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Spesa, quanto di ciò che spendi arriva a chi coltiva la terra
I dati emersi dall’ultimo rapporto Ismea, l’ente pubblico che analizza il mercato agro-alimentare, ci obbligano a riflettere sul costo del cibo e su come buona parte del prezzo pagato non arrivi agli agricoltori.
Quanto costa il cibo o, meglio, quanto dovrebbe costare? Quanto siamo disposti a spendere quando andiamo al supermercato? La risposta più semplice è che il cibo dovrebbe costare di più ma non possiamo pagarlo di più. Quando parliamo del costo del cibo, infatti, bisogna fare una distinzione netta tra quanto dovrebbe costare e quanto, al contrario, possiamo spendere. E, purtroppo, le due cose spesso non coincidono.
Quanto dovrebbe costare il cibo
Partiamo dalla prima questione: quanto dovrebbe costare. Secondo molti analisti il nostro scontrino alla cassa del supermercato dovrebbe segnare il doppio del prezzo attuale. Il che è evidentemente un bel problema. Questo perché il prezzo che paghiamo dovrebbe – sottolineo dovrebbe – remunerare tutti gli anelli della filiera: dovrebbe, cioè, pagare il salario (adeguato) del bracciante che raccoglie la materia prima, quello dell’agricoltore che conduce la sua azienda. Dovrebbe coprire i costi di trasformazione dell’industria alimentare e poi, ancora, il trasporto, la logistica e, infine, la distribuzione. E a questi dovrebbero anche aggiungersi i costi ambientali (emissioni di CO2, inquinamento, consumo di suolo, solo per fare qualche esempio) e sanitari che spesso, anzi quasi sempre, restano fuori dal calcolo e si trasformano in costi per la collettività. Tralasciando questi ultimi costi, che pure sono fondamentali, dove vanno a finire i soldi della nostra spesa? Quanto viene remunerato ogni anello della filiera? A rispondere a queste domande ci ha pensato Ismea, l’ente pubblico che analizza i mercati agro-alimentari, che nel suo ultimo rapporto fa emergere un quadro desolante. Dice, cioè, che per cento euro di spesa che ognuno di noi fa al supermercato, all’agricoltura vanno le briciole, ovvero 1,5€ (che arrivano a sette se si parla di cibo fresco). Al netto dei costi vivi, la parte prevalente va alla logistica e alla distribuzione. Questo vuol dire che molto del prezzo che stiamo pagando non va a chi lavora la terra. E, a proposito di briciole, è dentro questo squilibrio nella ripartizione del valore lungo la filiera che si rintracciano le cause profondi dello sfruttamento e del caporalato.
Quanto possiamo spendere
Poi, lo abbiamo detto, c’è un secondo problema. Quanto possiamo spendere per la nostra spesa? Per moltissime persone, anche quei cento euro di esempio a cui si riferisce Ismea sono una cifra proibitiva. Se pure non volessimo considerare quei sei milioni di persone che vivono in una condizione di povertà assoluta, per la stragrande maggioranza di noi – persone comuni che in questo momento stanno leggendo questo articolo e che fanno la spesa abitualmente – fare la spesa significa cercare il prezzo più basso, l’offerta migliore, lo sconto irrinunciabile. E questo è dovuto al fatto che i salari in Italia sono fermi al palo da trent’anni. Il risultato è che i supermercati, per rispondere a questa esigenza, fanno a gara a chi fa l’offerta più allettante, quella che ci convince ad andare presso un loro negozio. Solo che questo sconto non lo paga il supermercato ma viene scaricato sugli anelli inferiori della filiera, impoverendo oltremodo la parte agricola.
Siamo davanti a un paradosso: il cibo costa troppo e, allo stesso tempo, costa troppo poco. Costa troppo per milioni di persone (miliardi se allarghiamo lo sguardo oltre confine) che fanno fatica a far quadrare i conti, che non arrivano alla fine del mese, che sono costrette a ingegnarsi per preparare da mangiare ogni giorno senza rinunciare a nulla. Allo stesso tempo, costa troppo poco perché quel costo, lo abbiamo visto, non copre i costi nascosti e non remunera adeguatamente neppure gli agricoltori.
Per affrontare questo paradosso e rendere eque e sostenibili le filiere, ci sono almeno due cose da fare: redistribuire profondamente quei 100 euro, fare cioè in modo che a chi produce il nostro cibo vada molto di più, e aumentare i salari di tutte e tutti noi. Solo così potremo pagare il cibo al prezzo dovuto, remunerando adeguatamente tutti.
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