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Per combattere contro traffici illeciti, criminalità organizzata e terrorismo internazionale, la prima arma da utilizzare sono… i musei. Siete scettici? Vi spieghiamo il perché in 10 parole.
Andando al museo si combatte il terrorismo, si finanzia la ricerca e si previene la criminalità. Vi pare troppo? Eppure secondo gli esperti è proprio così. Se ne è parlato per esempio a luglio 2016, al MiCo di Milano, durante la 24esima conferenza internazionale Icom (International council of museums), alla tavola rotonda dal titolo How can museums contribute to countering illicit traffic in cultural goods, organizzata per spiegare a cosa servono i musei nella lotta ai traffici illeciti (sia di reperti, sia di specie a rischio estinzione) che finanziano il terrorismo e il crimine organizzato.
Moderata da France Desmarais, direttore dei Programmi e collaborazioni Icom, alla tavola rotonda sono intervenuti Eric Dorfman, direttore del Carnegie Museum di Storia Naturale e presidente di Nathist, Markus Hilgert, direttore del Museo del Vicino oriente antico all’interno del Pergamon Museum e Ieng Srong, responsabile Unesco del patrimonio mobile dei musei. I loro interventi si possono spiegare con queste dieci parole.
“Tra la protezione delle specie a rischio e quella dei reperti archeologici c’è una certa affinità. Ecco perché la lotta al traffico illecito è simile”, ricorda Dorfman. Uno dei punti di forza a disposizione dei musei è la ricerca scientifica: una conoscenza approfondita delle specie animali e vegetali a rischio, così come del tipo di reperti trafugati, consente un’individuazione più rapida ed efficace dei criminali alle frontiere.
Del pubblico, ma anche dei politici da un lato e delle forze dell’ordine dall’altro. Per Dorfman, sono i musei stessi che si devono incaricare di questa formazione, trasmettendo i dati scientifici (sui reperti e sulle specie a rischio) in proprio possesso a chi può utilizzarli per bloccare trafficanti e bracconieri. Una parte della formazione delle polizie locali deve invece essere a opera dell’Unesco, grazie al “corpo” dei Caschi blu della cultura, istituito lo scorso febbraio su pressioni dell’Italia e forte dell’esperienza del Nucleo tutela patrimonio culturale dei nostri carabinieri.
Tra musei, nazioni, forze di polizia di Stati diversi. “Gli studiosi, da soli, non possono fermare il traffico illecito di beni culturali. Ecco perché serve un approccio combinato che veda agire, insieme, forze di polizia e responsabili dei musei”. Hilgert ricorda come in Siria (paese pesantissimamente saccheggiato da Daesh, che usa anche la vendita di reperti per autofinanziarsi) archeologi, sociologi e informatici lavorino insieme per bloccare le esportazioni clandestine. Le vendite, talvolta proprio a opera di esperti, passano attraverso le piattaforme web: ecco perché il controllo di internet da parte delle forze dell’ordine è fondamentale.
Poiché intervenire direttamente in zone di guerra, in cui sia in corso un conflitto, è impossibile, la prevenzione è necessaria. Ma cosa significa? Per esempio, per Srong, vuol dire incoraggiare i musei a creare dei database dettagliati delle collezioni, da mettere in rete a disposizione di tutti (ma soprattutto delle autorità competenti).
Si intende soprattutto come condivisione dei dati ed è strettamente legato al concetto di prevenzione. Non bisogna avere paura di condividere: nascondere le informazioni (e quindi evitare di aggiornare i database museali) mette a rischio le collezioni perché impedisce il riconoscimento dei reperti trafugati, non solo da parte delle forze dell’ordine, ma anche da parte di eventuali musei acquirenti. La condivisione dei dati è una garanzia perché consente di riconoscere immediatamente i pezzi venduti in modo illecito.
“Tanti animali selvatici vengono uccisi per essere poi impagliati e finire nelle collezioni. Di fronte a questo fenomeno, si è creata una certa sensibilità del pubblico, ma non è ancora abbastanza”, ricorda Dorfman. La chiave, per i musei, possono essere iniziative (il più possibile accattivanti e “popolari”) per la sensibilizzazione dei visitatori, ricordando quali siano le oltre 35.000 specie a rischio estinzione e illustrando i danni per la fauna.
Un aumento della conoscenza da parte del pubblico può ridurre la domanda di beni culturali da parte dei mercati, creando il presupposto per una diminuzione degli illeciti. Da questa situazione, però, siamo ancora ben lontani, visto che vi sono ancora molti collezionisti che ritengono, secondo Hilgert, l’acquisto di beni una forma di tutela…
“Bisogna conoscere la storia delle collezioni: spesso i reperti appartengono ai musei da più di un secolo, quando il quadro normativo era totalmente diverso”, afferma Hilgert. “Dobbiamo fare questo sforzo e conoscere la storia delle nostre collezioni, rileggere i documenti. Dobbiamo sapere da dove vengono i nostri reperti”
“Avere un buon quadro normativo non è sufficiente: se le convenzioni non vengono ratificate dai Paesi in cui i reperti sono più a rischio, le leggi sono inutili”. Lo ricorda Srong, parlando della la Convenzione Unesco del 1970 che regola lo scambio di beni culturali tra stati membri. Il documento considera beni culturali sia i beni storici, artistici, archeologici, sia esemplari rari di flora, fauna, mineralogia e anatomia.
Ratificata ormai da 131 Stati (la ratifica dell’Italia è del 1978 con la legge 873, in vigore dal febbraio 1979), non è ancora stata inclusa nella legislazione nazionale di regioni oggi ad altissimo rischio, come Iraq, Iran o Siria, dove la convenzione è stata solamente “accettata”, ma non ratificata.
Ancora Srong ricorda che “I professionisti museali dovrebbero operare a livello etico come se le convenzioni più importanti fossero state ratificate, non importa che sia vero oppure no”. Rispettando i principi della convenzione del 1970 e proteggendo in prima persona le collezioni, i professionisti museali possono davvero fare la differenza e contribuire alla creazione di un mondo più giusto.
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