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Dhondup Wangchen, dopo la prigionia in Cina il regista tibetano è pronto a lasciarsi la paura alle spalle
Dhondup Wangchen è il regista che è stato incarcerato dal governo cinese per il suo documentario di denuncia della condizione tibetana. Ci racconta come porta avanti la causa per il suo popolo anche dopo la traumatica prigionia.
“Nella cultura tibetana esiste una forte attitudine alla compassione. È come un’inclinazione naturale e molto diffusa. Siamo portati a considerare anche il nostro nemico come maestro perché ci induce a generare la compassione più profonda e il distacco dalle emozioni distruttive, come la rabbia”. A parlare è Dhondup Wangchen, il regista che ha trascorso sei anni in un carcere cinese per aver realizzato il documentario di denuncia della condizione tibetana Leaving fear behind (“lasciare la paura alle spalle”) in occasione delle Olimpiadi di Pechino nel 2008. A conferma delle sue parole, dal 2009 a oggi sono oltre 150 i tibetani che si sono immolati per dare voce alla causa del suo popolo. “Non hanno fatto male agli altri, ma si sono bruciati vivi come torce umane, per denunciare al mondo le ingiustizie che stiamo subendo ormai da 60 anni. Purtroppo, non è servito a niente”.
Leaving fear behind, il documentario sul Tibet
Wangchen ha 45 anni, è nato nell’Amdo, una regione che, dopo l’invasione nel 1949 del Tibet – all’epoca un territorio indipendente – è stata annessa alla provincia cinese di Qinghai. Ha viaggiato nelle aree più remote dell’altopiano tibetano raccogliendo oltre 100 interviste di uomini e donne che hanno accettato di farsi riprendere e di parlare, nonostante i rischi. “Per essersi esposti apertamente molti di loro hanno pagato un prezzo alto, come Golog Jigme, il mio amico monaco che mi ha fatto da assistente”.
[vimeo url=”https://vimeo.com/50220285″]Video Cano Cristales[/vimeo]
La versione completa di Leaving fear behind non è mai stata pubblicata, quella attualmente disponibile sul web resta una denuncia nitida anche se ridotta a 24 minuti e una decina di interviste. “Sono stato liberato nel 2014, le Olimpiadi di Pechino erano ormai un ricordo lontano e mettere in circolazione la versione originale avrebbe solo minacciato ulteriormente la sicurezza di quelle persone – racconta –. Il tempo era scaduto, ormai non aveva più senso”. A dicembre 2017 il regista riesce finalmente a riabbracciare la moglie e i quattro figli a San Francisco, negli Stati Uniti, dove ha ricevuto asilo come rifugiato politico dopo una fuga rischiosa dalla Cina e un viaggio rocambolesco.
Dhondup Wangchen, la prigionia e il ritorno alla libertà
Lo abbiamo incontrato a Zurigo insieme a Norzin Lhamo-Ritsatsang, responsabile di Filming for Tibet, piccola casa di produzione che ha curato il documentario e che, insieme alla Tibetan youth association in Europe (che riunisce i giovani tibetani in Europa) porta avanti il Tibet film festival, in programma a settembre nella città svizzera e a ottobre a Dharamsala in India, sede del governo tibetano in esilio. Wangchen tiene lo sguardo basso, intenso, che passa rapido da un punto all’altro della sala. Racconta anche dettagli che preferisce non vengano riportati.
Perché ha deciso di realizzare un documentario sulle Olimpiadi?
Per aggiudicarsi i Giochi, Pechino fece delle promesse che non ha mai mantenuto: un maggiore rispetto dei diritti umani e più autonomia per il popolo tibetano. Disse che il Dalai Lama sarebbe arrivato in Tibet, che è in assoluto il desiderio più grande per il mio popolo. Con gli occhi puntati addosso, il governo aveva bisogno di raccontare al mondo una versione rassicurante e pacifica. La verità è che accadde esattamente il contrario ed era importante testimoniarlo; la repressione del governo cinese fu ancora più serrata.
Com’è finito in prigione?
Nel marzo del 2008 ci furono grandi proteste in tutto il Tibet. Il 26 marzo, mentre partecipavo a una di queste, sono stato arrestato e interrogato dalla polizia segreta. Il film è stato proiettato successivamente, proprio all’apertura dei Giochi, sia a Pechino che a Delhi (in India, ndr), solo a giornalisti e diplomatici stranieri. Il processo è stato una farsa, non mi è stato riconosciuto alcun diritto, il mio avvocato ha subito delle forti pressioni e alla fine è arrivata la condanna. A dire il vero pensavo che la pena sarebbe stata ancora più severa.
Come ha vissuto il periodo di prigionia?
Da schiavo. Per sei anni ho lavorato dalle 12 alle 16 ore al giorno, sette giorni su sette con un solo pasto al giorno, ininterrottamente, 365 giorni l’anno. Le prigioni sono fabbriche destinate ai lavori peggiori e alle condizioni peggiori: cucivamo le divise militari degli eserciti di Afghanistan, Iran e Iraq. Ogni prigione ha la sua produzione, tutte le lavorazioni più complesse e rischiose per la salute, come quella della plastica e dei minerali, vengono portate nelle carceri. In Cina ne esistono più di mille con più di mille detenuti dedicati a ciascuna; una forza lavoro notevole sfruttata senza limiti.
E una volta fuori?
Tutti gli ex prigionieri vengono sorvegliati. Sapevo chiaramente che alcune persone molto vicine a me, della mia stessa cerchia intendo, avevano il compito di controllarmi e di riportare tutto quello che facevo. Oltre a questo, ogni tipo di spostamento doveva essere dichiarato preventivamente alle autorità. Mi sono trasferito a casa di mia sorella ma nemmeno fuori di prigione ero certo di sopravvivere.
Per i maltrattamenti subiti, spesso atroci, chiunque esca di prigione si porta dietro problemi fisici e mentali anche gravi. Io avevo bisogno di controlli medici periodici che il governo cinese mi ha sempre negato, nonostante i richiami internazionali mossi dagli Stati Uniti e da alcuni paesi europei. In quel periodo scelsi di filmare la mia vita da ex prigioniero, per lasciare una testimonianza nel caso fosse finita male.
Di cosa si occupava prima di essere arrestato?
Dall’Amdo, nel 1992 mi ero trasferito a Lhasa (la capitale della regione autonoma del Tibet, sotto il dominio della Cina, ndr). Lì avevo incontrato attivisti, ex prigionieri, vittime di tortura e conosciuto da vicino ogni tipo di ingiustizia e sopruso. Era chiaro a tutti: in una totale assenza di diritto, qualsiasi azione intrapresa ci avrebbe potuto portare alla prigionia. Oggi penso ai tanti che stanno scontando la pena in questo momento. Come Tashi Wangchuk, condannato a cinque anni per aver cercato di tutelare e diffondere l’uso della lingua tibetana e i tanti attivisti che hanno cercato di difendere la Terra e l’ambiente.
Qual è il tema principale del movimento di protesta ambientale tibetano?
Le proteste riguardano diversi ambiti come l’estrazione mineraria, la massiccia deforestazione e la confisca indiscriminata dei terreni e del bestiame ai nomadi e ai pastori. Il Tibet è una terra ricchissima di minerali, oro compreso. Il governo cinese ne ha intensificato l’estrazione causando un impatto negativo sull’ambientale, inquinando irreversibilmente i fiumi e le falde oltre ad impoverire ulteriormente l’economia delle aree sfruttate.
Inoltre, l’altissima richiesta di legname da parte della Cina ha causato la deforestazione di oltre il 50 per cento della superficie boschiva, rompendo equilibri importanti. Nel 1998 ad esempio ci fu l’esondazione del fiume Yangtze che causò oltre 3mila vittime. Studi successivi condotti da scienziati cinesi hanno dimostrato che la causa principale dell’esondazione fu proprio la deforestazione nella valle dello Yangtze, soprattutto nelle aree tibetane.
Cosa si augura per il futuro?
L’unico desiderio è di continuare il mio impegno per la causa tibetana. Non ho nessuna intenzione di fermarmi. Certamente ho bisogno di ambientarmi negli Stati Uniti, di imparare la lingua e di trovare un lavoro, ma sono molto fiducioso perché ora posso vivere in un paese libero da uomo libero.
“To many Tibetans, Wangchen’s work has allowed the truth of Chinese violations in Tibet to reach the rest of the world.”—@yangjianli001, presenting our Courage Award to Tibetan filmmaker Dhondup Wangchen, who escaped Chinese surveillance following 6 years in prison. #FreeTibet pic.twitter.com/uvn4b6tiRJ
— The Geneva Summit (@GenevaSummit) 26 marzo 2019
Il Press freedom award a Dhondup Wangchen
Lo scorso novembre Wangchen ha finalmente ritirato a New York il premio che aveva ricevuto nel 2012 mentre era ancora in reclusione: l’International press freedom award, riconoscimento ai giornalisti che difendono la libertà di stampa assegnato dalla Committee to protect journalists, no profit che opera a favore dei diritti dei reporter di tutto il mondo. A marzo di quest’anno ha ricevuto anche il prestigioso Courage Award (premio per il coraggio) in occasione dell’undicesima edizione del Summit per i diritti umani e la democrazia di Ginevra.
Durante l’intervista nel caffè della stazione centrale di Zurigo sono diverse le persone della comunità tibetana a riconoscerlo e ad avvicinarlo per stringergli la mano. Wangchen è cordiale, accoglie tutti con un sorriso, ma rifugge con decisione ogni tipo di protagonismo: “Se parlo di me, è solo per denunciare quello che sta accadendo al popolo tibetano”. Supera la naturale ed estrema riservatezza perché conta sul sostegno delle persone e sul fatto che la sua storia possa viaggiare anche attraverso di noi, nella speranza che arrivi lontano.
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