Dopo un mese di razionamenti, sono stati completati i lavori per la condotta provvisoria che porterà l’acqua dal fiume alla diga di Camastra, ma c’è preoccupazione per i livelli di inquinamento.
Come il cotone ha desertificato l’Uzbekistan
Era il secondo bacino per estensione dopo il mar Caspio e ora è un deserto: a causa della coltivazione intensiva del cotone stiamo perdendo il lago Aral.
- Il lago Aral era, fino a mezzo secolo fa, uno dei laghi più estesi al mondo, ma oggi ha perso il 75 per cento del suo volume.
- La desertificazione del bacino è dovuta principalmente alla coltivazione intensiva del cotone, voluta dal regime sovietico a partire dalla Guerra fredda, quando il corso di due fiumi venne deviato per favorire l’irrigazione dei campi.
- Questa, che è una delle catastrofi ambientali più gravi dei nostri tempi, ha enormi conseguenze sociali oltre che ambientali e si deve imputare principalmente alla coltivazione tradizionale del cotone.
Dopo il mar Caspio, come estensione di specchi d’acqua, c’era il lago Aral che, fino a cinquant’anni fa, era tra i laghi più grandi del mondo. 68mila metri quadrati che, stando al rapporto del World resources institute, dal 1960 ad oggi si sono ridotti del 75 per cento. Adesso di quell’enorme occhio blu a cavallo tra Uzbekistan e Kazakistan rimane poco e, soprattutto, emergono i segni di questo progressivo svuotamento, come relitti di navi nel pieno del deserto e sabbia a perdita d’occhio. La desertificazione evidente di un lago tanto grande suscita non poca preoccupazione, tanto che la Nasa monitora la sua situazione quasi costantemente.
Come mai il lago Aral si è svuotato?
Per trovare le cause della progressiva desertificazione del lago Aral bisogna tornare indietro di qualche decennio quando, durante la Guerra fredda, il regime sovietico decise di deviare il corso di due dei fiumi che si immettevano nel lago, l’Amu Darya e il Syr Darya, con lo scopo di irrigare le neonate coltivazioni intensive di cotone dell’epoca. In Uzbekistan di certo non manca lo spazio, ma l’acqua sì e il cotone, come tipo di coltivazione, ne richiede molta. Questo, combinato con la progressiva evaporazione e la riduzione della portata dei fiumi, ha determinato il radicale cambiamento del paesaggio lacustre.
Questa operazione aveva l’obiettivo di rendere la coltivazione del cotone il fulcro dell’economia dell’Uzbekistan, cosa che in effetti è successa visto che, nonostante la sua superficie contenuta, è il sesto produttore al mondo. Per esportazione poi, con 50 chili prodotti per abitante, è secondo solo agli Stati Uniti. Lo scotto maggiore di tale sforzo produttivo lo ha pagato l’ambiente, e il lago Aral in particolare. Le piantagioni intensive necessitano di un dispiego enorme di diserbanti e pesticidi chimici che, con il tempo, hanno finito con l’inquinare sia il terreno sia l’acqua del lago che, non avendo emissari, non è stato in grado di espellere le sostanze tossiche. Una volta evaporata l’acqua, quindi, sul fondo non è rimasto altro che sabbia e polvere tossica.
Quella della siccità è la storia del cane che si morde la coda: più acqua evapora, meno ne rimane per mitigare il clima; questo fa sì che le temperature si alzino provocando un ulteriore evaporazione. In Uzbekistan sta succedendo proprio questo: il tasso di evaporazione, per via della totale mancanza d’acqua, è sempre più veloce. Questo si traduce in un’escursione termica più accentuata in una zona sempre più arida e desertificata.
Conseguenze ambientali, conseguenze umanitarie
Se, da un lato, la produzione del cotone è stata un fattore di crescita e ricchezza per l’Uzbekistan – oro bianco lo chiamano – le conseguenze, sia ambientali che sociali, della coltivazione intensiva sono state devastanti. L’effetto collaterale più macroscopico è rappresentato dalla quota di lavoro minorile, in costante aumento. Ogni autunno sono migliaia i bambini che lasciano la scuola per lavorare nelle piantagioni come raccoglitori, attività per la quale ricevono in media una paga di dieci centesimi di dollaro per chilo di cotone raccolto.
Il progressivo prosciugarsi del lago ha avuto un impatto significativo anche su tutta quella parte di popolazione che traeva sussistenza dalla pesca. La cittadina di Moynaq, che in origine sorgeva proprio sul lago, ora dista dalle sue coste cinquanta chilometri, lontananza che, oltre ad avere conseguenze sull’economia, incide pesantemente anche sulla salute dei suoi abitanti: malattie come tubercolosi, cancro alla gola ed epatiti sono qui tre volte più frequenti rispetto al resto del paese per via della qualità dell’aria, che è fortemente inquinata.
Dal deserto si torna indietro?
L’anno peggiore per il lago Aral è stato il 2014, anno in cui il bacino si è quasi totalmente prosciugato: secondo Philip Micklin, geografo della Western Michigan University, è successo perché quell’anno piovve meno e di conseguenza c’era meno neve sulle montagne del Pamir, cosa che ha notevolmente ridotto il flusso d’acqua dell’Amu Darya. Da allora la situazione è migliorata, ma resta comunque drammatica.
Per provare a tamponare la situazione nel 2005 è stata costruita una diga con l’intento di separare le acque del nord e del sud del lago con l’obiettivo di aumentare l’affluenza del fiume Syr Daryam. Pare che, così facendo, siano stati guadagnati venti chilometri di costa e che la pesca, nella regione di Kyzylorda, si sia quintuplicata. Sono anche stati piantati degli alberi di Saxaul intorno al villaggio Aralkum su iniziativa di un agricoltore: questi piccoli arbusti, tipici delle steppe dell’Asia centrale, resistono bene alla siccità e contrastano l’avanzata del deserto.
Cotone sì, cotone no
Il cotone, lo abbiamo detto, è una risorsa, è una fibra versatile e durevole; il problema però sta nel tipo di coltivazione. Ciò che ha portato alla desertificazione del lago Aral è stata la modalità aggressiva e intensiva. Per questo è importante prediligere per lo più cotone biologico organico certificato. Stando ai dati diffusi da Textile exchange, la coltivazione tradizionale richiede molta più acqua: il cotone organico fa risparmiare 1.930 litri per ogni tonnellata.
L’utilizzo di agenti chimici inquinanti è il disclaimer fondamentale: nella coltivazione del cotone tradizionale è massiccia e comporta un progressivo indebolimento del terreno che, per via dell’effetto della monocultura e delle sostanze inquinanti assorbite, diventa sempre meno fertile e quindi, per continuare a produrre, necessita di una maggiore irrigazione in un costante cane che si morde la coda. Di contro, nella coltivazione del cotone organico biologico, vengono eliminate le sostanze chimiche tossiche e il controllo dei parassiti viene affidato alle pratiche colturali biologiche e agli insetti benefici: questo fa sì che la fertilità del territorio rimanga alta.
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