Secondo i dati preliminari il 2023 è stato un anno anomalo, in cui l’assorbimento netto della CO2 da parte degli ecosistemi terrestri si è quasi azzerato.
Le lavoratrici del delta del Po resistono, tra crisi idrica e siccità latente
Il delta del Po è una delle aree italiane che più sta subendo gli effetti dei cambiamenti climatici. Lo raccontano le donne coltivatrici che lì lavorano.
Il sole di settembre che cala sul delta del Po illumina con un vibrante giallo le radici delle piante di riso. Ormai secche, galleggiano nelle scarse acque rimaste nei canali. Elisa Moretto, risicoltrice Veneta, porta con sé un’eredità familiare legata a questa coltura, come dimostra una vecchia foto appesa con orgoglio nel suo negozio. Ogni anno, la sua azienda agricola, situata a venti chilometri dal delta del Po, coltiva 46 ettari di cinque varietà di riso.
“I prodotti che coltiviamo si trovano in una terra strappata al mare. Pertanto, hanno un profumo e un sapore diversi da quelli coltivati lontano da qui”
Elisa Moretto, risicoltrice
Come sta cambiando il delta del Po, la storia della risicoltrice Elisa Moretto
“Ora la mia più grande paura è che il mare si stia riprendendo la terra”, dice. Dopo anni di dedizione al suo lavoro, la concentrazione di sale lasciata dall’avanzata del mare sta soffocando i suoi campi, annunciando una diminuzione della sua produzione. Siamo nel 2022, e l’Italia si trovava ad affrontare la più grave siccità degli ultimi cinquecento anni. L’implacabile luce del sole e la mancanza di piogge hanno lasciato i chicchi di riso aridi, bruciati e vuoti. Una perdita di 2.700 quintali. I finanziamenti per le perdite dell’agricoltura si sono fatti attendere e, mentre nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) la parola “siccità” appare solo tre volte, i pochi fondi stanziati sono stati destinati a interventi di emergenza per garantire l’approvvigionamento di acqua potabile.
“Abbiamo bisogno di uno stanziamento immediato per sviluppare questo tipo di infrastrutture”, afferma Carlo Salvan, presidente di Coldiretti Rovigo. Di fronte alla crisi climatica, la lentezza nel progresso del settore idrico rappresenta un problema sistemico, causato dalla scarsa priorità data al miglioramento delle infrastrutture nel corso degli anni. “A partire da lì, si potranno avviare le fasi di progettazione ed esecuzione delle opere, che richiederanno sicuramente tempi lunghi di sviluppo”, sostiene Salvan.
Tuttavia, il fiume è già stato esposto a un pericolo per troppo tempo e, nel 2023, gli effetti dell’assenza di gestione della crisi climatica non hanno tardato a manifestarsi. “Sicuramente, ciò che stiamo osservando è il risultato dei cambiamenti climatici in corso che sono già in atto da tempo”, osserva Ramona Magno, esperta di siccità e desertificazione presso il Cnr. “Il Mediterraneo, compresa l’Italia, è considerato un’area eccezionalmente sensibile a queste variazioni climatiche. Di conseguenza, gli impatti sono qui più evidenti che in altre regioni del pianeta, rendendola una delle zone più vulnerabili.”
I dati dell’osservatorio Città Clima hanno confermato che nel 2023 l’Italia è stata uno dei paesi europei più gravemente colpiti dagli eventi climatici estremi. A maggio, le alluvioni hanno cancellato temporaneamente le preoccupazioni per una stagione di siccità già preannunciata. “Possiamo dire che quest’anno siamo tornati alla normalità; da maggio in poi non abbiamo avuto problemi”, osserva l’Ingegnere Giancarlo Mantovani del Consorzio di bonifica delta del Po. Tuttavia, come evidenziano gli esperti del Cnr, il deficit di pioggia accumulato nei mesi precedenti ha lasciato alcune zone del nord Italia alle prese con una siccità latente. È facile parlare di normalità se questa significa affrontare solo le emergenze. “Ma nel lungo periodo servono soluzioni che rispondano a una crisi che si profila all’orizzonte in modo imprevedibile” afferma Antonio Gottardo, presidente di Legacoop.
Nuove soluzioni e vecchie difficoltà, la storia della coltivatrice di soia Lucia La Presa
L’instabilità climatica nell’area del delta del Po sta generando una nuova consapevolezza tra le lavoratrici e i lavoratori agricoli: stanno vivendo una condizione di crescente vulnerabilità. Come Elisa, anche Lucia La Presa, coltivatrice di soia, è priva di adeguati sussidi, infrastrutture, attrezzature e metodi agricoli moderni per far fronte alla nuova realtà climatica. “Senza acqua, non ho idea di cosa possa sopravvivere”, ammette. Lucia ha ereditato i campi e la fattoria nel 1983. Ha abbastanza esperienza per sapere che, in agricoltura, ci vogliono anni per ripensare a una soluzione. Tra le possibili soluzioni, considera la chiusura delle barriere saline in valle, la creazione di bacini idrici e l’utilizzo delle tecnologie di evoluzione assistita (Tea) per coltivare piante resistenti al clima attraverso il miglioramento genetico.
Nel 2022, Lucia ha subito una perdita del 38 per cento nei raccolti di mais e soia. Ora, si trova ad affrontare da sola l’aumento dei costi dell’azienda agricola, nonostante la fedeltà della sua fedele clientela. Ha fiducia nei piccoli gesti quotidiani, come il riutilizzo dell’acqua dei condizionatori d’aria. “Prevedere un anno del genere era praticamente impossibile”, dice.
Per Ramona Magno, è essenziale considerare tipi di colture alternative più resilienti ed esplorare varietà capaci di resistere a eventi climatici estremi.
“Molte delle colture tradizionali, tra cui riso e mais, richiedono ora una quantità eccessiva di acqua, soprattutto durante periodi di intense siccità e quando il mare invade il letto del fiume, le rende economicamente insostenibili”
Ramona Magno, esperta di desertificazione e siccità presso il Cnr
La situazione è critica, ma non irreversibile. Può cambiare con un riallineamento delle priorità, ma quelle del governo si riflettono nel rinnovo dei sussidi pubblici alle industrie dei combustibili fossili. 550 milioni di euro avrebbero potuto essere reindirizzati per affrontare la siccità.
Lavoro invisibile, la storia della coltivatrice di cozze Caterina Mancin
Guardando al futuro, alcune soluzioni rimangono obsolete o in attesa di fondi, come spiega l’ingegnere Mantovani: “Avevamo già costruito barriere antisolco progettate e pianificate quaranta anni fa”. Uno di questi è il piano Laghetti, che prevede la creazione di riserve d’acqua da utilizzare in caso di necessità. Mentre finora i bacini costruiti raccolgono solo l’11 per cento dell’acqua, l’obiettivo è aumentare la capacità di trattenimento dell’acqua almeno al 35-40 per cento nei prossimi dieci anni, costruendo 10mila riserve d’acqua entro il 2030. Chi ne trarrebbe il maggior beneficio sono i pescatori alla fine della catena idrica.
Lungo la strada della Sacca degli Scardovari, all’estremità del delta del Po, si trovano le capanne costruite dalle 1.200 persone che lavorano con le sue acque. Caterina Mancin è una di loro, e gestisce tre fusti per la coltivazione di cozze, tra i più vicini al mare.
“Qui abbiamo un’acqua mista, più dolce che salata. Questo rende il nostro prodotto speciale sia nel gusto che nella consistenza”.
Caterina Mancin, coltivatrice di cozze
In prossimità del mare, Caterina subisce da vicino gli effetti della tropicalizzazione, dell’aumento delle temperature e dei cambiamenti nell’ecosistema marino. “Qui siamo invisibili”, afferma. I luoghi di pesca una volta a lei familiari si stanno trasformando per ospitare specie aliene come il granchio blu e un’alga bianca che soffoca i molluschi. “Questi fenomeni rendono impossibile pescare con le reti tradizionali”, spiega Antonio Gottardo, presidente di Legacoop.
La perdita del raccolto ha comportato una significativa riduzione del reddito potenziale di pescatori e pescatrici, stretti tra l’aumento dei prezzi e il peggioramento delle condizioni ambientali. Caterina lavora ora solo ogni cinquanta giorni e controlla meno frequentemente lo stato delle coltivazioni, poiché sa già cosa troverà. “Non c’è una chiara comprensione di come affrontare questa situazione. Dobbiamo rinvigorire un settore che è stato trascurato per trent’anni”.
Tra le nuove strategie, il Pnrr ha finanziato con 357 milioni la “rinaturazione dell’area Po” , attraverso la quale intende riattivare i processi naturali del fiume e promuoverne la biodiversità. Questi sforzi mirano a garantire un utilizzo delle risorse idriche più efficiente e sostenibile, riabilitando determinati segmenti del fiume che erano stati artificialmente modificati in passato. Non senza difficoltà per quanto riguarda la sua attuazione.
Proposto da Wwf e Anepla, il progetto prevedeva la collaborazione con l’autorità di Bacino e Aipo. “Il ministero ha bloccato la nostra partecipazione con l’idea forse di un conflitto di interessi, legato ad Anepla, perché in grado di poter partecipare ai bandi del Pnrr”, racconta Andrea Agapito Ludovici, responsabile Area fiumi di Wwf Italia. Il progetto prevede interventi di rinaturazione complessi, ma mentre i tempi stringono per chiudere il piano entro il 2026, dal sito Aipo, sembra che tutto proceda “secondo la tabella di marcia”, senza ulteriori dati. L’assenza di collaborazione è un fattore di indebolimento e soprattutto mancanza di informazioni certe su come si evolvono le cose, sostiene Agapito Ludovici.
“Non si riesce a sfruttare fino in fondo il fatto che si tratta di un’occasione unica per ripristinare il Po e per imparare a come fare questo tipo di interventi in Italia dal punto di vista procedurale”.
Andrea Agapito Ludovici, responsabile Area fiumi di Wwf Italia
“Non siamo ancora pronti dal punto di vista politico e dell’azione, anche se osserviamo questi cambiamenti da anni. Tendiamo ancora a reagire quando i fenomeni si verificano e i danni sono già stati fatti”, osserva Ramona Magno, suggerendo un approccio diverso nella gestione della crisi climatica, che guardi alla prevenzione dei rischi, sia che si tratti di affrontare le siccità o gestire eventi estremi più intensi. “Dobbiamo muoverci in parallelo, non solo cercando soluzioni quando l’acqua scarseggia, ma anche preparandoci a ridurre i danni durante le forti piogge”, conclude.
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