Nel campo profughi di Burj al-Barajneh, le donne palestinesi preparano pasti e distribuiscono aiuti alle persone in difficoltà nella città di Beirut.
Oltre Kim Yo-jong. Il coraggio delle donne nordcoreane che lottano contro fame e violenza
La figura della sorella del leader nordcoreano alle Olimpiadi, Kim Yo-jong, ha diffuso un’immagine positiva delle donne del Paese nel mondo, ma la realtà è diversa e fatta di povertà, carestie e maltrattamenti.
Nel regime nordcoreano, il più ermetico del pianeta e con la più elevata capacità di indottrinamento, sono soprattutto le donne comuni a cercare di ribellarsi, fuggendo, anche a rischio della vita. Madri e ragazze, sulle quali grava il mantenimento dei figli e dell’intera famiglia, sono ben consapevoli delle restrizioni in Corea del Nord. Forse, da questa presa di coscienza quasi tutta al femminile, oltre che da un’attività diplomatica di riconciliazione fra le due Coree – formalmente ancora in guerra dal 1953 – e gli Stati Uniti, potrebbe innescarsi un processo virtuoso di riforme. Per merito dell’impegno pacifista del presidente sudcoreano Moon Jae-in, il dittatore del Nord Kim Jong-un e il presidente statunitense Donald Trump dovrebbero incontrarsi a maggio nella capitale nordcoreana.
Il classismo della Corea del Nord: donne al potere e donne comuni
Secondo gli analisti, per porre fine all’ultimo conflitto della Guerra fredda, servirebbe un trattato di pace fra le due Coree, con l’innesto virtuoso di un processo di riforme economiche e sociali in Corea del Nord “alla cinese” o “alla vietnamita”. Intanto, però, questo Paese sta vivendo uno dei suoi momenti più bui. Kim Yo-jong, sorella di Kim Jong-un, le cheerleader e le atlete sono andate ai Giochi olimpici invernali di Pyeongchang secondo un preciso disegno di propaganda, dietro il quale è oscurata una popolazione affamata, ammalata, povera, di 25 milioni di abitanti.
L’immagine studiata proprio da Kim Yo-jong, direttrice del dipartimento di propaganda e agitazione del Partito dei lavoratori, ha esposto donne sorridenti, rassicuranti, morigerate, in contrasto con le coetanee alla moda, ossessionate dalla cura estetica e iper-connesse della Corea del Sud.
Kim Yo-jong ha voluto produrre un effetto nostalgia per un mondo anni Cinquanta, quello della rivoluzione anti-giapponese e comunista del nonno Kim Il-sung (solo apparentemente) più puro e semplice. Di certo il Nord, sotto l’influenza dell’Unione Sovietica, era più industrializzato e avanzato del Sud, alleato degli Stati Uniti. Ma in settant’anni la situazione si è capovolta.
Dal 1953 l’universo nordcoreano è cristallizzato in un sistema patriarcale e sessista di ispirazione confuciana. Un recente rapporto dello Norwegian refugees council conferma che il 70 per cento dei rifugiati nordcoreani in Corea del Sud è composto da donne. Prima del 2017, quando sono stati inaspriti i controlli al confine cinese, le esuli raggiungevano l’85 per cento. Un sistema economico anacronistico e sempre più classista, le sanzioni imposte dagli Stati Uniti e dalle Nazioni Unite, e una nuova carestia – denunciata da Care international ma trascurata dalla comunità globale – hanno trasformato la fuga in una questione di sopravvivenza.
L’altra carestia, donne in fuga da fame e malattie
Il problema più grave che preoccupa le donne nordcoreane è come nutrire se stesse e i loro figli. Due persone su cinque nel Paese asiatico sono malnutrite. E “fra le più vulnerabili, ci sono donne e bambini”, si legge nello studio Suffering in silence di Care international. “Quasi un terzo di tutte le donne incinta e che allattano, e oltre 200mila bambini soffrono di malnutrizione acuta, in base alle nostre stime”.
Questa nuova carestia sarebbe esplosa dopo la siccità della scorsa estate, la peggiore dal 2001. Sarebbe la crisi più trascurata dai mezzi d’informazione internazionali, dopo quelle – in ordine di tempo – di Eritrea e Burundi del 2015.
Il divieto di ingresso a giornalisti indipendenti, il bando ad associazioni e organizzazioni locali, l’accesso limitatissimo ad agenzie e ong esterne, hanno contribuito a oscurare la carestia, ma anche a non porvi rimedio. Quella nordcoreana – secondo le stesse Nazioni Unite che hanno imposto le ultime sanzioni lo scorso 22 dicembre – è una delle emergenze per la quale sono stati stanziati meno fondi nel 2017.
“Le sanzioni in Corea del Nord danneggiano da sempre esclusivamente i civili, non il regime”, insiste la professoressa Rosella Idéo, che da decenni ne analizza gli effetti. “L’élite, quell’un per cento, di cui fanno parte il leader supremo Kim Jong-un e sua sorella Kim Yo-jong, e a scendere nella gerarchia i loro famigliari e funzionari fedelissimi, si arricchisce a dismisura. No, Kim Yo-jong, descritta alle Olimpiadi invernali come volto femminile della dittatura, sorridente, con un filo di trucco, non bada alle donne comuni. È soprattutto la sorella devota di Kim Jong-un e capo della sua propaganda. Paragonarla a Ivanka, figlia di Trump, o ad altre leader come hanno fatto diversi mass media, fino a prova contraria, è un’illazione”.
Una società confuciana e misogina
Ci sono state e ci sono altre donne di potere nel regime nordcoreano, ma pochissime, come la sorellastra più anziana Kim Sol-song, classe 1975, intellettuale e poliglotta. “In un regime così impenetrabile, non sappiamo in quali relazioni sia con Kim Jong Un”, continua Idéo. “Pare gestisca importanti attività commerciali”. Anna Fifield, corrispondente dall’Asia per il quotidiano americano Washington Post, si chiede se la sorella più giovane Kim Yo-jong e cara a Kim Jong-un potrebbe un giorno sostituirlo, diventare leader del Paese. “In una parola, no. La Corea del Nord – spiega Fifield – aderisce a regole confuciane gerarchiche e maschiliste, che le renderebbero impossibile governare”.
In un altro articolo Fifield ricorda che la violenza sessuale nel Paese asiatico è “un’epidemia”, addirittura “una norma sociale”, secondo l’indagine dell’associazione Korea future initiative. “Anche le nordcoreane (come le donne del Sud, ndr) direbbero #MeToo, se solo sapessero che è un movimento e che la violenza sessuale è qualcosa contro cui potrebbero combattere”.
Gli anni Novanta, da “angeli del focolare” a imprenditrici clandestine
Per le donne nordcoreane la prima carestia degli anni Novanta ha rappresentato uno spartiacque nelle loro già difficili esistenze. Probabilmente è allora, quando morirono di fame fra le 600mila e i 3 milioni di persone, che hanno cominciato più dei maschi ad affidarsi a trafficanti e traghettatori per raggiungere Cina, Corea del Sud e altri Paesi asiatici. Con il crollo dell’Unione Sovietica, la Corea del Nord ha smesso di ricevere sussidi sovietici, per esempio petrolio a basso costo e componenti industriali. I disastri naturali di quel periodo, come la siccità o le alluvioni, con la conseguente perdita dei raccolti, impedirono a diverse scuole di fornire pasti agli studenti.
Anche il riso poteva essere introvabile. In molti si nutrivano di erba, piccoli animali, tra cui rane e uccelli. La mancanza di energia elettrica lasciò il Paese al buio. Infezioni comuni si complicavano a causa della malnutrizione. Le donne denutrite davano alla luce neonati rachitici, con gravi danni cerebrali. Oggi rimane un mistero su come quel popolo di giovani disabili, sopravvissuti, sia assistito. Tuttora i nordcoreani risultano più bassi fino a otto centimetri rispetto ai coetanei sudcoreani. Il Norwegian refugees council riporta: “A partire dal 1999 sempre più nordcoreani iniziarono ad attraversare i fiumi Tumen e Yalu che demarcano il confine con la Cina”.
Per la disperazione, negli anni Novanta, sono state le donne a inventare in Corea del Nord l’economia di mercato. Mentre gli uomini, padri e mariti, erano costretti al lavoro forzato gratuito per lo Stato, in fabbriche, risaie, cantieri, le donne hanno trasformato il loro ruolo confuciano di “angeli del focolare”. Il sistema di corvée medievale imposto ai maschi adulti trattati come schiavi, che non produceva alcunché per le famiglie, le ha spinte ad aprire i primi piccoli mercati clandestini. Progressivamente, queste compravendite di beni di prima necessità sono state tollerate dal regime, poiché rappresentavano l’unica fonte di sostentamento. Le donne hanno cominciato a considerare gli uomini dei “buoni a nulla”.
L’ingegno delle donne, tuttavia, non è bastato. Se nella capitale Pyongyang da alcuni anni sorgono grattacieli, spa, asili e parchi giochi “è solo per accontentare l’élite, dalla quale più volte sono emersi dissidenti. Il resto del paese è un’altra cosa”, aggiunge la professoressa Idéo. Se i figli degli alti funzionari usano (in modo controllato dall’intelligence) internet, i contadini hanno a disposizione aratri manuali. Sul sito del ministero degli Esteri italiano si legge che “il sistema sanitario è molto carente. Negli ospedali, compresi quelli della capitale, è molto raro trovare personale in grado di parlare anche una sola lingua straniera occidentale. Vi è difficoltà di reperimento di medicinali”. In più, sono diffuse malaria, epatite A e B, encefalite letargica, difterite, tetano, polio, tifo, colera e peste.
Le nordcoreane in Cina, vittime di tratta
Secondo stime non ufficiali, in Cina oggi vivono fra le 50mila e le 200mila donne nordcoreane. Pechino le considera migranti economiche irregolari, non riconoscendo loro lo status di profughe. Pur avendo aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati, preferisce adottare un accordo bilaterale del 1986. La polizia cinese, dunque, può rimandarle in patria, dove rischiano di essere incarcerate, rinchiuse in campi di lavoro, maltrattate o addirittura uccise. Nonostante questi rischi, molte donne che sopravvivono al rimpatrio forzato, tentano nuovamente la fuga. Il fatto che il governo cinese non consideri la loro “disperazione economica” un motivo valido per accoglierle, favorisce paradossalmente il dilagare della tratta.
Con la promessa ingannevole di un futuro migliore, le esuli nordcoreane sono vendute dai trafficanti in due principali “mercati di esseri umani”, la vendita delle mogli e lo sfruttamento della prostituzione. Da una parte, sono comprate da uomini cinesi che non trovano una compagna, per via della loro disabilità, di condizioni famigliari complesse o della politica del figlio unico (abolita dalla Corte Suprema cinese nel 2013), che ha creato un gap demografico a discapito delle femmine. Dall’altra, sono costrette a offrire prestazioni sessuali, magari dopo essere state rapite – una volta toccato il suolo cinese – mentre si trovano in spazi pubblici come strade o stazioni dei treni.
Anche diversi uomini che le comprano come mogli, le considerano una mera proprietà di cui abusare. Lo spiega bene la sociologa Hyun-Joo Lim, in un articolo pubblicato da The Conversation. Anche se queste donne non manifestano apertamente un dissenso politico contro il regime nordcoreano, avrebbero diritto al rispetto dei diritti umani fondamentali.
Questo è uno dei casi in cui la distinzione burocratica fra migranti economici ed esuli politici appare un’assurdità. In Cina, con le fuggitive della Corea del Nord, vivrebbero in clandestinità almeno 30mila bambine e bambini apolidi, alcuni dei quali nati da relazioni forzate. Questi piccoli sono invisibili per le autorità locali. Non hanno diritto a cure mediche, istruzione e alla cittadinanza.
Se i padri di nazionalità cinese chiedessero di riconoscerli otterrebbero documenti regolari per i figli, ma metterebbero a rischio l’incolumità delle madri nordcoreane della quale per legge deve essere rivelata l’identità. Alcune profughe, quindi, decidono di lasciare i figli nella Repubblica Popolare, per proseguire il viaggio verso la meta auspicata della Corea del Sud. All’inizio del 2018, ne sono già arrivate più di 30mila. Ad aiutarle in questi spostamenti pericolosi, vi sono organizzazioni umanitarie come Helping hands Korea’s o la statunitense 318 partners, e missionari evangelici, questi ultimi con anche fini di conversione.
Il caso di Mi-young
La ventenne Mi-young è stata venduta come sposa a una famiglia cinese. Era scappata perché suo padre era stato rinchiuso in un campo di prigionia e il suo piccolo business informale non era redditizio. Cercava un lavoro per inviare soldi alla madre. Un trafficante le aveva promesso un impiego da cameriera, ma la ragazza si è ritrovata schiava di un marito e della suocera. Grazie a Helping hands Korea’s – racconta la giornalista Silvia Yu del quotidiano South China Morning Post – è riuscita a scappare in Laos e, dopo aver attraversato un fiume in barca, in Thailandia.
A 24 anni Mi-young sogna ancora la Corea del Sud. Queste peregrinazioni fra Paesi diversi sono molto frequenti. Secondo l’agenzia Reuters, nel 2016 sono arrivati in Thailandia 535 nordcoreani e 385 nella prima metà del 2017. Attualmente in Corea del Sud si contano 31.339 rifugiati nordcoreani. Molti esuli sono traumatizzati. Gran parte delle donne si sente in colpa per aver abbandonato i figli in Cina o perché non può più aiutare e contattare i famigliari rimasti in Corea del Nord.
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