Le spiagge del golfo del Messico sono disseminate di agglomerati di petrolio e sabbia che impiegheranno almeno 30 anni a decomporsi.
Deepwater Horizon, il disastro dimenticato nel racconto di chi c’era
Il disastro Deepwater Horizon raccontato dal giornalista Emanuele Bompan e dalla fotografa Giada Connestari, inviati nel 2020 in Louisiana.
La luce abbacinante della tarda primavera della Louisiana perfora un cielo liquido, denso di foschia. Il rotore del Sikorsky ronza rumoroso, mentre la calura invade l’ampio abitacolo del velivolo militare. A bordo, la fotografa Giada Connestari, un fotoreporter dell’agenzia Afp, un cronista di una testata locale e chi vi scrive sudiamo copiosamente. Sotto di noi il Golfo del Messico e il labirinto di canali e isole del delta del Mississippi. Con la coda dell’occhio la fotografa vede la prima grande scia di greggio, appena fuori Barataria Bay. Dopo un’altra ventina minuti ecco un’altra macchia affiorante, dai riflessi violacei e ramati, che si stende nel mare blu acceso.
In volo sulla Deepwater Horizon in fiamme
Il volo sembra non finire mai e poi all’improvviso ecco in lontananza fiamme e barche. È il luogo dove il 20 aprile 2010 è avvenuto l’incidente alla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di proprietà della compagnia petrolifera British Petroleum (Bp). Il più grande disastro petrolifero americano di sempre. Le fiamme che vediamo sono quelle del “flare”, la “torcia” utilizzata negli impianti di estrazione per bruciare il metano che fuoriesce insieme al petrolio dal pozzo sottostante. Fino al 19 settembre i tecnici della Bp tenteranno con svariati modi di tappare il pozzo, infine riuscendoci.
“Che storia terribile”, commenta il fotografo Afp mentre l’elicottero volteggia intorno al pinnacolo di fumo nero e alle onde nerastre in prossimità del pozzo. “È bastato – aggiunge – un guasto alla valvola di blocco per mandare a quel paese tutto”. All’epoca, ogni giorno si tentava di adottare una delle molteplici, possibili soluzioni per cercare di bloccare la fuoriuscita di decine di migliaia di barili di petrolio. Che si riversavano drammaticamente nel golfo del Messico. Bp, per questioni di trasparenza, invitava gruppi ristretti di giornalisti a seguire i lavori. Riparare la valvola danneggiata, una mega struttura di contenimento (chiamata “dome”), con iniezioni di fango e cemento. Ma quasi tutto fallisce. Alla fine saranno oltre 800 milioni di litri di oro nero a contaminare fondali e coste della Louisiana e degli stati confinanti (Texas, Alabama, Mississippi), in quei dannati cinque mesi.
Primi di giugno, terraferma. 55 miglia orarie e finestrini chiusi. La macchina sfreccia verso Grand Isle, ultimo avamposto umano del delta del fiume Mississippi. Per vedere davvero il petrolio i fotogiornalisti più esperti si recano spesso lì, al “ground zero” terrestre dell’incidente. Chilometri di spiagge e baie, onda dopo onda, ricoperte di petrolio. Ovunque i segni dell’industria degli idrocarburi che ha succhiato vite e paesaggi, in quello che un tempo era uno dei luoghi a più alta biodiversità degli Stati Uniti.
Il contatto con il petrolio: all’inizio bruciore agli occhi, poi il respiro bloccato e la nausea
Il contatto con il petrolio è rivoltante. All’inizio è un semplice bruciore negli occhi, poi prende i polmoni e blocca il respiro. Infine nausea e vomito. Misti al caldo soffocante denso di umidità, i miasmi sono quasi insostenibili. Migliaia di lavoratori accorsi da tutti gli States hanno passato per mesi in quell’inferno, otto ore al giorno riempiendo sacche di sabbia e petrolio, raccogliendo cormorani e tartarughe invischiate nella nera melma, per salvarle dal soffocamento certo e dall’ipotermia. Una lenta agonia da osservare da vicino nei centri per la pulizia degli animali creati con i 50 miliardi di dollari che Bp sta (lentamente) sborsando per le operazioni di bonifica e per la compensazione dei danni.
Per settimane abbiamo visto pellicani che lentamente venivano ripuliti piuma per piuma dal catrame oleoso. Volontari stanchi dagli occhi rossi. Decine di altri volatili arrivati già morti e pronti per essere gestiti come rifiuto speciale. A dieci anni di distanza tante specie non si sono mai riprese: ostriche, i coralli, le strolaghe maggiori, la trota di mare maculata. Fortunatamente se la passa bene invece il pellicano marrone, simbolo dello stato della Louisiana.
Il devastante impatto sulla fauna locale
Ma per tanti scienziati è ancora troppo presto per sapere gli impatti su specie che hanno una durata di vita superiore, come la tartaruga di Kemp o i delfini. Di certo la vita marina per molti anni a venire non sarà mai la stessa.
Chiunque abbia seguito da vicino il caso della Deepwater Horizon ricorda che, a prima vista, la marea nera, non era davvero una marea. Erano strisce catramose, palle bituminose, mix di sabbia, materia organica e petrolio. Uno strano miscuglio risultato dell’impiego di sette milioni di litri di agenti chimici, su tutti il terribile Corexit 9500, un fluido disperdente. Un litro ogni cento di idrocarburi: una soluzione perfetta soprattutto per l’immagine. Usato per disperdere, affondare, nascondere il petrolio a fotografi e telecamere di mezzo mondo.
Tant’è che quanto rimane oggi lo si ritrova non in superficie, bensì nei fondali marini, una zona morta immensa distrutta già da decenni di piccole fuoriuscite dai tanti pozzi estrattivi. Ben 27mila, oggi inattivi, e ancora 5-6mila che pompano idrocarburi, un esercito di macchine che dall’inizio del ‘900 ha devastato questa regione.
6 luglio, 2010, Venice. È appena passato l’uragano Alex, che ha interrotto per giorni tutte le operazioni. Difficile trovare dove dormire a Venice. “150 dollari a notte. Tutto esaurito altrove”, dice un affittacamere per avere una stanza in una palafitta con aria condizionata. “Gli affari vanno bene ora, ci sono i giornalisti e “contractors” della Bp. Poi scompariranno e a noi rimarranno solo spiagge sporche e un golfo contaminato»“, spiega Janine, una ristoratrice del paese.
Basta guidare lungo la highway 23, da New Orleans fino a dopo Port Sulphur per incontrare una delle code ai centri impiego temporanei BP per le migliaia di persone colpite economicamente e nella salute dal disastro. I danni sulla salute derivati dall’uso del Corexit rimangono sconosciuti. I riflettori se ne sono andati troppo in fretta da quella regione. Ben visibile ancora oggi, la crisi economica nel Delta. La Louisiana meridionale non si è mai davvero ripresa del tutto. Ostriche e gamberi, un tempo importante fonte di reddito, scarseggiano, e il turismo non è mai decollato di nuovo. “È stato peggio dell’uragano Katrina, non è un tipo di disastro dove si può ricostruire”, racconta Whitney Dardar, uno dei 17mila nativi americani Houma, abitanti del bayou, l’ecosistema palustre del delta.
Le estrazioni petrolifere non si sono fermate
Oggi gran parte delle persone lavora nell’industria petrolifera. L’incidente non ha certo fermato le estrazioni, anzi le ha incrementate sensibilmente. Le tecnologie di sicurezza per prevenire incidenti off-shore sono drasticamente migliorate, ma non le leggi. “Abbiamo visto l’amministrazione Trump ripristinare alcune delle già scarse misure di sicurezza messe in atto come risposta al Deepwater Horizon della BP”, afferma Diane Hoskins, direttore della campagna di estrazioni offshore presso la non profit Oceana, in un’intervista alla radio pubblica NPR. Un regalo ai petrolieri per risparmiare.
L’ennesima lezione sull’ambiente non imparata dai potenti. Non importa che abbia distrutto la vita di migliaia di persone, che ancora oggi attendono il giudizio in tribunale per avere una compensazione richiesta oramai dieci anni or sono, e de facto insufficiente a ripagare anche una minima parte dei danni. Non importa che il delta del Mississippi rimanga una zona ambientalmente fragile.
Era già nell’aria il 19 settembre 2010, quando venne annunciata la chiusura del pozzo BP che i riflettori se ne sarebbero andati abbastanza in fretta. Un altro disastro dimenticato, che dopo aver tenuto il mondo con il fiato sospeso non ha impartito alcuna lezione.
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