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David Attenborough: l’uomo non deve usare (solo) l’intelligenza ma la saggezza per salvarsi
Il nuovo documentario David Attenborough: Una vita sul nostro Pianeta raccoglie le testimonianze del celebre naturalista e svela come combattere per il nostro futuro.
Un uomo non più giovanissimo, per non dire anziano, si muove un po’ curvo, camminando tra vetri rotti e calcinacci in case abbandonate, dove mura e finestre non esistono più. Il luogo è Chernobyl, protagonista della catastrofe ambientale del 1986, il suo silenzioso esploratore è uno dei più celebri e esperti naturalisti al mondo, sir David Attenborough.
Una vita sul nostro Pianeta
Si apre così il nuovo documentario arrivato su Netflix, prodotto da Silverback Films e Wwf, David Attenborough: Una vita sul nostro pianeta. Inizia da un monito che è da diverse decine di anni sotto i nostri occhi: una cittadina di 50mila persone, in grado di offrire una vita più che dignitosa ai suoi abitanti, è diventata un luogo inabitabile a causa di cattiva pianificazione ed errore umano. Impossibile non pensare all’andamento generale del pianeta, che a causa delle nostre scelte sta rendendo sempre più fragile l’equilibrio che la sua biodiversità ci ha regalato.
Ma quel signore di 93 anni che ci parla da uno schermo, come ha fatto già moltissime altre volte, non vuole scoraggiarci, ma insegnarci qualcosa, l’attività che gli è sempre riuscita meglio. Definisce questo documentario la sua testimonianza e la sua visione di un futuro che possiamo ancora salvare, per questo motivo, per la prima volta, è la sua vita su questo pianeta che vuole raccontarci.
L’infanzia e l’Olocene
David Attenborough è stato fin da bambino un amante dell’esplorazione, dell’avventura, della natura selvaggia. Era il 1937, quando trascorreva le sue giornate in una vecchia miniera di ferro in disuso, alla ricerca di fossili. È grazie a quelle ore a frugare tra le rocce che ha cominciato ad osservare la storia della Terra, a comprenderne i suoi lenti cambiamenti, ma anche quelli più repentini come le estinzioni di massa. Fu con l’ultima, quella che provocò la scomparsa dei dinosauri, che il 75 per cento delle specie viventi sul pianeta svanì assieme a loro. Alla vita non rimaneva altro che ricostruirsi e così fu, in un processo lungo 65 milioni di anni.
Così è nato il mondo che conosciamo, la nostra epoca, l’Olocene. È stato il periodo di maggiore stabilità, dei ritmi lenti delle stagioni, ma anche dell’invenzione dell’agricoltura, che ci permetteva di sfruttare quest’ultime per assicurarci un sostentamento. Il passo successivo non poteva che essere la nascita delle prime culture. Il problema è che se i fossili ci suggerivano uno sviluppo lento, con la partecipazione delle nostre idee, il cambiamento fu rivoluzionato, divenne improvvisamente molto più veloce.
L’inizio di una lunga carriera per la natura selvaggia
Intanto nel 1954, la carriera di un ventenne Attenborough iniziava, nello stesso momento in cui si potevano compiere i primi viaggi aerei globali. Finalmente poteva immergersi completamente nella natura selvaggia e mostrare alle persone a casa luoghi e animali che non avevano mai visto. Era un momento storico in cui i limiti del progresso sembravano lontanissimi, la vita diventava più semplice grazie alle nuove tecnologie e il futuro sembrava promettere bene. L’unica cosa che mancava era la consapevolezza che in realtà non tutto era come sembrava e che i primi problemi stavano già sorgendo.
A dimostrarci che in realtà vivevamo su un pianeta vulnerabile e isolato, la cui natura andava protetta, è stata anche la celebre foto realizzata dallo spazio dalla missione Apollo che riuscì poi ad arrivare sulla Luna nel 1968. Il rispetto per quei limiti continuavano a tramandarlo solo alcune popolazioni che vivevano nelle aree più remote. Attenborough poté toccarlo con mano in un viaggio del 1971 in Nuova Guinea: qui ebbe l’occasione di poter conoscere tribù indigente di raccoglitori-cacciatori, che prendevano dalla Terra solo ciò di cui avevano strettamente bisogno, in attesa che questa si rigenerasse.
“La vita sulla Terra” e una nuova consapevolezza
La seconda metà degli anni Settanta furono per Attenborough gli anni di “La vita sulla Terra”, una serie televisiva che raccontava l’evoluzione della vita e la sua diversità: girata in 39 paesi, filmarono 650 specie e percorsero 2,4 milioni di chilometri. Già da quella esperienza, poterono rendersi conto che alcuni animali stavano diventando più difficili da trovare, come i gorilla di montagna. Quel processo di estinzione che aveva conosciuto tramite i fossili, si stava ripresentando davanti i suoi occhi e la responsabilità questa volta era nostra. Ma ora che tutto ciò diventava visibile, gli animali più a rischio cominciarono ad avere personalità per alcune persone e ucciderli fu etichettato come un crimine. La nuova priorità era quella di usare la propria voce per rendere consapevoli più gente possibile.
Salvare alcune specie non era sufficiente, oramai interi habitat stavano sparendo a causa di quella vita che ci eravamo costruiti e che sembrava potesse solo migliorare. Ma la verità è che ci stavamo fermando da soli, consumando le risorse della Terra. Anche in questo caso, i suoi viaggi furono fondamentali per toccare con mano che il processo di distruzione era già iniziato: fu il Borneo uno di quegli esempi, dove foreste pluviali ricche di biodiversità venivano rase al suolo per fare posto a colture di palma da olio. Sono due i benefici che si traggono tutt’oggi dall’abbattimento degli alberi: il legname e la possibilità di usufruire del terreno per monocolture. A causa di queste motivazioni, abbiamo tagliato tremila miliardi di alberi. Il prossimo passo non rimane altro che il collasso dell’intero ecosistema.
“Il Pianeta blu” e il mondo dell’acqua
Furono invece gli oceani e i mari del mondo a fargli compagnia alla fine degli anni Novanta con la serie “Il pianeta blu”. Sott’acqua sembrava esserci un mondo indisturbato dalla presenza umana ma, anche in questo caso, si trattava solo di un’illusione. Con la stessa bravura con cui i pesci trovano i punti più caldi dove i nutrienti salgono in superficie, così i pescatori, che dagli anni Cinquanta hanno cominciato ad avventurarsi nelle acque internazionali, sanno di poterne pescare a volontà in quegli stessi luoghi.
Con questa tecnica, hanno rimosso il 90 per cento dei grandi pesci di mare e hanno fatto sì che nel giro di pochi anni il raccolto fosse sempre minore, tanto da spingere i governi dei vari paesi a sovvenzionare la pesca. Il vero problema è che questo processo sta facendo vacillare il ciclo dei nutrienti oceanici, i punti caldi diminuiscono e gli oceani cominciano a morire. È sempre stato un fenomeno che non riguarda solo la superficie, ma anche i suoi fondali: nel 1998 una troupe della serie televisiva si imbatté per la prima volta nello sbiancamento delle barriere coralline. All’inizio sembra quasi qualcosa di affascinante, ma poi si prende consapevolezza che davanti ai propri occhi non ci sono altro che scheletri di creature morte. Ancora una volta c’era lo zampino dell’uomo che, con l’emissione sempre maggiore di anidride carbonica e altri gas, aveva provocato il riscaldamento dei suoi oceani. Sono stati questi ultimi i primi a incassare il colpo del nostro sviluppo senza freni.
E così come cambiano gli oceani, anche luoghi più estremi come l’Artico e l’Antartide stanno mutando: durante la sua vita, Attenborough è stato testimone del riscaldamento delle estati artiche, distese di ghiaccio scomparse, ha raggiunto isole che una volta erano impossibili da visitare. Gli oceani non sono oramai più in grado di assorbire l’anidride carbonica e così la temperatura è aumentata di un grado dalla nascita del naturalista. Il nostro pianeta insomma non ha perso solo gran parte dei suoi grandi pesci e predatori, ma anche il suo ghiaccio.
La Terra oggi
E oggi? Ad oggi, abbiamo sovrasfruttato il 30 per cento degli stock ittici; abbiamo abbattuto oltre 15 miliardi di alberi all’anno; abbiamo sbarrato, inquinato e esaurito giacimenti di fiumi e laghi, riducendo le popolazioni di acqua dolce di oltre l’80 per cento; metà delle terre fertili del pianeta è diventata terreno agricolo; il 70 per cento della massa totale di uccelli è addomesticato; rappresentiamo più di un terzo del peso dei mammiferi sulla terra, l’altro 60 per cento sono gli animali che alleviamo per mangiare, il resto degli animali rappresenta solo il 4 per cento.
Abbiamo sostituito il selvatico con l’addomesticato, abbiamo cominciato a vivere in un pianeta gestito dall’umanità per l’umanità e lo stiamo lentamente distruggendo. Attenborough riguarda le immagini della sua carriera e gli sembra di aver vissuto un’illusione, mentre tutto già cominciava a deteriorarsi. È un uomo anziano affranto, grato delle esperienze vissute ma triste per il risultato che ha ora sotto gli occhi. Ma non finisce qui, ha ancora speranza per il futuro.
Una battaglia per il nostro futuro
Se nascessimo oggi, diventeremmo anche noi testimoni come lui, ma di ben altro: nel 2030, la foresta Amazzonica non sarà più in grado di produrre abbastanza umidità e dunque si trasformerà in una savana secca, portando a una catastrofica perdita di specie e all’alterazione del ciclo globale di acqua; l’Artico non conoscerà più ghiaccio durante l’estate e minore energia solare verrà riflessa nello spazio, accelerando il riscaldamento globale; nel 2040, i terreni ghiacciati si scioglieranno, rilasciando gas metano; nel 2050, con l’aumento di temperature e acidità, le barriere coralline moriranno completamente, crolleranno le popolazioni di pesci; nel 2080, la produzione alimentare globale entrerà in crisi a causa del deperimento di un suolo sovrasfruttato, gli insetti impollinatori scompariranno, il clima diventerà sempre più imprevedibile; nel 2100, il nostro pianeta si sarà scaldato di ben quattro gradi, grandi aree della Terra saranno inabitabili, milioni di persone rimarranno senza una casa, saremo nel pieno di un’estinzione di massa.
Attenborough vorrebbe che non ci fosse nessuna battaglia, ma c’è e lui si sente pienamente coinvolto. Come si fa d’altronde a rimanere con le mani in mano mentre il mondo vivente collassa? Nessuno desidera che ciò che sta accadendo continui ad accadere. Cosa facciamo allora? Guardiamo alla soluzione che abbiamo sempre avuto davanti a noi. Dobbiamo ripristinare la biodiversità del nostro pianeta, dobbiamo rinaturalizzare il mondo. È più semplice di quanto pensiamo e le conseguenze gioveranno anche noi e chi verrà dopo. Se secondo i più recenti studi, la popolazione mondiale raggiungerà gli 11 miliardi nel 2100, dovremo cercare di rallentare, se non addirittura fermare, questa crescita demografica prima che ciò accada. Il trucco è anche cercare di alzare gli standard di vita in tutto il mondo, senza aumentare il nostro impatto sul pianeta.
Basterebbe eliminare i combustibili fossili dalle nostre vite e utilizzare le eterne forze della natura, come l’acqua, il sole, il vento. In questo modo l’energia diventerebbe anche più a buon mercato, le città sarebbero più pulite e silenziose. Ma anche gli oceani avranno un ruolo importante come uno dei nostri maggiori alleati nella battaglia per ridurre l’anidride carbonica. Per questo motivo, per facilitarne il lavoro, è la loro biodiversità che dobbiamo ricostruire. Più sarà sano l’habitat marino, più ci sarà cibo per tutti. Per far sì di non tornare al punto di partenza, secondo le ultime stime, l’ideale sarebbe creare un divieto di pesca esteso a un terzo delle nostre coste, permettendoci comunque di avere abbastanza pesce per il nostro sostentamento.
L’Onu in primis si sta impegnando per creare la più grande zona di divieto di pesca in acque internazionali, trasformando gli oceani nella più grande riserva naturale del mondo. Sulla terra ferma invece è fondamentale ridurre le aree coltivate e tornare a fare spazio alla natura selvaggia. In questo caso è la nostra alimentazione che entra in gioco: il pianeta non può sostenere miliardi di grandi carnivori, non c’è abbastanza spazio, ma una dieta basate sulle piante ci permetterebbe di avere bisogno di solo metà della terra che usiamo in questo momento. Potremo finalmente utilizzare soluzioni tecnologiche per produrre più cibo ma in meno spazio. Infine, è anche alle foreste che dobbiamo appoggiarci: sono il sistema migliore che la natura ci abbia fornito per assorbire anidride carbonica e sono soprattutto centri di biodiversità. La deforestazione dunque deve diventare il nostro più acerrimo nemico e dobbiamo permettere a questi luoghi di continuare a fornirci un prezioso supporto. Che siano terreni disboscati già da tempo ad essere utilizzati per le monocolture.
Un cerchio che si chiude
La natura ha sempre saputo il segreto della vita che ci ostiniamo tanto a cercare: ogni specie è in grado di prosperare, solo se a farlo è anche tutto il resto che la circonda. È questa realtà che ci consiglia di abbracciare per risolvere i nostri problemi. Smettendo di crescere a tutti i costi e prendendoci cura di lei, lei si prenderà cura di noi, così come Attenborough si è sempre preso cura della nostra consapevolezza sul mondo naturale che ci circonda. Ci sta indicando un cerchio che stiamo chiudendo: siamo partiti come raccoglitori-cacciatori perché era il modo di vivere più sostenibile e ancora oggi rimane l’opzione migliore per tornare ad essere parte della natura. Non stiamo solo salvando il pianeta, stiamo salvando anche noi stessi.
Alla fine dell’ora e venti minuti del documentario, quello stesso signore anziano, di cui ora conosciamo qualcosa in più e che ci mostra una via per un futuro diverso, non cammina solo in un luogo dimenticato dove una catastrofe ambientale è avvenuta, ma nell’esempio vivente della capacità della natura di rigenerarsi, di reclamare il suo spazio. Non importa quanto siano gravi i nostri errori, la natura trova sempre un modo per superarli. A noi non rimane altro che usare qualcosa di più della nostra intelligenza, la saggezza, e in questo Attenborough non ha mai mancato di regalarcene.
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