La scienza ce lo dice da decenni; i suoi effetti devastanti si moltiplicano sotto i nostri occhi e la pandemia di Covid-19 arriva come lapidaria conferma. Eppure la nostra mente continua a sentire la crisi climatica come un problema distante. Come se il rischio di estinzione della razza umana potesse essere un tema secondario ad altri più urgenti e importanti. Nemmeno i predittori più allarmanti espressi a chiare lettere dagli scienziati sembrano riuscire a determinare nelle nostre coscienze e nelle nostre azioni dei cambiamenti proporzionali ai rischi che corriamo.
Come mai? Cosa genera questa distanza tra crisi climatica e psiche umana? Perché la nostra mente si comporta in questo modo apparentemente suicida? Per provare a capire come funzionano i meccanismi cognitivi dietro a questo atteggiamento diffuso e i possibili interventi da mettere in atto per sollecitare l’azione dei singoli e della collettività in direzione di un cambiamento, ci siamo rivolti, ancora una volta, alla scienza, e nello specifico alla dottoressa Simona Sacchi, psicologa e professore associato di psicologia sociale presso l’Università degli Studi Milano-Bicocca, esperta in psicologia sociale. Con la dottoressa abbiamo provato a indagare il legame tra crisi climatica e psicologia, facendo anche un parallelismo tra la nostra reazione alla crisi ambientale e quella alla pandemia in corso. Eventi tra loro strettamente connessi, eppure percepiti in modo molto diverso dalle persone.
Crisi climatica e psicologia, serve un cambio di paradigma
L’argomento è stato al centro anche dell’evento online dal titolo “Le relazioni tra ambiente e Covid-19. Cronache di una pandemia annunciata”, organizzato dalla Casa della Psicologia dell’ordine degli psicologi della Lombardia il 9 dicembre. Ospiti del webinar la dottoressa Sacchi, il filosofo Mauro Ceruti, professore ordinario presso l’Università Iulm di Milano, e Luca Mercalli, climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana e giornalista scientifico. Un panel di esperti che ha dialogato e riflettuto sule legame tra Covid-19 e crisi climatica, tracciando un quadro del presente e cercando di tratteggiare un percorso futuro per rendere possibile il cambiamento. Una sfida che chiede un cambio di passo e di paradigma urgentissimo a partire dalle istituzioni e che necessita del contributo decisivo della scienza tutta. Una comunione d’intenti in cui anche alla psicologia e a tutte le scienze umane è chiesto di entrare in campo al fianco della climatologia, che dopo decenni di divulgazione serrata rischia di cedere di fronte alla frustrante sensazione di “lottare contro i mulini a vento”, nelle parole di Luca Mercalli. Senza molto più tempo a disposizione, ora ci è chiesto dunque di schierarci tutti in modo compatto e inequivocabile, come ribadito pochi giorni fa dal segretario Onu Antnio Guterres, che ha definito la necessità di “fare pace con la natura” una “priorità assoluta per tutti, ovunque”.
Making peace with nature is the defining task of the 21st century.
Come mai il nostro sistema cognitivo fatica a percepire la crisi climatica come rischio concreto e imminente? È una conseguenza dovuta alla nostra percezione del rischio. E qui serve una premessa: alcune parti del nostro cervello risalgono al Pleistocene, quando l’uomo doveva sopravvivere reagendo a minacce imminenti e prossimali come l’attacco di predatori. I nostri processi cognitivi si sono evoluti nel tempo per rispondere anche ad eventi astratti e di ordine simbolico, che mettono in pericolo per esempio i nostri valori. Il tema del cambiamento climatico soffre ancora molto di una percezione psicologica che risente di time lag e space lag, cioè viene visto come lontano nel tempo e nello spazio. Quindi noi lo percepiamo come un fatto negativo, ma non attiviamo lo stesso senso di allarme che invece scatta per altre minacce, che riteniamo più vicine da un punto di vista temporale e spaziale. Lo consideriamo come qualcosa che riguarda future generazioni e luoghi lontani, anche se stiamo assistendo sempre più a eventi catastrofici che colpiscono il nostro stesso Paese. Purtroppo la memoria collettiva tende a dimenticare anche grandi disastri da cui si viene colpiti e quindi c’è anche un tema di “distanza dal passato”, che ci rende miopi sul futuro.
Come possiamo confrontare il nostro atteggiamento psicologico nei confronti della pandemia con quello verso la crisi ambientale? Ci sono tante variabili che differenziano la percezione del rischio ambientale e del rischio pandemico. Il nostro sistema cognitivo è più pronto e in grado di affrontare la pandemia perché questa rappresenta una minaccia più prossimale, mentre fatica a riconoscere la crisi ambientale come una reale minaccia soggettiva e dunque ne sottostima il rischio. Nonostante la storia abbia affrontato ben più di una pandemia, noi non ne abbiamo memoria diretta e stiamo vivendo il Covid-19 come un evento totalmente nuovo e inaspettato. Cosa che non avviene coi cambiamenti climatici, che hanno uno sviluppo più diluito nel tempo e per certi versi sfumato, dunque le persone tendono ad abituarsi alla minaccia e questa famigliarità riduce molto il senso del pericolo. Un atteggiamento che, peraltro, vediamo in parte già in atto con lo stesso Covid-19: rispetto all’inizio della pandemia, oggi siamo abituati al bollettino giornaliero dei contagi e dei decessi, che a molti fa meno paura.
Dal punto di vista psicologico che impatto ha avuto la pandemia sulla percezione e l’atteggiamento delle persone rispetto al tema ambientale? Questa pandemia avrebbe potuto essere un volano importante, a livello psicologico, per prendere consapevolezza della crisi climatica e attivare comportamenti più sostenibili. Ci ha insegnato cosa vuol dire affrontare una crisi globale, fronteggiare un evento altamente negativo e modificare radicalmente la nostra quotidianità. Ecco perché alcuni ricercatori hanno indagato il carry over effect, chiedendosi cioè se la risposta comportamentale alla pandemia potesse avere effetto anche sul problema ambientale.
Ad oggi, i dati e gli studi fatti nel campo della psicologia sperimentale mostrano però che è in atto quello che si definisce un back seat, cioè una perdita di rilevanza del tema ambientale nell’agenda individuale. Questo avviene soprattutto perché gli esseri umani non possono affrontare più minacce contemporaneamente. In pratica, trovandoci ad affrontare una crisi sanitaria, a livello psicologico abbiano meno attenzione e risorse per l’ambiente: per fare un esempio molto semplice, se dobbiamo fare in fretta la spesa perché temiamo il contagio, finiamo per mettere nel carrello anche le confezioni di plastica meno ecologiche. Quindi, in sintesi, la pandemia è una grande palestra che potrebbe aiutarci a prepararci a ciò che avverrà in futuro coi cambiamenti climatici, ma l’osservazione a livello psicosociale ci dice che non la stiamo usando nel migliore dei modi.
Noi col nostro ultimo osservatorio MiSoste20 abbiamo rilevato, che nonostante le difficoltà del momento le persone continuano a reputare necessario modificare il proprio stile di vita rendendolo più sostenibile, una volta superata la pandemia. Come si può leggere, dal punto di vista psicologico, questa propensione? Bisogna considerare anche il tema della desiderabilità sociale, per cui dobbiamo distinguere tra ciò che la gente desidera e dichiara e ciò che la gente fa. La mia è una lettura psicosociale, che va integrata con altre letture (antropologiche, economiche, delle scienze naturali ecc) per avere un quadro più completo. Ciò che posso dire è che oggi non dobbiamo essere pessimisti, ma consapevoli. Dobbiamo indirizzare la comunicazione pubblica: i rischi connessi ai cambiamenti climatici devono essere spiegati, ma anche resi affrontabili, aiutando le persone a non avere l’impressione demotivante che le loro azioni siano inutili gocce nell’oceano. Le voci più importanti in questa sfida sono le istituzioni, i policy maker e la comunità scientifica, che gioca un ruolo fondamentale.
A frenare reazioni e cambiamenti decisi per fronteggiare la crisi ambientale è anche un senso di impotenza rispetto a problemi che ci appaiono “troppo grandi per noi”? Sì, e ciò è dovuto alla percezione di una distanza negli esiti dei nostri comportamenti. Abbiamo detto che l’uomo percepisce come rischioso qualcosa che ha un esito immediato, mentre tende a sottovalutare gli eventi con esiti distanti nel tempo, come per esempio l’esposizione all’inquinamento, che potrebbe causarci un cancro tra dieci anni. Per tornare al paragone con la pandemia: per quanto riguarda il covid, i nostri comportamenti preventivi, come il lockdown, hanno una latenza temporale contenuta, entro la quale è possibile vedere dei risultati. Rispetto alla crisi climatica il lasso temporale invece è più dilatato: anche una variazione comportamentale radicale produrrà risultati significativi solo dopo molti anni. Ciò vale sia per i nostri comportamenti negativi disfunzionali, che per quelli virtuosi che, non avendo un feedback immediatamente positivo, non riescono a rafforzare una risposta comportamentale nelle persone.
Quali leve si possono attivare dunque per sollecitare l’azione dei singoli e della collettività? Bisogna avvicinare psicologicamente le persone, lavorando sulla prossimità temporale e fisica. Questo va fatto non solo suscitando paura, ma fornendo anche gli strumenti per affrontare la minaccia, perché altrimenti si genera ulteriore distanza e rifiuto. Come per il covid: pubblicare solo i dati negativi non serve, le persone sono più disponibili ad agire se diamo anche le istruzioni su come evitare il contagio (mascherine, distanziamento ecc).
Un’altra strategia è quella di migliorare la comunicazione sul rischio, che è un concetto probabilistico. In genere le persone faticano a comprendere la probabilità in quanto teoria, mentre hanno più esperienza con la frequenza di eventi e situazioni. Quindi gli esperti devono imparare a rendere il linguaggio trasparente in questo senso.
Infine, è importantissimo dare informazioni sulle norme sociali, intese come atteggiamenti e comportamenti che sono normali per la maggioranza. Questo è uno strumento potentissimo. Se noi camminiamo in una piazza pulita, non butteremo mai una cartaccia per terra, perché in modo implicito stiamo inferendo che in quel luogo la gente non si comporta così. Diversamente, se siamo in una città degradata, anche se siamo sensibili a livello ecologico, magari buttiamo il mozzicone per terra. La norma sociale esercita una grande pressione sul singolo, perché ha un forte impatto motivazionale e funziona più di qualsiasi appello a dei valori astratti. Sapere che non sono da solo a comportarmi in un certo modo mi fa capire che non sono “solo una goccia nell’oceano” e che le mie azioni contano.
I più convinti di questo sono i giovani, protagonisti dei movimenti che in questi anni sono riusciti a portare il tema ambientale finalmente sulle prime pagine. Come si spiega da un punto di vista psicologico il gap con le altre generazioni? Qui torniamo di nuovo al tema della distanza psicologica. Le Generazioni X e in parte Y sono cresciute in un mondo in cui il cambiamento climatico era distante, le nuove generazioni invece vivono in un mondo in cui la minaccia è molto più prossimale e visibile. Questo fa sì che loro si sentano molto più coinvolti e hanno colto subito l’ottima metafora usata da Greta Thunberg. Lei dice: “Dobbiamo agire come se la nostra casa fosse in fiamme”. Una formula molto efficace per i nostri sistemi cognitivi, che invita all’azione perché rappresenta il clima come pericolo grave e imminente. Peraltro la forza dei più giovani, inclusi i bambini, è che le loro azioni hanno anche un potere di trascinamento sulle famiglie e gli adulti di riferimento. Questo aspetto ci deve riempire di ottimismo.
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