Perché vincolarsi alla vita frenetica in città, ora che è possibile lavorare ovunque? Da questa domanda nasce il fenomeno di digital nomad e south working.
L’innovazione tecnologica, insieme a congiunture quali la pandemia, hanno facilitato nuovi modelli di lavoro da remoto e smart working.
Digital nomad e south worker vanno alla ricerca di una migliore qualità della vita, caratterizzata da una maggiore flessibilità e a ritmi più lenti.
Al tempo stesso, sono una risorsa per quei territori che altrimenti rischierebbero lo spopolamento.
Alla pari della tecnologia, l’altro elemento abilitante sono le politiche locali volte a creare le migliori condizioni per attirare questii lavoratori.
LifeGate Way ha creato un programma di accelerazione dell’innovazione aziendale che si svolge a Catania: si chiama Sustainable South Working.
Già prima dell’emergenza coronavirus, che ha inserito lo smart working nel vocabolario di tutti, c’erano persone che rivoluzionavano la propria esistenza per renderla meno monotona e respirare libertà e avventura. Lavorando, ma senza bisogno di timbrare il cartellino a un indirizzo determinato e scegliendo un posto nel mondo in base alle proprie inclinazioni, con la libertà di cambiare nuovamente qualora le circostanze lo suggerissero. Coloro che perseguono questa filosofia in tutto e per tutto vengono chiamati digital nomad, nomadi digitali.
L’identikit del digital nomad
Due sono le condizioni che caratterizzano i digital nomad: la possibilità di viaggiare quando preferiscono e quella di svolgere la loro professione ovunque e con pochi mezzi; di norma un computer, uno smartphone, una connessione a internet e poco altro. Sono content creator, imprenditori digitali, copywriter, docenti che tengono lezioni online, psicologi che incontrano i pazienti da remoto. Spesso, per coprire le spese, affittano la casa nella propria città di origine. Il loro status è difficile da definire, intricato com’è tra quello di turisti e residenti. Sono persone che non si accontentano di incassare uno stipendio ma ci tengono a dare un significato alle proprie giornate, all’insegna della filosofia yolo (acronimo di you only live once, si vive una volta sola).
Le origini del modello dei digital nomad
Come spiega Dave Cook, antropologo presso la University College London (Ucl), tutto è cominciato quando schiere di ragazzi si sono trasferiti nelle metropoli, convinti che le opportunità non sarebbero mancate e che i benefici avrebbero superato i costi. Finché non è arrivato il burnout, lo scontro con una realtà ben diversa da quella che avevano immaginato. L’investimento di tempo e denaro nell’inseguire una carriera tradizionale non aveva portato alla soddisfazione tanto anelata.
Prima delle restrizioni ai confini, tanti di loro hanno deciso di prendere il volo verso destinazioni lontane e paradisiache, sganciando le catene che li tenevano vincolani a un luogo specifico, con una rinnovata consapevolezza di ciò di cui avevano bisogno. Niente auto, poca stabilità, una risicata selezione di vestiti e oggetti che si riescono a infilare in una valigia. Ma, per contro, la libertà dai ritmi frenetici e monotoni e un orizzonte molto più grande, ricco di quegli stimoli che derivano dall’incontro con culture diverse.
La pandemia come facilitatrice di nuovi modelli di smart working
La pandemia ha favorito nuovi modelli di vita e lavoro che hanno rafforzato queste tendenze. La Covid-19 da un lato ha fermato a lungo i viaggi internazionali ma, dall’altro, ha definitivamente reso mainstream il lavoro da remoto. Le aziende l’hanno accettato e incoraggiato; le persone l’hanno interpretato in senso più ampio, guardando ai propri bisogni profondi.
Secondo l’Osservatorio smart working della School of management del Politecnico di Milano, al termine dell’emergenza almeno 5,35 milioni di addetti lavoreranno (del tutto o in parte) da remoto, un dato decuplicato rispetto ai circa 570mila del pre-pandemia. E questa stima si riferisce soltanto agli assunti con un contratto da dipendenti.
— OECD ➡️ Better policies for better lives (@OECD) February 7, 2022
Con l’emergenza sanitaria, continua Dave Cook, molti nomadi digitali si sono dovuti fermare più a lungo nello stesso posto. Nel frattempo, gli uffici si sono svuotati permettendo ai dipendenti di provare un assaggio dello stile di vita dei digital nomad. Lo stesso approccio al lavoro è cambiato, svincolando gli obiettivi e la produttività dalla presenza in ufficio.
Via dalle città verso luoghi più vicini alla natura
La pandemia ha fatto venir meno molte delle ragioni per cui le persone avevano scelto la città: niente più occasioni culturali o sociali, nessun bisogno di andare in ufficio o a incontrare i clienti. A fronte di questo, il costo della vita restava elevato, gli spazi ridotti, l’aria inquinata. Per molti la domanda è sorta spontanea: a che pro?
Da qui è scaturita l’idea di cambiare. Considerate le restrizioni, spostarsi per brevi periodi diventava più scomodo e (in certe fasi) illegale; meglio quindi trasferirsi una volta per tutte. Le città si sono svuotate e tanti, soprattutto meridionali, sono tornati alla loro terra d’origine, per avvicinarsi agli affetti e alla natura e approfittare di una migliore qualità della vita. Tutto questo continuando a lavorare da remoto per le aziende del nord grazie a internet e alle dotazioni tecnologiche. Un fenomeno ribattezzato south working.
Così i piccoli paesi hanno riaccolto i giovani che se ne erano andati. Dimostrando che produrre ricchezza al nord non equivale necessariamente a spopolare i paesi del sud. E che è possibile conciliare la produttività con ritmi più lenti e a misura d’uomo, investendo il proprio stipendio per portare benessere al territorio in cui si insiste e non più per fare rifornimento all’auto e macinare chilometri per raggiungere l’ufficio.
Un comune è il suo campanile, la sua #comunità, i suoi servizi. Servono scuole, un nuovo modello di sanità, uffici postali, #bandalarga anche per attrarre i giovani e creare nuove imprese: un’economia più forte proprio perché più a misura d’uomo https://t.co/1IJqNNNvYWpic.twitter.com/Vv96MNIggn
LifeGate Way supporta il south working, rigorosamente sostenibile
Sustainable South Working (Ssw) è un programma di accelerazione dell’innovazione aziendale che nasce proprio con questo spirito: rinforzare un’offerta territoriale che non sia soltanto turistica ma anche di business, in luoghi d’Italia non centrali rispetto alla geografia produttiva. A cominiciare dal sud.
Il programma si svolge in Sicilia, per la precisione a Isola Catania, un coworking e hub di innovazione all’interno di Palazzo Biscari, un meraviglioso esempio di barocco siciliano con vista sul mare. Per due settimane quattro startup lavorano per trovare soluzioni innovative e multidisciplinari a una challenge proposta dall’azienda partner. Durante questo periodo Ssw offre momenti di formazione con workshop, testimonianze, lezioni in aula e attività di team building e mentoring. Tutto questo all’insegna della sostenibilità, dell’innovazione e di una modalità di fruizione del territorio di tipo esperienziale, a contatto con la natura e le comunità locali, con una forte componente di approccio sostenibile al viaggio.
Ssw è un progetto di LifeGate Way, la controllata del gruppo che si occupa di creare un ecosistema di startup naturalmente sostenibili, in collaborazione con Opinno, società di consulenza per l’innovazione globale.
Agevolare lo smart working fa bene alle persone e ai territori
Considerati i vantaggi per alcune destinazioni cosiddette minori, interne e decentrate, le amministrazioni più lungimiranti hanno agevolato tali tendenze incoraggiando lo sviluppo di infrastrutture. Prima fra tutte, la connettività diffusa.
Dal rapporto Tecnologie e soluzioni per i piccoli comuni di Fondazione Symbola emerge come l’innovazione sia una chiave per la trasformazione delle sfide in opportunità per contesti depositari di un immenso patrimonio storico, artistico, naturalistico ed enogastronomico. In questa tendenza rientrano anche le iniziative di recupero dei borghi o la vendita di immobili al prezzo simbolico di un euro per invogliare le persone a ristrutturare casa e trasferirsi.
Nel 2020 è nata anche South Working, un’associazione che si propone di incentivare questo fenomeno per colmare il divario economico, sociale e territoriale tra nord e sud, tra aree industrializzate e marginalizzate, anche diffondendo la cultura digitale tra cittadini e amministratori e favorendo iniziative pubbliche e private per il lavoro agile. Si rivolge soprattutto ad aree, come quelle montane, svantaggiate in termini di densità abitativa e connettività, ma che offrono contesti e strutture di altissimo pregio storico-culturale. Molte di esse distano al massimo un’ora dall’aeroporto più vicino.
Il fenomeno del south working, così come quello dei digital nomad, permette un riequilibrio dei territori e delle risorse alleggerendo la pressione sulle città e instillando nuova linfa nelle zone a rischio di spopolamento. Le destinazioni si trovano così a competere per attrarre turisti e nuovi residenti, e le strutture vanno incontro ai lavoratori da remoto, per esempio offrendo pacchetti che conciliano le esigenze di un genitore in smart working con quelle del resto della famiglia in vacanza. La tendenza, però, non riguarda soltanto i borghi del sud Italia. I governi di diversi stati, come Bermuda, Estonia o Spagna, hanno iniziato a offrire visti ai digital nomad. Il mondo è tornato a essere molto piccolo.
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