe adottare lo stesso approccio anche riguardo al clima”. Non è la prima volta che il leader di Exxon si esprime in questi termini nei confronti di Trump. Anche nel 2017, all’indomani della sua prima elezione, aveva chiesto invano di non ritirarsi dall’accordo.
Le parole di Woods pesano ancora di più se si pensa che le assenze non riguardano solo i già citati capi di stato, ma anche i vertici delle compagnie petrolifere. Sul mar Caspio, infatti non sono presenti gli alti funzionari di grandi compagnie come Shell e Chevron, esponenti di quel settore che è apparso galvanizzato dall’elezione di Trump e dal suo “Drill, baby drill”, l’esortazione con la quale Trump ha accompagnato tutte le promesse di incentivare il settore dei combustibili fossili durante tutta la campagna elettorale.
President Trump in South Carolina: "Our cry is going to be 'drill baby, drill." pic.twitter.com/0euaOZblE5
Durante i comizi il tycoon ha ampiamente criticato l’Inflation Reduction Act, il “contenitore” della politica ambientale promossa dall’amministrazione Biden, e persino gli enti federali come l’Enviromental Protection Agency – che si occupa di tutelare la salute degli ecosistemi – hanno espresso preoccupazione circa i possibili tagli ai finanziamenti che la futura amministrazione potrebbe portare con sè. Tuttavia, secondo Woods la propaganda trumpiana dai toni fortemente anti-scientifici potrebbe ammorbidirsi con l’insediamento della nuova amministrazione: “Non sono sicuro che ci siano amministrazioni che aumenteranno in modo significativo il ritmo della transizione o, al contrario, lo rallenteranno in modo significativo”, ha affermato Woods a Bloomberg.
I piani di Exxon per investire nella transizione energetica
Il farsi sentire di una delle principali aziende petrolifere al mondo è motivato dagli ingenti investimenti che Exxon ha indirizzato ai progetti per la transizione energetica e che un cambio di paradigma – “Il nuovo ordine mondiale” con cui Putin ha commentato l’elezione di Trump – rischia di mandare in fumo. Secondo le stime della banca svizzera Ubs, Exxon sarebbe pronta a spendere circa 3 miliardi di dollari in progetti che forniscono alternative ai combustibili fossili o riducono le emissioni. Un ammontare che equivale a circa l’11 per cento dell’esborso di capitale pianificato dalla società per l’intero 2024. Tuttavia, Ubs specifica che si tratta comunque di numeri modesti se comparati agli sforzi ancora più massicci di altre aziende delle stesso settore. Per questo stima che la spesa di Exxon in progetti legati alla transizione energetica sia destinata ad aumentare nei prossimi anni, per un totale di oltre 20 miliardi di dollari dal 2022 al 2027.
Come prevedibile, molti ambientalisti hanno attaccato duramente l’azienda attribuendo le nuove posizioni all’esigenza di salvaguardare i nuovi asset strategici della multinazionale. Solo lo scorso anno uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Science e basato su documenti interni della compagnia aveva rivelato che l’azienda aveva a disposizione sin dagli anni Settanta un modello piuttosto accurato sugli effetti a lungo termine dei combustibili fossili sul clima. Questo non ha impedito ai dirigenti della Exxon di sostenere l’opposto per decenni, esprimendo dubbi sul fatto che le emissioni di gas serra stessero causando un aumento della temperatura e promuovendo attività di lobbying in questo senso. A questo proposito Darren Woods ha difeso l’azienda, affermando che la posizione di Exxon si è evoluta con il consenso scientifico.
Le assenze dei leader mondiali alla Cop29 rischiano di costare caro
Ciò non toglie che l’appello a Trump per non ritirarsi dall’Accordo di Parigi lancia un segnale significativo poiché discordante rispetto alla compattezza granitica che ha contraddistinto la narrazioni sul sostegno a Trump, in particolare proprio quello delle aziende dei combustibili fossili. E forse sono proprio queste “infiltrazioni”, rappresentate dagli interessi derivanti dagli investimenti nella transizione energetica fatti dai giganti dell’energia, che possono dare una spinta seppur di parte al dibattito sul clima e alle negoziazioni in corso a Baku. In questo, l’assenza della politica rischia di pesare moltissimo, dando a attori terzi la possibilità di sedersi ai tavoli delle trattative senza i rappresentanti dei singoli stati e, quindi, degli elettori.
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