Una volta curati i polmoni ci sarà da curare la testa. Questo isolamento per evitare la diffusione del Covid-19 sta logorando tutti, ma soprattutto le persone più esposte: quelle con problemi di salute mentale. “Prendersi cura delle persone significa anche prendersi cura degli spazi, dei nostri spazi. Intesi come una configurazione ricca di risorse che permette di applicare le proprie capacità”. Parole di Mauro Fogliaresi, poeta comasco che da vent’anni dedica il suo tempo al San Martino di Como, l’ex ospedale psichiatrico. All’interno di questo luogo di confino, Mauro ha creato un luogo libero. Di fatto e nel nome: la Libera università del tempo ritrovato.
Ma in questo tempo sospeso a causa della pandemia da coronavirus, anche i luoghi e le attività rivolte alle persone con problemi di salute mentale si sono fermate, “l’ansia per la salute può diventare angoscia, la paure esasperate portano tante persone a perdere il punto di equilibrio con se stesse”. E lo star bene con gli altri.
I luoghi e gli spazi della salute mentale durante il coronavirus
La salute mentale è misurata anche dal nostro relazionarci con gli altri. Ora però la salvaguardia della salute dipende dall’evitare i contatti con il mondo e “nella testa delle persone ci sarà un lavoro immane da compiere per recuperare equilibri già fragili, persi durante questa pandemia. Tali fragilità si sommano per chi soffre di salute mentale”, conclude Fogliaresi.
Nell’ex manicomio comasco gli spazi del centro diurno della psichiatria sono aperti, ma per pochi soggetti. E le associazioni come la Libera Università hanno dovuto sospendere le attività, così come la scrittura della rivista Oltre il giardino, “una pubblicazione stravagante nella quale provavamo a riconciliare bellezza e creatività con il dolore delle malattie mentali”. I redattori, però, ora si incontrano online e lì progettano un nuovo numero.
Contro l’isolamento imposto dal coronavirus nasce “Rifugio Olinda”
Spazi come l’ex manicomio di Como hanno impiegato quasi quarant’anni dal 1978, anno di promulgazione della legge 180 che impose la chiusura dei manicomi abolendo gli ospedali psichiatrici, a diventare luoghi epicentro della rivoluzione culturale voluta da Franco Basaglia. Uno di questi è l’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano.
“Nel silenzio della città anche le attività legate alla salute mentale e portate avanti dal 1996 dalla cooperativa Olinda hanno subito un arresto”, spiega il vicepresidente Antonio Restelli. Il silenzio è entrato così anche nel parco del Pini in zona Affori: dal teatro all’ostello fino al bar-ristorante Jodok gestito da persone con problemi di salute mentale. “Durante l’emergenza – aggiunge il dirigente – l’Asst Niguarda ci ha chiesto di ospitare nell’ostello otto persone provenienti dal reparto di salute mentale”.
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L’ex manicomio si fa luogo di accoglienza
La parola chiave dell’OstellOlinda, infatti, è sempre stata “accoglienza”: “Sotto lo stesso tetto abbiamo sempre ospitato turisti, lavoratori, gruppi, compagnie teatrali e persone coinvolte in percorsi di salute mentale”. Sin dai primi istanti di questa pandemia, quando tutte le attività venivano chiuse o si fermavano, l’ostello all’interno dell’ex manicomio milanese continuava ad accogliere e proteggere i suoi abitanti. Tre persone con problemi salute mentale e altri quattro lavoratori già ospitati lì “sono rimasti a vivere qui e noi abbiamo scelto in via precauzionale di assegnare a ciascuno una stanza ed è stato così anche per gli otto ospiti provenienti dal reparto di salute mentale di Niguarda che qui vivranno per i prossimi tre mesi”, spiega ancora Restelli. Il “Rifugio Olinda”, questo il suo nome oggi, continua ad accogliere. E lo fa senza emarginare.
Alcune delle persone dimesse dal Niguarda sono straniere e “uno è originario dello Sri Lanka e ha lesioni cerebrali”. In mezza giornata di accoglienza e ascolto, lo staff di Olinda e gli alti ospiti hanno scoperto come fosse un musicista prima delle lesioni. “Inoltre è emerso che ascoltando la musica tradizionale del suo paese si rilassa, perché essa lo invita a lasciarsi penetrare il cuore e la mente dalla poesia del suono”.
In ospedale, però, questi aspetti non sempre hanno lo spazio per emergere. Per questo accogliere significa anche comprendere: “Un altro nuovo ospite è egiziano e non conosce una parola di italiano . Ma la cuoca dello Jodok, il ristorante che la cooperativa ha ricavato dove c’era l’obitorio del ex manicomio, è del Cairo e in teleconferenza traduce per noi”. Ecco allora che riparte anche il servizio per “cucinare integrazione”.
Tornerà a sfornare sapori buoni anche Anukwu Nnamdi, ragazzo nigeriano con problemi di salute mentale che prima del lockdown lavorava come aiuto-cuoco nella cucina di Fiore – cucina in libertà, ristorante lecchese confiscato alla mafia e gestito da Olinda con un progetto sociale. “Da mesi si trova a Lecco da solo e tra poco verrà a cucinare per il Rifugio Olinda”, conclude Restelli. Un’altra storia di accoglienza non-emarginante.
Oggi le persone con disagio psichico assistite dai servizi specialistici, secondo i dati rilevati dal Sistema Informativo Salute Mentale del Ministero, sono oltre 850mila in Italia. A causa del diffondersi della pandemia, i centri di salute mentale hanno dovuto sospendere la loro “attività ordinaria”, tutte le attività riabilitative, di gruppo e individuali, gli incontri e i sostegni ai familiari, le borse lavoro e i tirocini, garantendo solo le urgenze. A causa di questo, le famiglie si sono trovate ancor più sole a gestire situazioni già complesse.
In Lombardia i reparti dedicati a persone con disturbi psichici positive al Covid-19 sono strutturati in modo anti-terapeutico oltre che legalmente discutibile sotto il profilo costituzionale dei diritti della persona. Questo sulla base delle segnalazioni raccolte dalla recente Campagna per la salute mentale. “Vengono infatti riproposti modelli organizzativi emarginanti e ghettizzanti, che perpetuano la stigmatizzazione dei pazienti affetti da disturbo mentale”.
Tutto il contrario della legge 180 che aveva dato dignità e diritti a chi soffriva di gravi disturbi psichiatrici, trasformando il paziente con disturbi mentali da oggetto incurabile, da rinchiudere nei manicomi, a soggetto attore della propria vita con i diritti di cittadinanza, compreso il diritto alla cura.
Proviamoci assieme contro l’isolamento
Il disagio psichico prolifica laddove alla periferia urbana si sovrappone una periferia sociale, fatta fragilità della rete di relazioni, che provoca isolamento e chiusura. Dove ci sono spazi vuoti e non vissuti, luoghi senza relazioni. “Lenire questa sofferenza mentale significa sempre creare relazioni”, spiega Massimo Soldati referente di Proviamociassieme, un servizio della Casa della carità di Milano insieme al Comune e all’Asst Fatebenefratelli-Sacco.
Proviamociassieme, fino al lockdown, ha gestito un luogo di incontro nel cuore del quartiere milanese Molise Calvairate, “aprendo la porta a tutte le persone che, pur avendo un disagio, desideravano incontrarsi e trovare un posto in cui poter essere accolti e ascoltati”.
Maggiori attenzioni e immediate disposizioni per la tutela delle persone con sofferenza psichica e degli operatori della…
Per sopperire alla mancanza dell’incontro fisico, gli operatori oggi chiamano quasi tutti gli utenti, “invertendo quello che è l’obiettivo principale di Proviamociassieme, ovvero vivere il quartiere come spazio di relazione”, aggiunge Soldati.
La principale mancanza che avvertono le persone seguite dal progetto è proprio il non vivere insieme i luoghi e gli spazi condivisi. Gli operatori del progetto sono sempre entrati nelle case delle persone, nella convinzione che la qualità della vita abbia una profonda connessione con la qualità dell’ambiente in cui si abita: “Tinteggiare pareti, riparare rubinetti che gocciolano erano quei piccoli gesti, che avevano una grande ricaduta sul benessere delle persone che faticano ad affidarsi ai servizi di cura”.
Anche attraverso le videochiamate però, gli utenti sono contenti di sentirsi pensati e presenti anche nella distanza: “Con la nostra telefonata – conclude Soldati – tutti i giorni, circa allo stesso orario, proviamo a dare a queste persone una nuova routine, a costruirla insieme”.
In Africa solo 15 stati hanno vaccinato il 10 per cento della popolazione entro settembre, centrando l’obiettivo dell’Organizzazione mondiale della sanità.
I cani sarebbero più affidabili e veloci dei test rapidi per individuare la Covid-19 nel nostro organismo. E il loro aiuto è decisamente più economico.
L’accesso ai vaccini in Africa resta difficile così come la distribuzione. Il continente rappresenta solo l’1 per cento delle dosi somministrate nel mondo.
La sospensione dei brevetti permetterebbe a tutte le industrie di produrre i vaccini, ma serve l’approvazione dell’Organizzazione mondiale del commercio.