Dopo un mese di razionamenti, sono stati completati i lavori per la condotta provvisoria che porterà l’acqua dal fiume alla diga di Camastra, ma c’è preoccupazione per i livelli di inquinamento.
La deforestazione dell’Amazzonia è il caro prezzo della pace in Colombia
La deforestazione in Amazzonia è da record nelle zone un tempo sotto il controllo delle Farc. Il nostro reportage dal cuore delle foreste abbattute a Caquetá.
Tumbas. Nella parte colombiana dell’Amazzonia è questo il nome che viene dato alle enormi aree dove gli alberi sono stati abbattuti per bruciare il terreno. Tombe. I cimiteri dell’Amazzonia. Mi trovo nel mezzo di una di queste tombe insieme a Jairo, detto anche Peluche. Jairo ha 46 anni ed è gioviale, sorridente, con un soprannome che gli calza a pennello. Peluche, in piedi su un enorme tronco, si guarda in giro, osserva la tumba, il frutto del suo duro lavoro. È orgoglioso di questa grandissima distesa, dei cento ettari che ha strappato alla giungla. Si sta preparando a darvi fuoco, dopodiché pianterà erba. Qui pascoleranno cento capi di bestiame, parte dell’eredità che lascerà ai suoi figli. Il tronco su cui si trova Peluche, fino a poco tempo fa, era un albero, vecchio di centinaia di anni.
Di solito nel mio lavoro di giornalista cerco di essere imparziale, obiettiva. Tendenzialmente evito di fare domande allusive. Ma qui, in mezzo a questa distruzione, sono sopraffatta dalla tristezza. Mi sento come se stessi di fianco a un assassino che, orgoglioso, mi mostra le sue vittime. Gli alberi, la giungla, i polmoni della terra. Lui, in piedi sul cadavere di un albero antico, è come un cacciatore in posa con la sua preda. Non riesco a trattenermi. “Cosa provi nell’aver abbattuto tutta questa foresta? Non ti senti in colpa?”. Quasi lo aggredisco con le mie parole. Peluche quasi scompare dentro se stesso. Abbiamo camminato per un’ora sotto il sole cocente per arrivare qui, chiacchierando piacevolmente, ridendo. È quasi come se mi stesse mostrando il lavoro di una vita. La mia domanda ha toccato qualcosa di profondo in lui. “Secondo me stiamo andando verso la fine del mondo. Questi alberi sono come i miei figli. Le piante, l’acqua, la foresta sono le cose più sacre. Abbattere la foresta mi lascia a pezzi, moralmente, ma cos’altro posso fare? Cos’altro posso fare per sopravvivere?” Le parole di Peluche si dissolvono nell’aria. Anche i suoni – e la loro assenza – sono diversi nella tumba. Gli uccelli e gli insetti, il cui suono normalmente è assordante, non ci sono più. È la veglia funebre della giungla.
La politica ambientale delle Farc per la deforestazione in Amazzonia
La Colombia è il secondo paese al mondo (dopo il Brasile) a livello di biodiversità degli alberi, con 5.776 specie. Ma il disboscamento è in continua crescita da quando il governo ha firmato gli accordi di pace con le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc) nel dicembre 2016.
Nel 2017 la deforestazione è aumentata del 65 per cento rispetto all’anno precedente, con tre quarti del totale concentrati in Amazzonia, dove le Farc avevano il potere e agivano con l’autorità di uno stato, spiega William Mellizo, un leader del luogo. Il quarantenne è il rappresentante di sedici comunità nel Bajo Caguán, nel dipartimento di Caquetá, e afferma che le Farc avevano attuato una specie di politica ambientale: era infatti obbligatorio mantenere almeno un quarto delle proprie terre come riserva forestale. Il mancato rispetto di questo regolamento poteva portare a una multa o all’espulsione dalla zona. I più ostinati rischiavano una pallottola in testa.
In questo modo la gente rispettava le imposizioni e gli alberi venivano lasciati come riserva. Per molti il sostentamento dipendeva sulla coltivazione della coca, usata nella produzione della cocaina. Pagava bene, dunque tenere il 25 per cento dei terreni come riserva non era un problema, ma a un certo punto l’esercito iniziò a combatterne la produzione e gli affari iniziarono a soffrire. Poco dopo, con la firma degli accordi di pace, i guerrilleros deposero le armi e gran parte delle Farc scomparvero dalla regione. E la deforestazione iniziò seriamente a prender piede.
“Quando le Farc hanno lasciato le armi e se ne sono andate, è iniziata una deforestazione feroce”, spiega Mellizo. “Il governo non ha colmato il vuoto che hanno lasciato, e ora regna una sorta di anarchia devastante. Stanno abbattendo la giungla come pazzi, e non c’è molta esperienza nell’allevamento bovino così avviene tutto in modo inefficace”. Una sola mucca ha bisogno di un ettaro di giungla, e la maggior parte delle persone in questa zona non ha il proprio bestiame ma gestisce quello dei grandi allevatori, guadagnando una piccola percentuale. Peluche si trova in questa situazione.
L’analisi di Mellizo è confermata da Mario Angel Varon Castro, direttore dell’ente ambientalista Corpoamazonia nel sud-est colombiano. Nel suo ufficio a Florencia, il capoluogo del dipartimento di Caquetá, ci mostra una mappa appesa alla parete. “Tutte le aree dove la deforestazione è dilagante erano state sotto il controllo delle Farc, che non permettevano di abbattere la foresta. Lo stato è ancora debole in quelle zone, dove una volta c’erano le Farc, e ora il disboscamento va a rotta di collo. Vedete queste centinaia di zone? Le hanno spazzate in soli sei mesi nel 2018. Non riusciamo a fermarli, non abbiamo abbastanza risorse. Siamo soltanto qualche centinaio di ufficiali con un 4×4”.
Deforestazione in Amazzonia, i polmoni della terra
Secondo l’Istituto di idrologia, meteorologia e studi ambientali, la deforestazione in Colombia ha causato la perdita di 197.159 ettari nel 2018. Sorprendentemente, c’è stato un calo del 10 per cento rispetto al 2017, ma il 70 per cento della deforestazione è avvenuta in Amazzonia, un aumento del 4,5 per cento rispetto all’anno precedente. “Se tornerai tra dieci anni, qui ci saranno la savana e il deserto: la foresta non ci sarà più. È una tragedia, una morte annunciata,” afferma Peluche, laconico.
“La storia del polmone verde della terra la sappiamo”, precisa Mellizo. “Sappiamo benissimo che la foresta va curata. Gli allevatori non stanno facendo tutto ciò con malizia, ma per necessità. E abbiamo bisogno di aiuto per cambiare le cose. I contadini sanno che dovrebbero proteggere la foresta, ma stanno anche pensando al futuro dei propri figli”. Per esempio, la deforestazione è un’opportunità di avanzamento per Peluche e la sua famiglia, una possibilità di crescita. “Questo è ciò che posso lasciare ai miei figli. Sì, per certi versi è un peccato, ma al contempo ne sono felice. È un passo avanti per me e la mia famiglia, avremo più terre da lavorare in futuro”, fa notare Jairo.
Caquetá è il dipartimento colombiano con il più alto tasso di deforestazione: è così ormai da trent’anni. Cartagena de Chairá era stata segnalata come uno dei nove epicentri di questa attività nel 2018, e l’anno precedente era in cima alla classifica per alberi abbattuti. Raggiungere questo luogo, dove Peluche ha abbattuto cento ettari, è un po’ un’odissea: sette ore in barca sul fiume Caguán dove, passando il posto di blocco a Remolinos, un soldato ci avverte: “Da qui in poi (a valle, ndr.) non abbiamo il controllo. Fate attenzione”. Si riferisce appunto ai dissidenti Farc e alle enormi regioni senza legge dell’Amazzonia colombiana dove la foresta viene abbattuta alla massima velocità. È questo il prezzo della pace con i guerriglieri. Nonostante ci siano molti dissidenti che hanno lasciato le Farc durante il processo di pacificazione, Peluche afferma che è la prima volta che un giornalista gli fa visita, ed è raro che si facciano vedere i rappresentanti del governo o dell’esercito. Lo stato colombiano non ha ancora contattato né lui né la sua famiglia. Peluche mi dice che i dissidenti gli hanno fatto visita in più occasioni per cercare di convincerlo a tornare a coltivare la coca. “Ma io non voglio coltivare coca. Preferisco tagliare più alberi e piantare più maggese,” afferma. Cosa pesa di più sulla bilancia morale: rimanere liberi dalla produzione della coca, o non abbattere gli alberi?
La Colombia riceve fondi da diverse nazioni per combattere la deforestazione: la Norvegia, per esempio, è tra i più importanti donatori in termini ambientali. In seguito agli incendi da record che hanno catturato l’attenzione del mondo nell’agosto del 2019, la nazione scandinava ha deciso di cessare i propri contributi all’Amazon fund, un’iniziativa per combattere la deforestazione in Brasile. La scelta è dovuta all’atteggiamento del presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il quale si è mostrato favorevole all’abbattimento, incoraggiandolo a parole e persino con incentivi finanziari. La Germania ha preso una decisione simile, e svariate nazioni europee hanno minacciato di imporre sanzioni all’intera regione. Nel frattempo, un’associazione di 16 comunità locali nel Caquetá ha ricevuto dei finanziamenti per migliorare le pratiche di allevamento bovino per combattere il disboscamento. Il contributo arriva da Vision Amazon, un’iniziativa creata dal governo colombiano con il sostegno di Germania, Norvegia e Regno Unito. Ma è ben lungi dall’essere sufficiente, sostiene Mellizo: “Sta succedendo troppo lentamente. Gli allevatori stanno abbattendo un’area immensa, dobbiamo agire in fretta”.
Il costo umano della deforestazione in Amazzonia
Essendo una regione ricca di risorse naturali, in Amazzonia ci sono molti e potenti interessi economici che danno impulso alla deforestazione: attività come l’estrazione mineraria e l’abbattimento di alberi per il legname portano un sacco di soldi a proprietari terrieri, imprenditori e politici che spesso vivono in città molto lontane dalle tumbas. Le persone che si oppongono a queste attività – ovvero gli ambientalisti – spesso rischiano la vita. La difesa della foresta, in Colombia, è una questione estrema: l’America Latina è la regione più pericolosa al mondo per un ambientalista. Secondo l’ultimo documento pubblicato da Global Witness – una ong che mette in evidenza le connessioni tra sfruttamento di risorse naturali, conflitti, povertà e diritti umani – nel 2018 nel mondo sono stati uccisi 164 ambientalisti. In cima alla lista c’erano le Filippine, seguite da Colombia, India e Brasile. Oltre la metà delle morti sono accadute in America Latina.
Il maggiore Yanny Alexander Melo delle Forze Armate colombiane fa parte della cosiddetta Burbuja ambiental, un reparto regionale al comando del Ministero dell’ambiente per combattere la deforestazione e il traffico illegale di animali selvatici. Il maggiore Melo si sente arreso nei confronti della deforestazione in Amazzonia. “Questi sono danni ambientali irreversibili. È come se un mostro stesse divorando l’Amazzonia mentre noi stiamo a guardare”.
Abbattere gli alberi è illegale e in teoria gli allevatori possono essere puniti con multe e prigione. Secondo il Codice penale, quando gli impatti dell’abbattimento pesano seriamente su un ecosistema la sanzione va dai due ai sei anni di carcere, oppure una multa equivalente a tra 100 e 10mila volte il salario mensile nazionale minimo. Le multe vengono aggravate del 30-50 per cento se vengono danneggiate specie minacciate, a rischio, rare o endemiche. Se viene invasa una zona a statuto ecologico speciale, come una riserva naturale o indigena, i responsabili rischiano dai due agli otto anni di carcere e una multa equivalente a tra 100 e 50mila volte il salario mensile nazionale minimo. Questo, teoricamente, è ciò che dice la legge.
In Colombia, alcuni dei criminali ambientali responsabili per la deforestazione sono stati arrestati: nel 2019 (fino alla prima settimana di dicembre) ci sono state 102 condanne per danni alle risorse naturali, di cui quattro nel Caquetá. A dicembre, inoltre, sono iniziati i processi a tre sindaci – di Calamar, Miraflores e El Retorno – nell’Amazzonia colombiana. Ma troppo spesso le sentenze non corrispondono all’entità del tasso a cui viene abbattuta la foresta. Il maggiore Melo si sente frustrato da ciò che lui considera il fallimento delle autorità nell’affrontare il problema. “Non catturiamo mai i responsabili intellettuali. C’è tutta una mafia dietro alla questione. Catturiamo soltanto i contadini che tagliano gli alberi e bruciano la foresta, ma non arriviamo ai veri criminali: nessuno di veramente responsabile viene punito. Non abbiamo né il personale né la capacità di fermare la deforestazione. Il risultato è che non succede assolutamente niente a chi causa questi crimini ambientali”.
Un albero chiamato Breiler
“Mostragli la riserva, papà”, intima Breiler, il figlio ventenne di Peluche, consapevole del fatto che suo padre in questa storia appare come il cattivo. Un cattivo il cui figlio sogna di diventare un eroe per l’ambiente. Proprio di fianco alla tumba, Peluche ha una riserva forestale che suo figlio sogna di poter conservare. “Se potessi essere pagato come guardia forestale per proteggere la foresta, il mio sogno diventerebbe realtà”, afferma Breiler. Sulla via di ritorno verso la casa di Peluche, ci fermiamo vicino a due grandi alberi. Li ha chiamati come i suoi due figli. A sentire Peluche e Breiler parlare di come hanno dato il nome agli alberi quando erano appena dei germogli ci si sente trasportati nel passato, come in un album fotografico vivente. Quando mi dicono che la foresta e gli alberi sono come una famiglia per loro, e che stanno per sradicarla, io ci credo. Do una pacca a un tronco e, con mia grande sorpresa, scopro un enorme boa constrictor – un cosiddetto galán – appena sopra di noi. “Non preoccuparti, non è pericoloso; viene qui spesso ed è abituato alle persone”, mi rassicura Peluche.
Un momento esotico, che allo stesso tempo fornisce un esempio vero, vivente, delle conseguenze della deforestazione in Amazzonia. Gli animali selvatici perdono il loro habitat e iniziano ad avvicinarsi sempre più agli insediamenti umani: la gente del luogo mi dice che ormai è la norma vedere tigrillos, serpenti, pappagalli e cinghiali. Non è nostra intenzione creare questo guaio infernale. Sappiamo bene che i nostri figli hanno bisogno di respirare aria buona”, dice Peluche. Breiler, che ha prestato il suo nome all’albero del boa, è appena tornato da una lunga permanenza nella capitale, Bogotá. “Abbattiamo gli alberi perché abbiamo il bestiame. Dobbiamo tagliarli per piantare erba, per avere qualcosa con cui sopravvivere, è l’unica fonte di reddito”, afferma. “A pensarci è triste, ma non abbiamo alternative. E io già mi vedo a seguire il percorso di mio padre”, aggiunge, dicendo che sogna di poter studiare ma non ha abbastanza soldi per farlo. “Se potessi studiare, la smetterei di abbattere alberi”, afferma.
“Essere parte della deforestazione mi rende triste”
Paradossalmente, tutti sembrano essere d’accordo su cosa si debba fare per combattere la deforestazione in Amazzonia: “La soluzione è trovare un’altra attività che permetta a questi contadini di sopravvivere”, afferma Melo. “La reazione delle autorità è troppo lenta in confronto a ciò che sta succedendo”, spiega Varon Castro con un tono rassegnato. “La gente chiede, cosa ci guadagno a non tagliare la foresta? E passano sei mesi prima che il governo dia una risposta. E nel frattempo cosa succede? La foresta viene abbattuta”. “Dobbiamo insegnare alle generazioni future ad aver miglior cura della foresta”: Breiler, da parte sua, inizia un discorso che potrebbe appartenere a qualsiasi politico al mondo.
Non riesco più a contenermi: “Tuo padre ha appena detto che la foresta tra dieci anni non ci sarà più, non pensi di dover far qualcosa tu?” Breiler si ritrae, triste e silenzioso. “Quello che stiamo facendo è una grave distruzione della natura, lo sappiamo. Siamo consapevoli del danno che stiamo causando al pianeta. Ci piange il cuore, ma cos’altro possiamo fare? Questo è ciò che vedo fare a mio padre…” La sua voce cambia, lo sguardo si perde all’orizzonte. “Stiamo distruggendo la vita. Contribuire alla deforestazione mi rende triste”. “Ma in famiglia non ne parliamo. Diciamo solo – andiamo a bruciare un po’ di foresta o no? Siamo pronti a piantare l’erba per le mucche?” Il giovane allevatore amazzone sembra avere le idee chiare. Ma, dietro l’angolo, lo aspetta la faticosa sfida della vita quotidiana.
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