All’anagrafe si chiamava Desmond Tutu, ma per tutti, nel suo Sudafrica, era “The Arch”. L’arcivescovo anglicano che per il suo impegno nella lotta contro l’apartheid nel 1984 ottenne il premio Nobel per la pace. All’età di 90 anni, il 26 dicembre 2021, si è spento a Città del Capo.
Eroe nonviolento della lotta contro il regime segregazionista e vincitore del Nobel per la Pace nel 1984, infine spina nel fianco dei potenti e delle storture della società multietnica: l'arcivescovo #DesmondTutu, morto a 90 anni, è stato la "bussola morale" del Sudafrica #ANSApic.twitter.com/VjpPu9btn7
Il presidente della nazione africana, Cyril Ramaphosa, ha espresso il proprio cordoglio “a nome di tutti i sudafricani. Il decesso dell’arcivescovo emerito Desmond Tutu rappresenta un nuovo capitolo nell’addio che la nostra nazione è costretta a dare ad una generazione di concittadini eccezionali, che ci hanno consegnato una nazione libera”. “Era – ha aggiunto Ramaphosa – un uomo di un’intelligenza straordinaria, integro e invincibile contro l’apartheid. Ma era anche tenero e vulnerabile nella sua compassione per coloro che avevano sofferto l’oppressione, l’ingiustizia, la violenza”.
Desmond Tutu non parlava in pubblico ormai da mesi. In occasione dei suoi spostamenti, si limitava a salutare con la mano. Nato a Klerksdorp il 7 ottobre 1931, nella regione di Transvaal, era figlio di un istitutore e di una cuoca. La sua era una famiglia povera. Da piccolo contrasse la poliomielite e i segni della malattia lo accompagneranno per tutta la vita.
L’insegnamento, gli studi religiosi e la rivolta di Soweto
Avrebbe voluto studiare medicina, ma non aveva abbastanza soldi per farlo. Grazie ad una borsa di studio, però, ottenne nel 1953 un diploma d’insegnante. Nel 1955 sposò Nomalizo Leah Shenxane, anche lei docente. Due anni dopo, però, decise di dimettersi per protestare contro le condizioni degli studenti di colore dopo l’entrata in vigore del Bantu Education Act del 1953, una legge che imponeva la separazione razziale a scuola.
È in quel periodo che cominciò gli studi religiosi, e nel 1961 venne ordinato sacerdote anglicano. Nel 1966, dopo un periodo trascorso a Londra, divenne così teologo e un anno più tardi rientrò in Sudafrica, presso la diocesi di Johannesburg. Fin da subito decise di far capire quali fossero i suoi orientamenti, rifiutando un lussuoso alloggio e preferendo vivere nel ghetto dei neri di Soweto. Il luogo nel quale nel 1976 esplosero sanguinose rivolte.
Desmond Tutu rilanciò per anni le idee di Nelson Mandela
Nel 1978 Desmond Tutu divenne segretario generale del Consiglio ecumenico del Sudafrica. Un ruolo che gli consentì di rilanciare i pensieri di Nelson Mandela, militante all’epoca incarcerato e futuro presidente della nazione. “The Arch” predicava una lotta non-violenta ma decisa. Una determinazione che lo porterà non solo al Nobel, ma anche, nel 1986, a diventare arcivescovo di Città del Capo, quindi presidente della Conferenza di tutte le chiese del paese africano.
Popolarissimoin patria come all’estero, festeggiò nel 1990 la liberazione di Mandela e, quattro anni più tardi, la sua elezione. Desmond Tutu fu allora nominato al vertice della Commissione verità e riconciliazione, che a partire dal 1995 condusse inchieste sull’epoca dell’apartheid. Il sacerdote chiese alla fine perdono e spinse per l’amnistia dei reati, nel rapporto finale pubblicato nel 1998.
Un popolo intero riunito grazie alla riconciliazione
Superata la triste parentesi della segregazione razziale, Tutu ha concentrato negli anni successivi la propria attenzione sulla lotta alla corruzione e sulla difesa dei più deboli (a partire dai palestinesi per arrivare ai rohingya). La sua è una perdita immensa per il Sudafrica, ma i suoi insegnamenti rappresentano ormai elementi costitutivi dei valori su cui si fonda oggi la nazione. Desmond Tutu, in questo senso, non ha solo sconfitto l’apartheid: ha unito un popolo intero attorno ai valori della pace, della giustizia e della riconciliazione.
Estate del 1984. I Just Called To Say I Love You. Un brano più melodico, soft e di stampo tipicamente 80’s rispetto ai precedenti per Stevie Wonder. Ed è anche un pezzo che sarà inserito nella colonna sonora di “The Woman In Red” (“La signora in rosso” di Gene Wilder e con Kelly LeBrock) e
Drogata e stuprata per anni, Gisèle Pelicot ha trasformato il processo sulle violenze che ha subìto in un j’accuse “a una società machista e patriarcale che banalizza lo stupro”.