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David Newman: “Kiss”!
David Newman ha diretto Greenpeace durante la fase della massima espressione di Greenpeace in Italia. Ed è stato il più stretto collaboratore del fondatore di Greenpeace International, David Mc Taggart, “l’eroe di Mururoa”.
David Newman ci parla di Greenpeace, del suo fondatore David McTaggart e la filosofia K.I.S.S.
Oggi è ancora vivo lo spirito originario e guerriero di Greenpeace?
Sì, certo che è vivo, soprattutto nei giovani che partecipano alle azioni, alle campagne, alla raccolta fondi. Purtroppo, però, qualcosa è cambiato. Negli anni Settanta-Ottanta era tutto più facile perché c’erano tanti di quegli abusi sulla natura che la gente era al cento per cento con le associazioni. Ricordo qualche esempio: le piogge acide; i test nucleari nell’atmosfera fino al 1974 e sotto terra fino al 1996 (soltanto India e Pakistan hanno poi continuato); lo scarico a mare di qualsiasi tipo di rifiuto, sostanza chimica, anche delle stesse piattaforme petrolifere e l’uso dei fiumi come fogne; la deforestazione totalmente fuori controllo; il massacro delle foche e delle balene, per non parlare dello sterminio di qualsiasi animale selvaggio, leoni, tigri, elefanti, lupi, orsi. Erano problemi evidenti. Era più facile arrabbiarsi ed essere guerrieri contro lo Stato e contro le aziende responsabili di questi abusi. Oggi, nelle società avanzate, i problemi sono molto più complessi e difficili da trasmettere ai cittadini. Negli anni recenti, soltanto la campagna contro gli OGM ha avuto un simile impatto.
Come viveva McTaggart l’impegno ambientalista?
David non era un intellettuale: aveva lasciato la scuola a 16-17 anni e non aveva mai più studiato. Era invece un uomo di straordinaria forza e carisma che viveva lasciandosi trascinare dal proprio istinto. Lui credeva che la lotta ambientalista dovesse essere condotta come un business, nel senso che doveva agire come se fosse un concorrente in affari contro altri (governi, aziende, individui). L’obiettivo, diceva David, era vincere, le regole sono irrilevanti. Per vincere bisogna essere forti economicamente, informati bene sulla controparte, avere a disposizione ottima ricerca scientifica e colpire duramente con azioni pesanti e con un’attività politica incisiva.
Lui ha organizzato Greenpeace con una struttura molto snella, democratica, veloce e decisionista. Nei primi anni controllava tutto e tutti e in associazione decideva solo lui. Non essendo un esperto su tutte le questioni, si circondava di persone capaci e di conoscitori di ogni argomento. Con l’espansione dell’organizzazione dopo il 1985 (l’affondamento della Rainbow Warrior in Nuova Zelanda), aumentava la pressione delle associazioni nazionali per essere più autonome dalla sede centrale che David gestiva. Questo conflitto non è mai stato risolto, ed è uno dei motivi per cui ha deciso, nel 1991, di lasciare.
Nelle battaglie ambientaliste deve prevalere il radicalismo o la moderazione? E come riuscire a sensibilizzare la grande opinione pubblica su questioni ambientali complesse?
Credo di essere stato già esaustivo: le battaglie radicali sono comprensibili a un grande pubblico quando il problema è evidente, clamoroso. David diceva sempre: “Se io non riesco a capire la campagna in due minuti, sarà impossibile al pubblico capirla in due anni”. L’adozione dello slogan “Frankenstein foods” per gli OGM ha reso la campagna immediatamente comprensibile. L’opposizione a tutti gli OGM – posizione estremamente radicale – è stata adottata da molte nazioni, sviluppate e non, e il pubblico l’ha capito subito. C’è un detto in Greenpeace: K.I.S.S., che vuol dire Keep It Simple Stupid (“rendi la questione semplice”). Durante i miei anni era già difficile decidere come rendere semplici alcune questione complesse.
Per esempio, la questione di Porto Marghera: una grande industria, morti sospette tra i lavoratori (che difendevano l’azienda e i posti di lavoro), inquinamento della laguna. Come abbiamo fatto a portare questa situazione all’attenzione del pubblico? Con un piatto di vongole! La scienza diceva che la laguna era inquinata dalle diossine, ma alla gente di Venezia non fregava un bel niente se la laguna era inquinata: è inquinata da quarant’anni, e nessuno ha mai mosso un dito per protestare! Quando in Tv abbiamo mostrato un piatto di vongole dicendo: “Non mangiatele perché contengono diossine”… allora apriti cielo!, è scoppiato un gran casino. Ha funzionato la filosofia Kiss. Poi il resto della storia la conoscete bene: nel 1995 il direttore Italiano dell’Unesco ha pubblicamente ringraziato Greenpeace per avere finalmente scoperchiato anni di silenzio sulla laguna”.
Il movimento ecologista, a livello internazionale, ha concrete prospettive di crescita, di ulteriore sviluppo?
Sono convinto che l’originario movimento ambientalista europeo è destinato a un mutamento in attività di monitoraggio, di rappresentanza dei cittadini, di cooperazione con le autorità e le aziende, perché le istanze del movimento sono entrate nella dialettica politica e sociale togliendo lo spazio di denuncia. Ma un’altra questione è il resto del mondo: non dimentichiamo che il nostro benessere è causa di povertà e di disastro ambientale altrove – ed è in questo “altrove” che il movimento deve agire.
Nel 1986 McTaggart ha trasferito la sede della presidenza di Greenpeace da Amsterdam a Roma perché credeva che a quel punto fosse necessario agire nel sud Europa. Aveva perfettamente ragione. Gli uffici di Greenpeace in Italia, Spagna, Grecia hanno avuto un ruolo centrale nella creazione della Convenzione di Barcellona, strumento legislativo unico al mondo perché agisce sul bacino del Mediterraneo a 360 gradi, e i risultati si cominciano a vedere.
Cinque anni dopo, McTaggart decise di trasferirsi in Argentina, la nuova frontiera era nel Sud America, e anche qui aveva ragione. Lui ha aperto nuovi uffici in Brasile, Argentina, Cile; il successo delle associazioni in quei Paesi non è stato clamoroso perché il contesto sociale e politico è completamente diverso da quello europeo. La protesta viene ancora fermata con il fucile in Paesi dove la democrazia non è compiuta o dove le autorità non hanno esteso il controllo dello Stato (ad esempio in Amazzonia).
Faccio un altro esempio concreto di agire ecologista. Il Governo del Gabon, paese che ospita ancora le ultime grandi popolazioni di elefanti e gorilla sulla costa occidentale dell’Africa, ha decretato il 10% del territorio protetto istituendo nuovi Parchi Nazionali. Per il resto del territorio, sembra disponibile ad abbracciare lo sviluppo sostenibile mettendo subito a bando il taglio indiscriminato delle foreste.
Ha lanciato un appello: ha bisogno di 80 milioni di dollari per gli investimenti in infrastrutture dei parchi, ranger, guardie, telefoni, strutture per eco turismo ecc. 80 milioni di dollari rappresentano all’incirca il reddito di Greenpeace nel mondo in 8 mesi. Oppure la meta del reddito di WWF Italia in un anno”.
Vuoi aggiungere un messaggio alle lettrici ed ai lettori di LifeGate?
Certo. Essere ecologisti significa anche compiere delle scelte personali non sempre facili o agevoli. Se per esempio riteniamo valido ciò che Rifkin scrive nel suo libro Ecocidio, dovremmo ridurre o abbandonare la carne in favore di una dieta vegetariana; se non vogliamo contribuire ad asfissiare il pianeta, dovremo ridurre o abbandonare l’uso dell’auto, non utilizzare prodotti chimici e ad alto impatto, scegliere solo prodotti biologici e naturali”.
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