I nativi americani hanno un tasso di mortalità doppio rispetto agli statunitensi bianchi. A perdere la vita sono i più anziani, una tragedia umana e culturale.
Da quando è scoppiata la pandemia è morto un nativo americano ogni 475, un dato doppio rispetto a quello degli statunitensi bianchi. Navajo, Sioux, Cherokee e le altre popolazioni indigene degli Stati Uniti stanno soffrendo in modo molto più violento l’emergenza sanitaria rispetto agli altri gruppi demografici e quella che è una tragedia umana rischia di rivelarsi anche un dramma culturale. A perdere la vita sono infatti perlopiù gli anziani, coloro cioè che sono incaricati di tramandare linguaggio, usi e costumi alle nuove generazioni. Ecco perché le comunità si stanno spendendo collettivamente per far arrivare loro i vaccini il prima possibile.
Una strage silenziosa
A inizio febbraio l’Apm research lab ha pubblicato uno studio sul legame tra le morti per Covid-19 e l’etnia negli Stati Uniti. I numeri sono impressionanti: i nativi americani hanno fatto registrare un tasso di mortalità di una persona ogni 475, un valore che per gli afroamericani scende a 1/646, per i bianchi a 1/825 e per gli asiatici a 1/1.320. Di fatto, gli indiani d’America stanno morendo di Covid-19 il doppio rispetto ai bianchi e perfino 2.7 volte più dei cittadini statunitensi di origine asiatica. Il dato è in costante peggioramento perché nessuno nel mese di gennaio 2021 ha fatto registrare un incremento dei decessi tanto forte quanto i gruppi indigeni. Peraltro è molto probabile che i numeri siano sottostimati, dal momento che proprio i nativi americani finiscono spesso al di fuori delle statistiche nazionali a causa delle difficoltà o del disinteresse delle autorità a includerli.
Native Americans are DYING AT THE HIGHEST RATES from COVID.
È una vera e propria strage quella in corso nelle riserve americane, così come nel resto del territorio, in particolare tra gli stati del Mississippi, New Mexico, Arizona, Montana, Wyoming, North e Sud Dakota. Solo tra gli indiani Navajo si contano a oggi più di mille morti, mentre nello stato del Mississippi è morto un indigeno ogni 127. In Montana invece ha perso la vita l’1 per cento della tribù dei Northern Cheyenne.
Il motivo per cui i popoli indigeni statunitensi stanno soffrendo il Covid-19 più di tutti ha carattere geografico, economico e sociale. Spesso le riserve si trovano tagliate fuori dall’assistenza sanitaria, perché distanti decine e decine di chilometri dal presidio ospedaliero più vicino. Inoltre, vi sono problemi di igiene, nel senso di difficoltà ad avere un accesso costante all’acqua corrente, necessaria per le misure di prevenzione personale dal virus. C’è poi il discorso del sistema immunitario di queste persone, che sono più vulnerabili alle malattie rispetto al resto della popolazione. Infine, il disinteresse istituzionale riguardo alla loro condizione, un problema che va avanti ormai da secoli, non ha fatto altro che far precipitare la situazione in un momento critico come quello attuale.
L’eredità culturale a rischio
Secondo le statistiche più recenti, il 10 per cento della popolazione dei nativi americani ha più di 65 anni. E a soffrire più di tutti la pandemia sono proprio loro. Tra i Cherokee, un quarto dei decessi per Covid-19 ha riguardato i madrelingua anziani, mentre tra i Navajo il 70 per cento delle vittime aveva più di 60 anni. Bastano questi dati per comprendere qual è l’altra grande minaccia che questa pandemia sta rappresentando per gli indiani d’America: non c’è solo il rischio di uscirne decimati, ma anche di perdere i propri punti di riferimento culturale, in comunità dove le persone anziane svolgono un ruolo sociale fondamentale.
“È come prendere alcune pagine di un libro, strapparle e buttarle via”, ha spiegato un indiano Sioux. Il libro è la cultura indigena e le pagine sono tutti quegli insegnamenti che stanno andando perduti, non solo perché molti anziani stanno perdendo la vita, ma anche perché proprio per la loro vulnerabilità sanitaria sono spesso stati isolati dal resto delle comunità, in particolare dai più giovani. Che dunque crescono saltando quello step di apprendimento con cui usi e costumi si tramandano da secoli.
In questi mesi hanno perso la vita saggi, insegnanti, addetti alle cerimonie e altre figure di rilievo all’interno delle comunità indigene americane. Tra chi non c’è più a causa del Covid-19, spicca per esempio Albert Hale, ex presidente Navajo e rappresentante statale dell’Arizona. Nel caso dei Cheyenne, un quarto dei decessi ha riguardato anziani madrelingua. “La nostra lingua, la cultura e le tradizioni sono ciò che ci rendono Cheyenne, ma stiamo perdendo i nostri insegnanti. Come farò a tramandare a mio figlio quello che io non ho ancora fatto in tempo a imparare? Le comunità indigene stanno affrontando una crisi culturale”, ha sottolineatoDesi Rodriguez-Lonebear, professoressa Cheyenne alla University of California.
Resilienza e vaccini
Colpiti duramente dalla pandemia, lasciati soli dalle istituzioni nazionali, i popoli indigeni d’America si stanno organizzando per tutelare i membri più anziani. Fuori da alcune riserve Navajo sono stati posti dei cartelli dove si chiede di non entrare o di fare attenzione ai contatti sociali, per evitare di diffondere il virus. Gruppi di volontari indigeni e non si sono organizzati per portare a chi si trova più isolato cibo, acqua e materiale sanitario. In alcuni villaggi sono stati messi a disposizione dei membri più anziani computer e social media, così che possano continuare a comunicare con il resto della popolazione, proseguendo da remoto la loro opera educativa. E i Sioux hanno sviluppato un loro programma di contact tracing, essendo stati esclusi di fatto dal tracciamento statale.
The Cherokee Nation is prioritizing vaccines for rare language speakers like Tim King in an effort to protect its culture and community from COVID-19 pic.twitter.com/kKbGPQcYiE
Tante iniziative, che agiscono da contorno all’aspetto considerato più importante: i vaccini. Come ha rilevato un’indagine di qualche mese fa, il 75 per cento degli intervistati indigeni statunitensi vuole fare il vaccino, contro il 56 per cento della popolazione nazionale. “La motivazione principale per i partecipanti che hanno indicato la volontà di farsi vaccinare è un forte senso di responsabilità, per proteggere la comunità nativa e preservare la propria cultura”, si legge nel report. E da qualche settimana sono in corso di somministrazione le prime dosi. Tra i Cherokee sono state vaccinate già più di 12mila persone, un quarto dei Muckleshoot ha già avuto la sua dose e i centralini delle istituzioni sanitarie ricevono migliaia di chiamate da parte dei nativi americani per la richiesta di informazioni su date, luoghi e modalità di somministrazione. Mentre a livello nazionale il piano vaccini procede in modo più caotico, quanto meno dal punto di vista dell’età e delle precedenze, tra i popoli indigeni il problema non si pone. Gli anziani vengono prima, dal loro stato di salute dipende la sopravvivenza culturale delle comunità.
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