Il concerto milanese per Gaza, un successo di pubblico e raccolta fondi, è stata la presa di posizione più forte contro il genocidio della scena musicale italiana.
“Esporsi è un dovere, altrimenti si è corresponsabili”. Cosmo parla di musica, diritti e attivismo
“Sulle ali del cavallo bianco” è il nuovo album di Cosmo, a tre anni dall’ultimo. Un periodo in cui il musicista di Ivrea è cambiato molto, tranne su un punto. La voglia di lottare per i diritti civili.
Il 15 marzo è uscito Sulle ali del cavallo bianco, il nuovo album di Cosmo, aka Marco Jacopo Bianchi da Ivrea. Sono passati tre anni dal suo lavoro precedente, La terza estate dell’amore, ma sembra passata una vita. In tutti i sensi. Lì c’era la pandemia, il distanziamento sociale e le difficoltà di far sentire alla gente la propria musica per tutte le limitazioni ai concerti legate al contagio. Oggi Cosmo è già in tour per promuovere il nuovo album, un lavoro molto diverso dal precedente, più pop senza mai dimenticare la sperimentazione.
In questi tre anni è cambiato Cosmo. “Forse sono invecchiato, forse sono solo più maturo”, dice. In questi tre anni però è cambiata anche l’Italia, politicamente e socialmente. Cosmo è un musicista, ma in questi anni non si è mai tirato indietro quando c’era da parlare di diritti umani, di fare attivismo. Ed è anche e soprattutto di questo che abbiamo voluto parlare con lui: repressione, droghe, antagonismo sociale, femminismo, Gaza. Passando per l’ambientalismo, come quella volta nel 2023 che ha messo “Stop greenwashing” nell’Ariston del Festival di Sanremo, sponsorizzato da Eni.
Iniziamo parlando un po’ di musica. Il tuo nuovo album, Sulle ali del cavallo bianco, è molto diverso dal Cosmo precedente. Qual è stata la sua genesi, cosa è cambiato in te in questi anni?
Non avrei mai fatto un disco così tanto italiano e pop e meno clubbing e politico se prima non avessi fatto La terza estate dell’amore (2021). In L’ultima festa (2016) e Cosmotronic (2018) ero più infognato con roba club, in La terza estate dell’amore c’era una politicizzazione maggiore. A un certo punto come artista però mi annoio di fare sempre le stesse cose, trovo limitante fare un viaggio uniforme, in una sola direzione. Avevo spinto questo razzo in una direzione sempre dritta, anche a livello di scrittura avevo asciugato sempre più le armonie, le avevo rese meno complesse con un accordo o due a canzone, giocavo più sulla ritmica e sul ballo. Poi però questo ha iniziato a starmi un po’ stretto, avevo voglia di sentire e vedere qualcos’altro, di giocare in altro modo con gli strumenti, con le canzoni. Avevo voglia di cantare anche cose più romantiche, era un periodo particolare della mia vita e volevo esprimere queste sensazioni.
Tre anni fa eravamo nella pandemia, c’erano rivalse politiche collettive legate soprattutto alla prossimità dei corpi, al controllo sociale che avevano l’urgenza di venire fuori. Ora ho altre altre urgenze espressive, più personali. Non voglio che il mio impegno politico limiti la mia libertà artistica, voglio poter sperimentare senza freni. Questo album nasce anche per contrasto rispetto a quanto fatto prima. Alcuni che si erano legati a un certo immaginario e a certe aspettative non lo stanno capendo ma questo per me è motivo di orgoglio perché comunque sto facendo quello che voglio io, sono super onesto con me e con loro. Non sto ripetendo una forma che mi fa comodo.
Insomma, hai preso una nuova declinazione musicale ed espressiva. Rimarrà questa, o può essere che torni indietro, o che cambierai ancora?
Non c’è più una direzione, la mia voglia di fare musica è diventata molto più postmoderna. Ci vogliono anni per sperimentare un nuovo linguaggio, io mi ero preso bene col clubbing e il suo linguaggio, è bello manovrare una materia, giocarci e vedere tutte le sue ricchezze e possibilità espressive ed energetiche. Una volta fatto, però, come un bambino ho voglia di passare ad altri giocattoli. La musica la vedo un po’ così, come un gioco.
Sulle ali del cavallo bianco è anche il primo disco che non faccio da solo. L’ho realizzato col musicista Not Waving, che ha un’estrazione più sperimentale e underground con la sua etichetta Ecstatic. Lui mi diceva ‘facciamo una roba pop ma strana, con i suoni strani. Marco, dici ti amo in una canzone, non l’hai mai detto, dillo, dillo!’. Ero un po’ entrato in conflitto con questa cosa di fare la musica pop, però sto scoprendo che essere speciali non passa sempre dal dire cose straordinarie. Passa anche da un’attitudine, non è per forza esporre la coolness ma anche soltanto assecondare un gusto, una ricerca che siano anche popolari. Ci piace anche l’idea di poter aprire vie nuove alla produzione pop in Italia, cercando di essere il più onesti possibili. Adesso Cosmo è diventato un progetto a due di cui facciamo parte io e Not Waving, aka Alessio Natalizia.
In questi anni sei cambiato tu e questo cambiamento lo troviamo nel tuo nuovo album. In questi anni però è cambiato anche il contesto in cui tu, come artista, ti sei ritrovato ad agire. La repressione e la criminalizzazione del divertimento la fanno da padrone, penso al decreto anti-rave del governo Meloni. Cosa significa questo per un musicista come te?
Oggi viviamo in un contesto dove la repressione non è solo del divertimento, ma del dissenso. Viviamo con spettri del fascismo sempre più concreti, tante cose che abbiamo dato per scontate in termini di diritti e libertà lo sono sempre meno. Nel momento in cui c’è qualcosa legato al divertimento che non è istituzionalizzato, da cui non si estrae profitto, c’è subito criminalizzazione. Non vedo modi più sani di usare lo spazio pubblico che non sia festeggiare e ritrovarsi, eppure il fatto di fare assembramenti, di radunare le persone, viene considerato un pericolo per l’ordine pubblico. Abbiamo finito la Seconda guerra mondiale scrivendo in Costituzione che la libertà di riunione pacifica è tutelata e oggi invece i giovani che si riuniscono e si divertono sembrano fare schifo, è vista come roba sporca.
Non vedo modi più sani di usare lo spazio pubblico che non sia festeggiare e ritrovarsi, eppure il fatto di fare assembramenti, di radunare le persone, viene considerato un pericolo per l’ordine pubblico.
Per me è chiaro che la mancanza di permessi per fare una festa e altri stratagemmi simili vengono usati per bersagliare determinate categorie fastidiose, scomode. Categorie antagonistiche o anche solo socialmente svantaggiate. Rientra tutto in una logica dell’ossessione per il decoro, pulire la polvere dalle nostre belle città e spingerla sempre più fuori. Quella dei rave party fu una grandissima pagliacciata del governo Meloni. Si erano appena insediati, c’era stato un rave a Modena e per far vedere i muscoli avevano alzato un polverone per quella che alla fine era una festa.
Questa repressione costante crea anche cortocircuiti, come nel campo delle sostanze stupefacenti. Penso al tema della riduzione del danno (politiche e servizi come distribuzione di siringhe pulite, screening della droga ecc volti a ridurre le conseguenze negative del consumo di droghe), da sempre un vanto italiano e riconosciuta come fondamentale in luoghi come i concerti. Come vivi da artista la sua ostracizzazione?
La politica teme di perdere un pezzo di elettorato se fa cose come la riduzione del danno. Tutto è basato sul consenso, invece di spiegare all’elettorato i suoi benefici riconosciuti dalla letteratura scientifica si fa perno sui timori perché ‘se fai riduzione del danno tu incentivi l’utilizzo’. Il proibizionismo non ha funzionato, decenni di guerra alle droghe non hanno funzionato, forse è il momento di parlare delle alternative. Il discorso è molto ampio, è scandaloso ci sia un intasamento nelle procure e nelle carceri per reati legati alla droga. Noi viviamo in un ambiente tecnologico e sottoscrivo a pieno quello che ha scritto Enrico Petrillo in Notti tossiche: per lui la droga è una delle tante tecnologie che abbiamo inventato, viviamo in un ambiente che non è più quello naturale, siamo circondati da tecnologie anche a livello corporeo, medico, farmacologico e da sostanze che prendiamo per performare.
L’alcool inonda le nostre tavole da sempre ed è una droga pure quella. Come abbiamo stabilito che nella buona famiglia ci può stare la bottiglia di vino però non si può spiegare il modo in cui il ragazzino può approcciarsi alla sostanza, che sia ecstasy o ketamina? Perché davvero non sono passeggiate quelle sostanze, però io preferisco che un giovane abbia ben consapevolezza del dosaggio, della profilassi che ci vuole, delle conseguenze che avrà. Il risultato è che avremo gente che si fa esattamente come prima, ma con cognizione. Anche questa è riduzione del danno.
Qual è il tuo rapporto con le sostanze stupefacenti e quanto incidono nella tua produzione musicale?
Io sono un consumatore occasionale, mi ritengo uno psiconauta. Non lo faccio con ossessione, so e conosco le sostanze e magari so il contesto in cui assumerle e le quantità. Ho avuto esperienze molto forti, fatte perlopiù in mezzo alla natura. In alcuni casi positive, altre negative, altre non l’ho capito come una delle ultime con un alto dosaggio di psilocibina.
Ho visualizzato come in noi creatività e fantasia vadano avanti a prescindere e buttino fuori continuamente roba e noi dobbiamo ogni tanto riuscire a toccarla, andarci dentro per riuscire a trarne idee e spunti. La creatività dentro di noi è senza limiti.
Durante una di queste esperienze ho visualizzato un’immagine che emergeva nel buio e continuava a cambiare forma, io mi chiedevo ‘ma chi cazzo sta facendo tutto questo’, io ero lì spettatore e ho avuto la sensazione che quella fosse una creatività libera, fuori controllo, come una fonte a cui io potessi attingere ogni volta che volevo. Ho visualizzato come in noi creatività e fantasia vadano avanti a prescindere e buttino fuori continuamente roba e noi dobbiamo ogni tanto riuscire a toccarla, andarci dentro per riuscire a trarne idee e spunti. La creatività dentro di noi è senza limiti. È stato molto interessante, quello che è frustrante però è la difficoltà nel riuscire a verbalizzare tutto questo.
Tornando al discorso di prima della riduzione del danno, è importante fare queste cose nel contesto giusto, con il setting corretto, con una persona che ti segue. In questo modo si potranno ottenere benefici. Io sono altamente fiducioso per le ricerche che vanno avanti in questo momento riguardo all’utilizzo degli psichedelici per le cure psicologiche e psichiatriche, credo la terapia a base di psichedelici sia una strada interessantissima, negli Stati Uniti si parla di tassi di successo del 60-70 per cento.
Ti senti una responsabilità come artista di lanciare certi messaggi politici e sociali? Penso per esempio quando a Sanremo hai messo “Stop greenwashing”, ai messaggi che lanci sul genocidio in corso a Gaza e altri episodi simili.
Più che di responsabilità verso il pubblico parlerei di responsabilità verso me stesso: in certi contesti mi chiedo cosa posso farmene della mia esposizione. Nel caso del Festival di Sanremo nel 2022 mi aveva invitato La Rappresentante di Lista per la serata cover, avevo accettato perché mi facevano rimaneggiare la produzione e mi piaceva l’idea di portare roba un po’ matta. Poi quando mi hanno contattato gli ambientalisti per raccontarmi come Eni sponsorizzava il festival ho detto no, non si può star zitti. Lì è nata l’idea di mandare quel messaggio, “Stop greenwashing”.
Negli Stati Uniti gli artisti prendono posizione anche solo per le elezioni, qua invece si dice troppo spesso che non si vuole parlare di politica, c’è un qualunquismo generale della scena musicale. La situazione politica va cambiata non disinteressandosene, non facendo finta di niente.
Io sia chiaro non sono un attivista, gli attivisti sono quelli che si fanno il culo tutti i giorni coi presidi contro i Centri per i rimpatri (Cpr), con le iniziative per i diritti civili in chiave intersezionale. Io sono una persona con una sua coscienza politica che ogni tanto sbotta, credo ancora in un ruolo dell’intellettuale organico, sono gramsciano da questo punto di vista. Quando ho sentito Ghali fare quell’uscita sul genocidio nell’ultimo Festival di Sanremo ho detto ‘Oh cosi si fa, ti devi far sentire’. Negli Stati Uniti gli artisti prendono posizione anche solo per le elezioni, qua invece si dice troppo spesso che non si vuole parlare di politica, c’è un qualunquismo generale della scena musicale. La situazione politica va cambiata non disinteressandosene, non facendo finta di niente.
Abbiamo un governo che lotta per togliere diritti alle minoranze, che manda le navi delle ong ad attraccare a centinaia di chilometri di distanza dal porto più vicino, ci sono crociate quotidiane contro i poveri. Questa destra non è un cazzo sociale, è repressiva è basta. L’importante è togliere diritti a qualcuno. Poi guardi fuori e vedi cosa succede nella Striscia di Gaza. Solo un pazzo sadico può giustificare quello che sta facendo Israele. In questo contesto generale esporsi è un dovere, non farlo è essere corresponsabili.
Finché vedo gente nelle piazze c’è sempre speranza, i ventenni di oggi e le loro battaglie mi piacciono parecchio. Frequentando un po’ di luoghi di antagonismo e attivismo negli ultimi tempi mi ha sconsolato notare una spaccatura tra la nuova ondata che mette al centro temi come il transfemminismo e una vecchia guardia che non riconosce l’importanza di queste lotte. Io sono assolutamente dalla parte della generazione nuova, quella che denuncia l’oppressione di classe ma anche di genere. Tutte queste lotte andrebbero portate avanti insieme, come parte di un’unica cosa.
Chiudiamo ritornando al tuo nuovo album, ma non per parlare di musica. Che momento è e cosa aspettarsi in futuro in termini di protagonismo ed emancipazione femminile in Italia secondo te, da padre di una figlia a cui hai dedicato proprio una canzone sull’emancipazione, Talponia?
In Italia al governo c’è una forza politica che dà contro alle lotte femministe, alla libertà di autodeterminazione della donna e alla sua sostanziale emancipazione. Basta pensare che la prima premier donna si fa chiamare “Il presidente”, quindi da questo punto di vista immagino che il mondo femminile in Italia abbia un grosso ostacolo davanti a sé.
Tuttavia penso che le nuove generazioni, in cui includo anche mia figlia tra un po’ di anni, sono sicuramente a un livello di consapevolezza e di spirito guerriero che fa ben sperare. L’ondata di femminismo di questi ultimi anni ha fatto avanzare le lotte di parecchi metri e ora è difficile che vengano perduti, è più facile conservarli rispetto al passato perché è come se si fosse rotto un argine. Questo non vuol dire che i problemi legati al patriarcato spariranno nel breve termine. Sicuramente però sta arrivando una generazione molto più consapevole e pronta a lottare per i propri diritti.
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