Ci sono imprese che si sono attivate per abbattere le proprie emissioni, ma preferiscono non comunicarlo. Un fenomeno che prende il nome di greenhushing.
Conoscere gli oceani per salvarli. Questo è il decennio Onu delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile
Le Nazioni Unite mettono in campo una grande alleanza internazionale per le scienze oceaniche. Una missione che coinvolge da vicino tutti noi.
Se c’è un elemento che ha sempre affascinato l’umanità per il carico di mistero che porta con sé, questo è l’oceano. Mentre i bambini volano con la fantasia leggendo le storie di intrepidi navigatori che lottano contro pirati senza scrupoli e mostruose creature degli abissi, gli adulti sono alle prese con un’altra, grande missione. Diversa, ma non meno avventurosa. La missione di capire gli oceani, per prendersene cura e salvare il loro destino, che è anche il destino del Pianeta.
Gli oceani inesplorati
Considerato che sono passati più di cinquant’anni da quando l’uomo ha messo piede sulla Luna e, nel frattempo, siamo anche riusciti a fotografare un buco nero, sembra incredibile che non conosciamo ancora l’elemento che occupa oltre il 70 per cento della superficie del Pianeta in cui viviamo. Più dell’80 per cento degli oceani non è ancora stato mappato, osservato, né esplorato, stando alla Nasa. “Come possiamo proteggerli senza avere la minima idea di cosa contengano?”, commenta Ricardo Aguilar, a capo delle spedizioni in Europa dell’organizzazione internazionale Oceana. Anche questo vuoto di conoscenza può spiegare il fatto che solo il 7 per cento della loro estensione sia inquadrato come area marina protetta.
Una mappa di tutti i fondali entro il 2030
Il progetto Seabed 2030 si è posto una missione tanto chiara quanto coraggiosa: mappare ad alta risoluzione il 100 per cento dei fondali entro il 2030. Come fare? Le rilevazioni satellitari sono imprecise; gli ecoscandagli fissati sulle navi danno risultati migliori, ma richiederebbero secoli di navigazione. Seabed 2030 ha quindi suddiviso gli oceani in quattro grandi aree, assegnando ad autorevoli istituti di ricerca la responsabilità di ciascuna di esse. Ogni sede dovrà recuperare i dati batimetrici già esistenti (cioè le informazioni sui fondali rilevate tramite un ecoscandaglio, che non sempre sono di pubblico dominio) e condurre nuove campagne di mappatura. Al British oceanographic data centre spetterà poi il compito di assemblarli in una mappa unica, gratuita e aperta alla consultazione di tutti.
Quando è stato lanciato il progetto, a luglio del 2017, solo il 6 per cento dei fondali era stato mappato con un livello di precisione ritenuto accettabile. A tre anni di distanza era già stato raggiunto il 19 per cento.
Il decennio Onu delle scienze oceaniche
Conoscere questi ecosistemi significa mettersi nelle condizioni di proteggerli. “Gli interventi possono essere efficaci solo se sono basati su solide conoscenze fornite dalla scienza. C’è una crescente necessità di trovare soluzioni scientifiche che ci permettano di comprendere i cambiamenti in corso nei nostri oceani e di rovesciare il declino della loro salute”. Sono le parole del documento con cui le Nazioni Unite eleggono il periodo 2021-2030 come decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile.
Fino a oggi le scienze oceaniche hanno fatto grandi passi avanti, ma si sono dovute accontentare di risorse risicate. Per la precisione, sostiene l’Onu, si aggirano tra lo 0,04 e il 4 per cento degli investimenti globali in ricerca e sviluppo. Il decennio vuole quindi essere un’opportunità “irripetibile” per rafforzare la cooperazione internazionale e dare vita a nuove partnership tra istituti di ricerca, decisori politici, aziende, associazioni e cittadini. Dando così un forte slancio alla ricerca scientifica e all’innovazione tecnologica, e convogliandole verso il 14° Obiettivo di sviluppo sostenibile che prevede di “preservare e usare in modo sostenibile gli oceani, i mari e le risorse marine per lo sviluppo sostenibile”.
Con il decennio delle scienze oceaniche per lo sviluppo sostenibile, l’Onu stabilisce sette priorità da realizzare entro il 2030.
- Un atlante digitale completo degli oceani.
- Un sistema completo di osservazione degli oceani da tutti i bacini principali.
- Una conoscenza qualitativa e quantitativa degli ecosistemi oceanici e delle loro dinamiche, come base per la loro gestione e per il loro adattamento.
- Un portale con dati e informazioni sugli oceani.
- Un sistema di allerta integrato per molteplici situazioni di rischio.
- Inclusione degli oceani nelle attività di osservazione, ricerca e previsione legate al sistema terrestre, con il supporto di scienze sociali e umanistiche e valutazioni di carattere economico.
- Sviluppo di competenze e trasferimento accelerato delle tecnologie, training ed educazione, cultura degli oceani.
Dalla salute degli oceani dipende il nostro futuro
La posta in gioco è alta e il tempo che abbiamo a disposizione scarseggia. Stiamo parlando dell’ecosistema più vasto al mondo, dove vivono almeno 200mila specie note (ma il totale probabilmente è nell’ordine dei milioni). Un ecosistema che per il 40 per cento versa in cattive condizioni. A ricordarlo è il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Le calotte polari si fondono a causa del riscaldamento globale e fanno innalzare il livello dei mari, con il rischio di sommergere i territori dove vivono 300 milioni di persone. La CO2 nell’atmosfera, in concentrazioni ormai spropositate, viene assorbita dalle acque e rende più acido il Ph della loro superficie, provocando danni irreparabili alle forme di vita.
8 milioni di tonnellate di plastica finiscono in mare ogni anno. Il 35 per cento degli stock ittici viene pescato a livelli che la Fao definisce come biologicamente insostenibili. Le minacce in corso sono tante, diverse tra loro, ma accomunate da una forte responsabilità dell’uomo.
Con l’Agenda 2030 l’Onu ribadisce con forza che la sostenibilità è un concetto a tre dimensioni: ambientale, sociale ed economica. Tutte e tre dipendono in modo dirimente dalla salute degli oceani. Essi infatti assorbono il 30 per cento della CO2 di origine antropica, mitigando il riscaldamento globale; contribuiscono al sostentamento di 3 miliardi di persone; hanno un valore economico che, considerando le risorse marine e costiere e le industrie a esse collegate, si aggira sui 3mila miliardi di dollari all’anno. Cioè il 3 per cento del pil globale.
Una prova di resilienza per le piccole isole
Tra le priorità designate dall’Onu per questo decennio c’è quella di rafforzare le conoscenze scientifiche nei 47 paesi a minor livello di sviluppo (Ldcs) e nei piccoli stati insulari in via di sviluppo (Sids). Territori dove le conseguenze dei cambiamenti climatici si manifestano in tutta la loro drammaticità, ma dove mancano le risorse economiche necessarie per studiarli e affrontarli in modo davvero efficace.
Tra di loro c’è Tuvalu, composto da nove atolli in mezzo all’oceano Pacifico, con una superficie di appena 26 chilometri quadrati che ne fa il quarto stato più piccolo del mondo. Da qui, proprio grazie alla scienza, arriva una sorprendente buona notizia. Un team di ricercatori degli atenei di Plymouth (Regno Unito), Auckland (Nuova Zelanda) e dell’università Simon Fraser di Burnaby (Canada) ha ricostruito al computer uno degli atolli per simulare la sua reazione all’innalzamento del livello dei mari. Il risultato, descritto in un articolo pubblicato da Science advances, ha superato le più rosee aspettative. “L’accumulo di sedimenti trasportati dalle acque porterebbe a un sollevamento delle stesse isole, evitando che vengano sommerse, attraverso un adattamento naturale”, ha spiegato uno degli autori, Gerd Masselink. Un esempio da manuale di resilienza, capace di accendere nuove speranze.
Ocean words, storie sommerse sotto la superficie
Seabed 2030 e le scoperte su Tuvalu sono due delle tante storie narrate da Ocean words, nuovo progetto che “nasce per far parlare gli oceani di tutto il mondo e cerca un pubblico di persone attente, sensibili e capaci di mettersi in ascolto” (scopri la pagina Instagram di Ocean words qui).
Se è vero infatti che la salute degli oceani è centrale per l’equilibrio del Pianeta, della società e dell’economia così come le conosciamo, ciò significa che non possiamo permetterci di disinteressarcene, delegandola a un ristretto nucleo di addetti ai lavori. Una maggiore sensibilità a tutti i livelli, compreso quello dei cittadini, è un segnale forte rivolto a chi ha il potere di orientare gli investimenti in ricerca e sviluppo. Largo, dunque, alle voci di scienziati, attivisti, aziende illuminate ed esploratori. Con la speranza che, magari, possano ispirare gli oceanografi di domani.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Tommaso Perrone, direttore di LifeGate, spiega le parole, i fatti e le soluzioni legate alla crisi climatica in cinque video.
Grazie al progetto didattico del Gruppo Prada e Ioc-Unesco, tra creatività e osservazioni naturalistiche.
Il concetto di nature positive prevede di incrementare la biodiversità attraverso la protezione degli ecosistemi e il ripristino di quelli degradati.
Come funziona il meccanismo di loss and damage istituito alla Cop27, il fondo per risarcire i paesi poveri per perdite e danni dovuti alla crisi climatica.
Non solo ricerca, recupero e monitoraggio: alle Egadi, l’Area marina protetta investe sull’attività divulgativa. Perché la difesa dell’ambiente è anche una questione culturale.
Nell’antico palazzo Florio, nel cuore del paese di Favignana, si trova un ospedale per le tartarughe marine gestito dall’Area marina protetta delle isole Egadi, sorto nel 2015 grazie alla collaborazione con Wwf Italia onlus, a Legambiente onlus e al supporto di Rio Mare che da anni porta avanti il suo impegno in quest’area. Si tratta
Le aree marine protette sono un patrimonio naturale e un laboratorio di innovazione per lo sviluppo sostenibile. Con Ocean Words andiamo alle Egadi per conoscere la più grande d’Europa.
Nell’Area marina protetta più estesa del Mediterraneo si combatte per educare alla tutela dell’ecosistema con il cestino mangia plastica di LifeGate, grazie al supporto di Ocean Words.