Circa 40.000 persone hanno sostenuto le richieste indigene, che si oppongono a un progetto di revisione del trattato fondativo della Nuova Zelanda.
Nuova guerra civile in Libia, vecchi interessi: petrolio e migranti
La guerra in Libia ha causato finora 300 morti civili
La Libia sta attraversando la sua terza guerra civile dal 2011. Tutto è iniziato il 4 aprile 2019 con la marcia su Tripoli da parte del generale Khalifa Haftar, alla guida dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna). Un’avanzata pensata come “lampo” ma che invece si protrae da mesi e che ha già provocato più di 300 morti tra la popolazione civile e migliaia di sfollati: un bilancio reso noto dal presidente dell’Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) Foad Aodi. Gli sfollati sono più di 40mila, di cui il 50 per cento donne e il 25 per cento minorenni. Gli sforzi diplomatici sono scarsi la fine sembra lontana. Cosa sta accadendo esattamente?
Le origini del conflitto in Libia
Le origini del conflitto possono essere fatte risalire alla caduta di Mu’ammar Gheddafi che ha regnato sulla Libia per oltre 40 anni – dal 1969 al 2011 – prima di capitolare ed essere ucciso alla fine di quella che viene considerata la prima guerra civile in Libia, scoppiata con il periodo delle primavere arabe. Il pensiero di Gheddafi è riassunto dallo stesso dittatore nel Libro verde, in cui viene spiegata la “terza teoria universale”, una sorta di alternativa al capitalismo e al comunismo, vicina al socialismo arabo idealizzato da Gamal abd al-Nasser.
Eppure, come spesso accade, ciò che era stato teorizzato sulla carta, non ha trovato riscontro nella realtà e la mancata risposta a questo processo di inclusione da parte dei cittadini ha finito per creare un sentimento opposto, di astensionismo e di allontanamento dalla politica. Cosa che, secondo gli esperti, ha permesso a Gheddafi di regnare indisturbato sulla Libia fino alla sua morte.
Dopo la morte di Gheddafi, le prime elezioni legislative in Libia si sono tenute nel 2012. Il governo nato a Tripoli ha da subito generato malumori tra le diverse fazioni rappresentative. Tali fazioni deluse sono poi confluite nel Lybian national army (Lna) guidato dal maresciallo Khalifa Haftar. Intanto che si delineavano due parlamenti, uno a Tripoli e l’altro a Tobruk, in Cirenaica, una terza forza, quella dello Stato Islamico (Isis), faceva il suo ingresso in Libia, alimentando la seconda guerra civile. Con l’intesa raggiunta a Skhirat, in Marocco, nel 2015 e un accordo di pace introdotto nel 2016, si viene a formare un governo di coalizione: le Nazioni Unite e la comunità internazionale riconoscono in Fayez al Sarraj il ruolo di premier.
Il controllo sul petrolio diviso a metà
Come raccontato sulle pagine di Le Monde, con l’occupazione della mezzaluna petrolifera da parte di Haftar, le cose sono cambiate: se fino a quel momento il generale era visto come un militare bellicoso, e per questo motivo messo da parte dagli stati occidentali, una volta ottenuto il controllo dei vasti giacimenti di petrolio, alcuni stati hanno iniziato a guardarlo in modo diverso, quasi come un possibile alleato. A suo favore giocava il ruolo ricoperto da Haftar nell’aver combattuto contro i jihadisti in Libia. Fino a quando le cose sono precipitate nell’aprile 2019, quando il comandante ha fatto bombardare l’aeroporto di Mitiga, l’unico aperto ai civili. Tripoli si trovò spiazzata e subito annunciò una controffensiva. Ma ormi la guerra era iniziata e con questa il gioco delle parti. Intanto in soli due giorni di conflitto si contavano già 47 morti, tra cui 9 civili, e 2.800 sfollati.
Tra i principali sostenitori della politica militare ed espansiva di Haftar ci sono gli Stati Uniti: il presidente Donald Trump, fa sapere la Casa Bianca in una nota del 15 aprile, “ha riconosciuto il ruolo significativo di Haftar nella lotta al terrorismo e nel mantenere al sicuro le risorse petrolifere della Libia” e ha “discusso una visione condivisa per la transizione della Libia verso un sistema politico stabile e democratico”.
Haftar, infatti, ha messo le mani sul 50 per cento della produzione petrolifera libica: il Lna ha preso il controllo di Sharara, il giacimento più grande di tutta la Libia con i suoi 315mila barili al giorno (e gestito dalla compagnia petrolifera nazionale libica Noc in collaborazione con Repsol, Total, Omv e Equinor), e di el-Feel, il giacimento Elephant (dove invece opera l’italiana Eni) che estrae 80mila barili al giorno. Inoltre il governo della Cirenaica controlla ora anche i due principali terminal petroliferi di Ras Lanuf e El-Sider, in zona Sirte. Haftar, in un mosaico di alleanze sempre sull’orlo della crisi, può contare per ora anche sul sostegno di Francia, Arabia Saudita, Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti.
Dall’altro lato, al Sarraj può contare sull’altra metà della produzione libica (e sull’appoggio di Onu, Qatar e Turchia): sotto il governo di Tripoli infatti restano i giacimenti offshore di Bouri, al 50 per cento di Eni, e di al-Jurf, che insieme producono poco più di 100mila barili al giorno (dati Startmag). Eni e Noc, poi, gestiscono anche il giacimento naturale di gas a Wafa. Rimane in zona contesa il gasdotto GreenStream, il gasdotto che collega la Libia all’Italia, il cui terminal è gestito da Eni. Formalmente questa zona è in mano al premier al Serraj ma dista a pochi chilometri dall’offensiva di Haftar.
L’Italia da che parte sta?
L’Italia non ha chiarito la sua posizione: intanto che Haftar continua l’avanzata verso Tripoli, Serraj chiede al governo italiano di riposizionare il suo giudizio dopo la dichiarazione di neutralità del presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte: “Né con Sarraj, né con Haftar, ma con il popolo libico”, ha detto Conte durante una visita in Cina. Sarraj, che intanto ha richiesto l’arresto di Haftar e di altri suoi 63 uomini, considera la posizione di Roma molto pericolosa, in quanto non prende le distanze da “un criminale di guerra che ha aggredito la capitale e i suoi tre milioni di abitanti bombardando i civili”. Così il suo ministro dell’interno Fathi Bashaga, annunciando una battuta d’arresto su tutti i fronti da parte delle milizie di Haftar, avverte Conte: “L’Italia deve fare bene i suoi calcoli, visto che gli interessi nazionali sono principalmente in Tripolitania, a partire dall’impianto Eni di Mellitah, e dalle commesse energetiche, che vengono cogestite con la Noc, autorità petrolifera nazionale che, come la Banca centrale, risponde a Sarraj”. Nonostante l’avvertimento, Conte ha accolto il generale Haftar a Roma per parlare della situazione in Libia.
Il destino dei migranti che arrivano in Libia
Nonostante gli appelli alla tregua, gli scontri continuano provocando morti e costringendo intere famiglie a lasciare la propria terra. I centri di detenzione colmi di migranti provenienti da tutta Africa vengono abbandonati a loro stessi: Al Jazeera, nei giorni scorsi, ha contattato le persone all’interno di queste strutture confermando che centinaia di detenuti non stanno ricevendo né cure né cibo.
L’agenzia dell’Onu per i rifugiati ha chiesto “un accesso umanitario sicuro, prolungato e senza ostacoli a tutte le aree di conflitto”. Secondo l’Onu attualmente questi centri – formalmente sotto il controllo del dipartimento per la Lotta alla migrazione illegale (Dcim) ma di fatto gestiti dalle milizie – ospitano circa seimila persone e più di seicento bambini. La maggior parte sono persone respinte dall’Europa e riportate nel paese africano. Nonostante l’Italia e l’Unione europea continuino a fornire fondi e addestramento alla guardia costiera libica in cambio delle intercettazioni in mare, l’Onu ha ribadito che la Libia non è affatto un porto sicuro. Da quando è iniziata la terza guerra civili libica, l’Italia ha aperto un solo corridoio umanitario, accogliendo 147 rifugiati da Misurata, di cui 68 minorenni (46 non accompagnati).
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