Il nostro pianeta attraversa una crisi profonda, ma due corposi rapporti dell’Ipbes indicano alcune vie di uscita.
Il disastro della Deepwater Horizon. Cosa è successo, le cause e i responsabili
Era il 20 aprile 2010 quando un incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico, dava inizio al più grave disastro ambientale della storia americana. Le sue conseguenze si toccano con mano ancora oggi.
Sono passati esattamente nove anni dal 20 aprile 2010, il giorno zero del disastro ambientale della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico, il più grave che la storia americana ricordi. Dell’incidente si è detto e scritto all’infinito: ora cerchiamo di fare ordine, ricostruendo le cause, le ripercussioni giudiziarie e il prezzo carissimo che l’ecosistema sta ancora pagando.
- L’incidente alla Deepwater Horizon: le cause e cosa è successo
- La lotta contro il tempo per fermare la marea nera
- Quanto petrolio è finito nelle acque del Golfo del Messico
- L’impatto del disastro sull’ecosistema e sugli animali
- Quanto è costata la marea nera dal punto di vista economico
- Le vicende giudiziarie e le sanzioni per i responsabili del disastro
- Trivelle e petrolio nell’Oceano Atlantico, oggi
L’incidente alla Deepwater Horizon: le cause e cosa è successo
La piattaforma petrolifera Deepwater Horizon è di proprietà della società Transocean, sotto contratto con la britannica Bp. È posizionata a circa 80 chilometri di distanza dalla costa della Louisiana e al momento dell’incidente estrae una media di 8mila barili di petrolio al giorno. Il 20 aprile 2010, mentre è in corso la perforazione del pozzo Macondo a 1.500 metri di profondità, si verifica un’esplosione che provoca un incendio; a quel punto il petrolio inizia a fuoriuscire senza sosta, al ritmo di mille barili al giorno, senza che il sistema di blocco automatico riesca a entrare in funzione. Dopo due giorni, la piattaforma affonda. Delle 126 persone a bordo durante l’incidente, 11 perdono la vita e altre 17 rimangono ferite.
La lotta contro il tempo per fermare la marea nera
A partire dal 20 aprile, il mondo osserva con il fiato sospeso le immagini della marea nera che si espande sempre di più, mentre Bp e la Casa Bianca mettevono all’opera squadre di tecnici, scienziati e militari per cercare di riparare il danno.
Il primissimo tentativo di Bp, con l’uso di robot subacquei controllati a distanza, fallisce. La Guardia Costiera nel frattempo innesca incendi controllati di alcune chiazze in superficie; in tutto sono circa 120 ed eliminano oltre 67mila barili di greggio.
A maggio Bp dà il via all’operazione “top kill”, provando a sigillare l’imboccatura del pozzo con una cupola di cemento armato di 100 tonnellate, ma a fine mese ammette il fallimento. Con l’operazione “cut and cap” prova quindi a tagliare la valvola di sicurezza che non ha funzionato per coprirla con un’altra valvola di contenimento (lower marine riser package), che però riesce a intercettare circa la metà del flusso.
Pungolata dalle durissime parole dell’allora presidente americano Barack Obama, che si dice “furioso”, Bp coinvolge esperti e ricercatori da tutto il mondo per cercare una soluzione definitiva, mentre i primi uragani di giugno rallentano le operazioni di soccorso. Con l’operazione “static kill” di luglio viene apposto un nuovo tappo di cemento che, finalmente, funziona. Il 19 settembre 2010, a cinque mesi dalla data dell’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon, la cementificazione del pozzo è ufficialmente terminata e la falla è chiusa.
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Quanto petrolio è finito nelle acque del Golfo del Messico
La Deepwater Horizon riversa nel Golfo del Messico 4,2 milioni di barili di petrolio, creando una chiazza grande tre volte la Sicilia e inquinando poco meno di 2.100 chilometri di costa in cinque stati. Un bilancio addirittura 16 volte peggiore rispetto a quello del disastro ambientale della petroliera Exxon Valdez nel 1989.
Lo stato più martoriato è senza dubbio la Louisiana: circa 4.500 tonnellate di residui di petrolio vengono rimosse dal suo litorale tra il mese di giugno del 2011 e il mese di aprile del 2013. Anche dopo l’operazione di cleanup, per oltre 300 km le paludi rimangono rimaste impregnate di residui, che uccidono le piante e innescano un fenomeno di erosione del suolo. Di seguito, un calcolo dei residui di petrolio raccolti in ciascuno degli stati coinvolti.
- Louisiana: 4.449.801 kg
- Alabama: 427.024 kg
- Mississippi: 51.006 kg
- Florida: 33.266 kg
L’impatto del disastro sull’ecosistema e sugli animali
La marea nera della Deepwater Horizon continua a espandersi per mesi, avvelenando l’ecosistema giorno dopo giorno. Da nove anni gli scienziati tentano di fare una stima dei danni, ma probabilmente ci vorrà ancora molto tempo prima di avere un quadro completo e attendibile. Ammesso che sia possibile.
Come ricorda la Noaa (National Oceanic and Atmospheric Administration), l’area nord del Golfo del Messico è l’habitat di 22 specie di mammiferi marini e cinque specie di tartarughe, tutte protette dall’Endangered Species Act. Il 20 per cento delle tartarughe di Kemp di giovane età è morto in seguito all’esposizione al petrolio e la popolazione di tursìopi (o delfini dal naso a bottiglia) è diminuita del 50 per cento.
Un rapporto sulle conseguenze sugli animali pubblicato dalla National Wildlife Federation a cinque anni dall’incidente rivela che il 12 per cento della popolazione di pellicani bruni del Golfo del Messico è rimasto ucciso, il tasso di mortalità dei delfini è quattro volte superiore alla media e il numero dei nidi deposti dalle tartarughe di Kemp è diminuito del 35 per cento dal 2010. Nell’arco di sei anni, tra seicentomila e ottocentomila uccelli sono morti a causa dell’inquinamento dovuto al petrolio, secondo Oceana.
Le conseguenze su flora e fauna, purtroppo, non si sono certo esaurite con l’operazione di bonifica. Diversi studi dimostrano infatti che il petrolio è entrato nella catena alimentare, perché è stato assorbito dal fitoplancton e ha ridotto la varietà di microrganismi nella zona interessata dall’incidente.
Quanto è costata la marea nera dal punto di vista economico
Il disastro ambientale della Deepwater Horizon è stato un terremoto che ha scosso alle fondamenta l’economia del Golfo del Messico, a partire dall’industria della pesca e del turismo, il cui giro di affari si aggira fra i 3,5 e i 4,5 miliardi di dollari l’anno. Circa 70mila persone o aziende hanno lamentato perdite economiche.
Paradossalmente, all’indomani del disastro, la banca JP Morgan Chase ha pubblicato alcuni dati secondo i quali l’immensa operazione di bonifica avrebbe portato benefici al pil. Questo “grazie” all’enorme investimento economico da parte di Bp, pari a circa 6 miliardi di dollari, per mettere all’opera una forza lavoro di circa 4mila persone. Cifre di per sé più alte rispetto ai circa 700 milioni di dollari persi dal settore della pesca e del turismo e rispetto ai 3mila posti di lavoro andati in fumo per la moratoria di sei mesi imposta sulle trivellazioni in profondità.
Dal punto puramente tecnico, è la verità. Ma questo, fa notare Forbes, semplicemente perché il pil non tiene conto dei colossali danni ambientali, né del cosiddetto costo opportunità: quante altre cose si sarebbero potute fare, più produttive per il territorio, la società e l’economia, con quei 6 miliardi di dollari e quei 4mila lavoratori?
Le vicende giudiziarie e le sanzioni per i responsabili del disastro
Mentre il territorio del Golfo del Messico cerca con fatica di ritornare alla normalità, nelle aule di tribunale il governo federale degli Stati Uniti, insieme a quelli dei singoli stati coinvolti, cerca di rivalersi su Bp.
Nel mese di luglio del 2015, dopo oltre cinque anni dall’incidente alla Deepwater Horizon, si arriva a un accordo che prevede la multa per danni ambientali più alta della storia. 18,7 miliardi di dollari, da pagare in 18 anni, per mettere la parola “fine” a qualsiasi contenzioso tra l’azienda e i governi di Stati Uniti, Louisiana, Mississippi, Alabama, Texas e Florida. Il 5 ottobre la cifra viene ritoccata al rialzo, raggiungendo i 20,8 miliardi di dollari.
La sanzione comprende 5,5 miliardi comminati sulla base del Clean Water Act, l’80 per cento dei quali vanno spesi per risanare l’area del Golfo del Messico; 8,1 miliardi per i danni alle risorse naturali, a cui vanno aggiunti altri 700 milioni per i danni ancora sconosciuti al momento del patteggiamento; 600 milioni per il rimborso di altre spese; 4,9 miliardi per i cinque stati coinvolti; e fino a un miliardo per gli enti locali che hanno subito perdite economiche a seguito della marea nera.
Ma non c’è soltanto la maxi-multa federale: ci sono anche le innumerevoli azioni legali intentate contro Bp da tutti coloro che sono stati coinvolti in un modo o nell’altro dal disastro ambientale. Vale a dire amministrazioni locali, aziende, anche i singoli pescatori che da un giorno all’altro si sono trovati senza lavoro. Per la precisione, le richieste di risarcimento sono circa 390mila, fa sapere l’azienda a gennaio 2018, quando ormai le ha risolte quasi tutte. E portano il conto finale a 65 miliardi di dollari.
Trivelle e petrolio nell’Oceano Atlantico, oggi
Per il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, evidentemente, queste argomentazioni non sono ancora sufficienti per dire addio alle trivelle offshore una volta per tutte. Poco prima di lasciare la Casa Bianca, il suo predecessore Barack Obama aveva tentato di bloccare le trivelle nell’Atlantico, ma fin dai primi giorni la nuova amministrazione non ha mai nascosto di avere progetti ben diversi.
Nel mese di gennaio 2018 il governo a stelle e strisce ha concesso 47 nuove autorizzazioni per le trivellazioni in mare alla ricerca di idrocarburi e in primavera ha messo all’asta 312mila chilometri quadrati di acque federali, l’equivalente di 4,4 milioni di campi da calcio. Immediata (e bipartisan) la levata di scudi da parte dei governatori degli stati costieri, che temono ripercussioni sul territorio; per citare solo un esempio, si stima che questo piano metta a repentaglio l’ecosistema di 68 parchi nazionali. E tutto ciò senza tenere in conto la minaccia di nuovi incidenti.
Anche in virtù di quest’accoglienza ostile, il dipartimento dell’Interno americano negli ultimi mesi ha continuato a lavorare dietro le quinte al piano su gas e petrolio per il 2019-2024. Secondo le anticipazioni diffuse dall’agenzia Reuters, tutti i dettagli saranno resi noti in primavera. Un segnale di speranza per l’ambiente arriva dalle aule giudiziarie: il 31 marzo il giudice Sharon Gleason ha ribaltato la decisione, ripristinando i limiti introdotti da Obama per vaste aree dell’Artico e dell’Atlantico.
Foto in apertura © Chris Graythen/Getty Images
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