Uno studio indica che la zoonosi del coronavirus potrebbe essere stata favorita dalla moltiplicazione degli habitat nei quali proliferano i pipistrelli.
Il riscaldamento globale potrebbe aver avuto un ruolo determinante nella zoonosi del coronavirusSars-CoV-2. Ovvero nel passaggio dagli animali all’uomo dell’agente responsabile della malattia Covid-19. In particolare, l’aumento della temperatura media globale ha modificato in modo sostanziale i microclimi di determinati ecosistemi, offrendo nuovi habitat ai pipistrelli, specie che si presume essere all’origine del primo contatto con gli esseri umani.
Climate change may have played a "key role" in the transmission of the novel coronavirus to humans by driving several species of pathogen-carrying bats into closer contact, research showed on Friday by University of Cambridge. #etribunehttps://t.co/VIRCZpl16Npic.twitter.com/q2u3FViTmg
L’insediamento dei pipistrelli aumentato nella Cina meridionale
A spiegarlo è un nuovo studio pubblicato il 5 febbraio dalla rivista Science of the Total Environment e curato da un gruppo di ricercatori dell’università di Cambridge. Gli scienziati hanno modellizzato la presenza di diverse popolazioni di pipistrelli, incrociando i dati relativi alle temperature e alle precipitazioni. Ciò al fine di comprendere dove sorgano le vegetazioni più congeniali per la vita di tali mammiferi.
I dati indicano che negli ultimi 100 anni, 40 specie di pipistrelli hanno visto estendersi le aree che presentano condizioni favorevoli al loro insediamento. In particolare una fascia a cavallo tra la Cina meridionale, il Myanmar e il Laos. “Non possiamo affermare – ha precisato all’agenzia Afp Robert Meyer, principale autore dello studio – che in assenza di riscaldamento globale la pandemia non si sarebbe verificata. Ma è difficile affermare che questo aumento del numero di pipistrelli e dei coronavirus di cui sono portatori l’abbia resa meno probabile”.
L’Ipbes ha raccomandato di tutelare gli ecosistemi
Un fattore ormai riconosciuto dalla comunità scientifica è senza dubbio l’aumento dei contatti tra esseri umani e animali dispeso dalla distruzione di ecosistemi. Lo stesso Meyer ha aggiunto infatti che “si tratta di due facce della stessa medaglia: noi penetriamo più in profondità nei loro habitat e allo stesso tempo i cambiamenti climatici possono spingere agenti patogeni verso di noi”.
#climatechange to blame for the pandemic? Researchers @Cambridge_Uni say that due to changes in vegetation over the last century in Southeast Asian forests, 40 more bat species with potentially more coronaviruses may have entered this area. https://t.co/zpWpdWLKSv
Non a caso, nello scorso autunno il Pandemics report, documento frutto del lavoro di 22 scienziati riuniti dall’Intergovernmental science-policy platform on biodiversity and ecosystem services (Ipbes), organismo intergovernativo indipendente, riconosciuto dalle Nazioni Unite, ha spiegato cosa occorre fare per scongiurare nuove pandemie. Ovvero tutelare gli ecosistemi, bloccare il calo della biodiversità, ridurre lo sfruttamento agricolo eccessivo e gli allevamenti intensivi, bloccare la deforestazione e limitare il commercio di fauna selvatica.
In Africa solo 15 stati hanno vaccinato il 10 per cento della popolazione entro settembre, centrando l’obiettivo dell’Organizzazione mondiale della sanità.
I cani sarebbero più affidabili e veloci dei test rapidi per individuare la Covid-19 nel nostro organismo. E il loro aiuto è decisamente più economico.
L’accesso ai vaccini in Africa resta difficile così come la distribuzione. Il continente rappresenta solo l’1 per cento delle dosi somministrate nel mondo.
La sospensione dei brevetti permetterebbe a tutte le industrie di produrre i vaccini, ma serve l’approvazione dell’Organizzazione mondiale del commercio.