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Marco Damilano, direttore de L’Espresso. La mia analisi del giornalismo italiano
Intervista a Marco Damilano sullo stato del giornalismo italiano. Ecco le cause che per il direttore de L’Espresso hanno delegittimato la professione.
“Il sistema italiano dell’informazione è profondamente delegittimato. Sta subendo degli attacchi dal basso e dall’alto”. Così esordisce Marco Damilano, direttore de L’Espresso, quando gli chiediamo una sua opinione sullo stato di salute del nostro giornalismo. In Italia, dall’inizio del nuovo millennio, i quotidiani cartacei hanno perso sempre più lettori, malgrado un piccolo incremento nell’ultimo anno. Nel nostro paese si preferisce reperire notizie da social network e motori di ricerca, ma meno dai siti e app degli editori tradizionali. Inoltre, nell’epoca della sfiducia, dell’improvvisazione e della post-verità, a farne le spese sono proprio i giornalisti professionisti, anche quelli che continuano a subire minacce nello svolgimento quotidiano del loro lavoro.
Il Presidente #Mattarella ha ricevuto il Direttore de “l’Espresso” Marco #Damilano pic.twitter.com/o1ph44zoWU
— Quirinale (@Quirinale) 18 aprile 2018
Damilano, nato a Roma nel 1968, dopo gli studi storici si è sempre occupato di politica. Dal 2001 lavora a L’Espresso, di cui è diventato direttore nel 2017. In tv, dove viene di frequente chiamato come commentatore politico, lo abbiamo visto ospite fisso nelle trasmissioni di Diego Bianchi (in arte Zoro), prima Gazebo su Rai3 e attualmente Propaganda Live su La7.
Alcune settimane fa due suoi giornalisti, Federico Marconi e Paolo Marchetti, hanno subito degli attacchi neofascisti, che lo hanno portato a organizzare in breve tempo la manifestazione La parola antifascista al cinema Nuovo Sacher con docenti, attori, storici, studenti, attivisti, esponenti della società civile e, naturalmente, altri giornalisti. Il direttore commenta: “Il rischio lo corre tutto un Paese in cui si dovesse creare il clima della sottovalutazione e della banalizzazione”. Nell’apparente caos mediatico, alimentato dalle fake news e dalla propaganda politica, l’informazione resta – e non potrebbe essere altrimenti – uno dei pilastri della democrazia. Tuttavia, non bisogna illudersi: i fondamenti democratici richiedono una manutenzione attiva e continua.
Ricorda Damilano: “Ogni giorno devi guadagnarti autorevolezza e fiducia. Non basta che la libertà di stampa sia sancita dall’articolo 21 della Costituzione. Ogni giorno si richiede una battaglia”.
Qual è lo stato dell’informazione italiana?
C’è un attacco esplicito, evidente, che arriva da più parti contro l’informazione e il giornalismo professionale. In esso confluiscono vari elementi. Il primo riguarda tutto l’occidente. La Rete ha generato l’illusione che sia facile raccogliere le informazioni da soli. C’è una corrente che pensa di operare una “disintermediazione“(termine che proviene dalla finanza e dall’economia che significa riduzione del ricorso a intermediari, ndr) con chi fa di professione il giornalista. Un altro fattore è più recente e riguarda l’Italia. Chi conquista il potere in nome di questa “disintermediazione“, continua ad attaccare la stampa anche quando è arrivato ai vertici. Lo fa perché è allergico al controllo democratico e alla critica del potere. Si tratta di due attacchi, uno dal basso e l’atro dall’alto, che ci mettono di fronte a una nuova sfida.
Che cosa direbbe a un giovane che desidera capire chi è un buon giornalista oggi?
Colui che trova le notizie, i fatti e sa inserirli in un contesto. Il grande maestro Andrea Barbato nella sua ultima rubrica “La cartolina” su Rai3, nel 1994, diceva che “i fatti senza spiegazioni sono inerti, a volte ingannano”. Il contesto, in questo momento storico è diventato ancor più prezioso. L’informazione social, frammentata, appiattita sull’istante e sul presente, che arriva sullo smartphone, ha bisogno di essere collegata a una storia, a un prima e a un dopo. Il giornalista deve dirti che quel fotogramma, quel tweet, quel post che hai colto nel mare magnum della Rete appartiene a una storia più ampia. Il buon giornalista deve saper ricucire.
Si può dire che all’appiattimento della qualità e alla frammentazione si è arrivati negli ultimi trent’anni attraverso due fasi. Nella prima (dagli anni ’60 agli ’80) ha dominato la pubblicità. Nella seconda, con l’avvento della New Economy, si è imposto il regime dei clickbait e dei like.
La prima fase è terminata perché negli ultimi anni si è registrato un crollo della pubblicità, a causa anche della recessione. Il caso italiano, però, è peculiare, perché il mercato pubblicitario è sempre stato condizionato dal duopolio televisivo di RAI e Mediaset grazie alla legge Mammì del 1990 che ha indebolito la carta stampata, assegnando al duopolio televisivo la maggior parte della torta pubblicitaria. Ora, in tutto il mondo, lo studio delle imprese editoriali è concentrato su come creare una community e accrescere la fedeltà di lettori, abbonati, ascoltatori. Ciò è legittimo. Ma se si pensa solamente a creare utile col gradimento, si tradisce il ruolo dell’informazione che deve dire cose nuove, critiche anche scomode.
Tra fake news, opinionisti tv, infotainment, propaganda. Il cittadino è confuso. Per esempio, in questo momento storico, su argomenti come le migrazioni e il ruolo dell’Unione Europea.
Nel 2016 l’Oxford University ha coniato il termine “post-verità”. Ovvero, la produzione di notizie volutamente false. Non si tratta di errori, ma di news confezionate molto bene per circolare indisturbate e produrre effetti politici. Questo è il tema nuovo che sconfina nella propaganda. La scienza della menzogna elevata a verità è tipica dei regimi autoritari del Novecento. Tutti hanno incrociato i mass media. Nazismo e fascismo hanno usato la radio. Anche nelle democrazie, tuttavia, la propaganda è stata impiegata – come negli Stati Uniti da Franklin Delano Roosevelt e Richard Nixon – per omissione o in modo difensivo. Negli ultimi tempi, invece, è prevalso un uso aggressivo, più simile al modus operandi delle dittature. Donald Trump ha mentito su Obama e ogni mattina fa piombare un tweet offensivo su un giornalista o un avversario politico. Il paradosso è che se un giornalista smaschera le menzogne con dati, ricostruzioni e inchieste, viene accusato di essere al servizio di altri poteri che sarebbero contro chi detiene la sovranità popolare. Non viene più visto come voce critica.
La percezione si è capovolta. Il giornalismo italiano, in particolare, perché è delegittimato?
Per una lunga stagione il nostro giornalismo è stato legato ai partiti. I lettori per molto tempo ci hanno visti come inquilini dei palazzi del potere non solo politico, ma anche economico, culturale, sportivo. Adesso ci sono ancora gli editori impuri, la lottizzazione della Rai, ma il giornalismo ha anche acquisito più indipendenza. La domanda è: come la stiamo usando?
L’accesso alla professione troppo spesso non è trasparente. Perché mancano annunci di lavoro come in altri paesi?
Con le scuole di giornalismo si è cercato di rendere l’ingresso nel giornalismo meno opaco, ma è indubbio che per molti decenni la selezione è stata consegnata a logiche di rapporti personali. Si sconta il peso storico di una professione che in Italia ha molto confinato con salotti culturali, circoli letterari, ecc. C’è ancora da fare. Siamo a metà del percorso verso una maggiore valorizzazione del merito e una maggiore professionalità.
Come valuta le misure annunciate dal governo gialloverde, tra le quali il taglio dei fondi pubblici e l’abolizione dell’Ordine?
Gli aiuti di Stato ai “giornaloni”, come li chiamano loro, non ci sono più. È propaganda. Questo attacco colpisce, invece, testate come Avvenire, Radio Radicale, Il Manifesto, che rappresentano culture diverse, svolgono un servizio e non fanno di certo parte dei poteri forti. Sull’Ordine, la categoria deve farsi un esame. Da molti anni si parla di riforma, ma non si è arrivati a qualcosa di concreto. Per esempio, un’azione legislativa che andrebbe assolutamente fatta è quella sulla difesa dei giornalisti dalle querele e dalle azioni di risarcimento che vanno a toccare soprattutto i collaboratori meno tutelati. Si impedisce loro, con la paura di essere denunciati, di trovare qualcosa di nuovo da raccontare. Si colpisce al cuore la professione.
Come ricorda la filosofa Agnès Heller, in epoche di grandi libertà aumentano le responsabilità. La sfida della nostra era liquida è abbandonare la “comfort zone” dei leader populisti, “forti”, che ti danno l’illusione di pensare a tutto loro, e tornare a impegnarci?
L’equivoco che la democrazia sia una cosa acquisita in eterno si è sciolto nel 1989, con la caduta del muro di Berlino. La democrazia è una conquista quotidiana, una tensione. E la stessa cosa vale per l’informazione, uno dei pilastri della democrazia. Ogni giorno devi guadagnarti autorevolezza e fiducia. Non basta che la libertà di stampa sia sancita dall’articolo 21 della Costituzione. Ogni giorno si richiede una battaglia.
#Neofascisti minacciano L’Espresso e la Repubblica. Esposto un nuovo striscione firmato Forza Nuova https://t.co/nB7oyerp1u pic.twitter.com/YIMtO1ydFW — Si24.it (@Si24it) 9 dicembre 2017
Due giornalisti de L’Espresso, il 7 gennaio scorso, hanno subito attacchi da dei neofascisti. Altri giornalisti italiani hanno ricevuto, come riporta Ossigeno per l’informazione, minacce e aggressioni, e una ventina sono sotto scorta. Quali pericoli intravede per l’intero sistema?
Il rischio lo corre tutto un Paese in cui si dovesse creare il clima della sottovalutazione e della banalizzazione. Un gruppo di fascisti che aggredisce dei giornalisti è paragonato a chi alza le mani dopo un tamponamento. Questo approccio usato dal ministro degli Interni Matteo Salvini è il tassello di un clima più generale. Ciò che prima sarebbe stato oggetto di condanna, ora non lo è neppure formalmente. Questo mi preoccupa.
Qualche colpa l’hanno anche i giornalisti che hanno ospitato e tuttora invitano nei talk-show sempre gli stessi politici. Si tratta di sovraesposizione che oltrepassa il dovere di cronaca?
Io non sono per togliere la parola, ma per darla di più a chi non ha voce e ad altri più bravi ed efficaci.
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