Nella giornata di venerdì 28 agosto l’Italia ha registrato 1.462 nuovi contagi da coronavirus, un trend di crescita che continua da settimane. Un dato che considerato da solo potrebbe risultare preoccupantese si pensa che solo a maggio, quando si registravano numeri simili di nuovi contagi, il paese era in lockdown.
Se si analizza il contesto nel quale si colloca questa cifra però, si scopre che in Italia la letalità della Covid-19 corrisponde a circa l’1 per cento dei contagiati, rendendo i nuovi casi di questi giorni meno preoccupanti di quelli del periodo compreso tra marzo e maggio.
La differenza tra tasso di letalità apparente e plausibile
Iniziamo con una distinzione tra i vocaboli più utilizzati durante questi mesi per parlare dei decessi da coronavirus. Il tasso di mortalità si riferisce a quante persone sono morte dopo aver contratto la Covid-19 rispetto al totale della popolazione analizzata. Il tasso di letalità invece mostra quante persone sono morte solamente tra quelle che hanno contratto l’infezione. Villa, in un’analisi redatta per l’Ispi il 27 marzo, riporta questo esempio: “Se in un paese di 100 abitanti ci sono 10 contagiati e 5 morti, il tasso di letalità sarà del 50% ma il tasso di mortalità sarà solo del 5%”.
Il tasso di letalità può essere diviso a sua volta in tasso di letalità apparente e plausibile. Il primo si riferisce ai dati che “si vedono”, cioè al numero dei casi confermati che indicano quante persone sembrerebbero morire – l’uso del condizionale è d’obbligo perché non sappiamo esattamente quante persone abbiano davvero contratto il virus –. Il secondo, la letalità plausibile, tiene conto di una stima dei contagi reali, che è nettamente superiore a quella ufficiale.
In Italia sono migliorate le procedure di monitoraggio dei nuovi contagi
Fatte queste premesse in termini di glossario, si può capire perché i nuovi casi di questi giorni dovrebbero preoccupare meno rispetto a quelli del periodo di emergenza nazionale.
Come ha spiegato Matteo Villa il 20 agosto, le percentuali delle due letalità sono diventate molto simili. Se si calcola la letalità apparente di settimana in settimana si nota come tra marzo e giugno fosse tra il 12 e il 20 per cento, per poi crollare all’attuale 1,4 per cento. Mentre la letalità reale, stimata dall’Ispi ancora a fine marzo, dovrebbe essere intorno all’1,15 per cento.
Questo ci dice una cosa molto importante: in Italia sono migliorate le procedure di monitoraggio e ricerca dei nuovi contagi, che hanno portato i due valori ad avvicinarsi sempre di più. In pratica, durante il periodo di emergenza erano molti di più i casi che sfuggivano ai controlli, rispetto ad adesso, che vengono tempestivamente rintracciati e monitorati.
🦠🇮🇹 #COVID19: siamo diventati molto più bravi a intercettare le persone infette.
Un nuovo caso oggi è UNDICI volte meno preoccupante di un nuovo caso a marzo.
Il contesto dei nuovi contagi di oggi non è più quello dell’inizio dell’emergenza
Inoltre, il contesto sociale e sanitario in cui si collocano queste cifre è estremamente diverso da quello iniziale. Uno dei motivi per il quale l’Italia, così come altri paesi nel resto del mondo, aveva optato per il lockdown era per evitare che il sistema sanitario crollasse sotto il peso dei troppi casi che necessitavano di essere curati in terapia intensiva. Durante i mesi cruciali dell’emergenza, il numero dei posti letto negli ospedali era stato pericolosamente minacciato da un’ondata di contagi che diventava ogni giorno sempre più grande. Questo aveva creato disagi anche nella cura dei soggetti ricoverati per altre patologie, che non potevano beneficiare delle proprie cure a causa del sovraffollamento delle strutture ospedaliere.
Ora la situazione è molto diversa. In uno dei rapporti settimanali dell’Istituto superiore di sanità (Iss) si legge chiaramente come, malgrado in alcune regioni sia aumentato il numero dei ricoveri, “non sono stati segnalati casi di sovraccarico dei servizi sanitari”. Parallelamente, i numeri dei morti per coronavirus, dei posti nelle terapie intensive o dei ricoveri sono ugualmente diminuiti. Secondo i dati della fondazione Gimbe del 27 agosto, sono 67 le persone attualmente ricoverate nelle terapie intensive del paese e 1.131 quelle ricoverate con sintomi.
Il coronavirus rimane la sfida più dura per il sistema sanitario
Queste considerazioni però non devono far pensare che sia il momento di abbassare la guardia e vanificare gli sforzi che, con impegno, sacrificio e fatica da parte di ognuno, hanno contribuito a un miglioramento della situazione.
Al contrario, come sottolinea anche Matteo Villa, il tasso di letalità dell’1 per cento porta con se due grosse conseguenze: “Un tasso di letalità che si aggira intorno all’1 per cento degli infetti rappresenta forse la peggior sfida per i sistemi sanitari mondiali. Nel caso la letalità fosse stata molto più alta, come con le infezioni da Sars del 2002-2004, la diffusione del virus si sarebbe auto-limitata, perché i suoi ospiti si sarebbero ammalati più gravemente e molto più in fretta, divenendo infermi, a casa o in ospedale, e dunque molto meno capaci di infettare altre persone. Se, invece, la letalità fosse stata molto più bassa, ci saremmo potuti preoccupare meno del nuovo coronavirus, e trattarlo solo come un’altra influenza, più grave semplicemente perché non disponiamo ancora di un vaccino. Purtroppo, non è così”.
In più, il numero degli abitanti che hanno contratto il virus è ancora molto basso, fattore che rende impossibile il raggiungimento di un’immunità di gregge, che si ottiene quando il 70-80 per cento della popolazione è stato contagiato.
Non è ancora il momento di abbassare la guardia
Quest’analisi mira a contestualizzare i dati attualmente disponibili, perché l’emergenza non è ancora finita. L’Organizzazione mondiale della sanità ha evidenziato come la pandemia stia cominciando ad estendersi anche verso le fasce più giovani della popolazione, che inizialmente non erano state particolarmente contagiate. Secondo alcuni scienziati citati dal quotidiano britannico Guardian, questo potrebbe tradursi in un aumento dei casi, ma in una diminuzione dei ricoveri, in quanto il rischio di complicanze sarebbe minore.
Tuttavia, ci sono pareri discordanti su quest’ipotesi in quanto gli Stati Uniti, il paese più colpito dall’epidemia con quasi sei milioni di casi e 180mila morti, hanno registrato un picco di contagi tra i giovani, per poi registrare un conseguente picco di casi negli anziani, forse infettati dai primi. Alcuni ipotizzano che una situazione simile potrebbe ripetersi anche in Europa.
Per questo è importante rimanere vigili e fare tutto ciò che è in nostro potere per rallentare ancora l’avanzata del coronavirus: portare la mascherina, lavarsi e igienizzarsi frequentemente le mani, mantenere il distanziamento sociale, coprirsi naso e bocca quando si tossisce o starnutisce. Semplici accorgimenti che fino adesso hanno dato grandi risultati.
In Africa solo 15 stati hanno vaccinato il 10 per cento della popolazione entro settembre, centrando l’obiettivo dell’Organizzazione mondiale della sanità.
I cani sarebbero più affidabili e veloci dei test rapidi per individuare la Covid-19 nel nostro organismo. E il loro aiuto è decisamente più economico.
L’accesso ai vaccini in Africa resta difficile così come la distribuzione. Il continente rappresenta solo l’1 per cento delle dosi somministrate nel mondo.
La sospensione dei brevetti permetterebbe a tutte le industrie di produrre i vaccini, ma serve l’approvazione dell’Organizzazione mondiale del commercio.