Digital product passport, come funziona e perché spronerà la moda a diventare circolare e sostenibile

A breve il digital product passport sarà obbligatorio, ma c’è già chi ha avviato la sperimentazione sui suoi prodotti: il caso di Save The Duck.

  • Il digital product passport (Dpp) è una raccolta capillare di tutti i dati relativi al prodotto, dalla materia prima ai processi di produzione, dall’uso di acqua e agenti chimici all’energia impiegata, fino al trattamento dei lavoratori.
  • Questo strumento, già adottato in via sperimentale da alcune aziende, è funzionale a mettere in pratica la strategia europea per il tessile sostenibile e circolare.

Prima o dopo sarà uno strumento di trasparenza obbligatorio ma, mentre una direttiva europea ancora è in preparazione, il digital product passport è stato adottato in via sperimentale da alcune aziende. Dopo l’approvazione della strategia per il tessile sostenibile e circolare da parte di Bruxelles nel marzo 2022 infatti, l’Unione europea ha avviato l’implementazione di normative e azioni concrete. L’obiettivo principale di questa strategia è garantire che, entro il 2030, tutti i prodotti tessili prodotti nel territorio dell’Unione rispettino rigorosi standard ambientali. Questi requisiti si concentrano principalmente sul design degli articoli, che ad esempio deve essere ripensato per favorire il riciclo o il riutilizzo alla fine della loro vita. Inoltre, si richiede che i prodotti siano realizzati con fibre naturali e biodegradabili e che i processi produttivi siano efficienti dal punto di vista dei consumi. Per raggiungere questo obiettivo, uno strumento cruciale sarà appunto il digital product passport (Dpp), raccolta capillare di tutti i dati relativi al prodotto, dalla materia prima ai processi di produzione, dall’uso di acqua e agenti chimici all’energia impiegata, fino al trattamento dei lavoratori.

“Il digital product passport è un modo di condividere le informazioni che spesso sono già divulgate dai brand, ad esempio nel bilancio di sostenibilità, ma in maniera più compatta: con questo strumento si ha un livello di dettaglio maggiore e soprattutto lo si ha rispetto a ogni singolo prodotto” spiega Silvia Mazzanti, sustainability manager di Save The Duck, brand che per primo ha deciso di dotare di questo strumento tutti i prodotti della propria collezione. “Attualmente anche altri player di settore lo fanno, magari su qualche capo o su una capsule, ma non su tutti i prodotti”.

DIGITAL PRODUCT PASSPORT
Quando sarà obbligatorio, tutti i prodotti tessili realizzati nel territorio dell’Unione dovranno essere dotati di un digital product passport © Fujiphilm

A cosa serve il digital product passport 

In estrema sintesi, il digital product passport è una raccolta molto dettagliata di informazioni che sono in grado di restituire un quadro il più possibile esaustivo rispetto alla realizzazione di un prodotto, trasmesso sotto forma di QR code. “Si tratta di mesi e mesi di lavoro che servono per nutrire anche tanti altri contenitori, come quelli che ci permettono di fare reporting al Global compact delle Nazioni Unite, di compilare l’Impact assessment delle B Corp o altri rating richiesti ad esempio da grandi department store a livello europeo. Avere questa massa critica di dati è vitale per essere competitivi sul mercato”, continua Mazzanti.

L’effettiva implementazione della normativa, con l’adozione del Dpp a livello europeo, non sarà pronta prima del 2025, ma più probabilmente vedrà la luce entro il 2026, poiché la regolamentazione relativa allo standard per la raccolta dei dati è prevista entro la fine del 2024. “Anche se l’adozione del Dpp è ancora lontana dall’essere legge, la posizione di Save The Duck è quella di costruire questo strumento per gradi: non dobbiamo aspettare che arrivi la legge, anzi: sperimentando, faremo da cavie. Fare queste attività di piloting serve anche per dare al legislatore delle dritte perché, normalmente, non ha una vera cognizione di causa del settore: è essenziale avere un’opinione da parte dei player che già affrontano queste tematiche e intravedono difficoltà e potenzialità.”

Qual è stato il processo che ha spinto Save the Duck a dotare tutti i prodotti della collezione di un digital product passport?
Abbiamo sentito in maniera molto forte l’esigenza della parte sales e retail di essere supportata nel reperire le informazioni sulla sostenibilità. Come azienda ci siamo dotati dal 2018 del bilancio di sostenibilità, ma non ritenevamo fosse abbastanza. Volevamo infatti uno strumento che fosse efficace per quelle persone che stanno direttamente a contatto con il prodotto, ovvero i venditori e i clienti, quindi abbiamo anticipato la normativa.

A livello pratico quali sono stati gli step?
Abbiamo pensato di trasformare l’etichetta Certilogo, che c’è sempre stata nei nostri capi e ne comprovava l’originalità, e trasformarla in uno strumento ancora più parlante. Da qui nasce questo progetto in cui, alla scansione del QR code, si ha sempre con sé il set di informazioni relative al prodotto scelto e poi, a corollario, anche una parte di tutte le attività dell’azienda. Nello specifico l’experience alla quale si accede dal QR code parte dalla richiesta di verificare che il prodotto sia effettivamente un Save The Duck originale per poi andare a scoprire quali sono le caratteristiche funzionali di questo prodotto, quindi le performance strutturali, quindi i materiali, e tutto quello che va a corredo della costruzione e non si vede mai, come la certificazione che accompagna le materie prime e il luogo di produzione. Noi inoltre abbiamo altri due dati riguardo il cluster dei capi realizzati con materiali riciclati: il calcolo approssimativo della quantità di bottiglie necessarie per tessere la scocca esterna e di quelle necessarie per realizzare l’imbottitura e, attraverso un metodo di calcolo ideato da noi, anche la stima di quanta piuma vera sarebbe stata necessaria per riempire un nostro capo. Questo dato consente di calcolare quante papere non sono state spennate per riempire un Save The Duck. Se un cliente decide di comprare un nostro capo, toglie un pezzetto di fetta di mercato a un brand che magari non ha questa attenzione etica nei confronti degli animali.

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Save The Duck è il primo brand ad aver applicato il Dpp su tutti i prodotti della collezione © Save The Duck

Quali elementi sono necessari per compilare un Dpp?
Informazioni. Questo strumento si basa sostanzialmente su una struttura, creata da Certilogo, che è un’experience digitale: i dati che la nutrono vengono direttamente dalle indagini condotte da noi, riportate nel nostro bilancio di sostenibilità che poi è verificato da parte terza, quindi certificato. Di questi dati fa parte il calcolo le emissioni di CO2 e dei gas climalteranti, anche questo certificato Iso 140064. Tutto questo fa parte ovviamente anche del bilancio di sostenibilità, solo che lì viene messo in estrema sintesi, nel Dpp è più dettagliato. Noi cerchiamo di farci dare informazioni dai nostri fornitori su tutto: dagli impatti sui consumi energetici al quantitativo di materiali e di movimentazione anche a livello territoriale fra un supplier di livello 1 e di livello 2. Sono informazioni che noi raccogliamo autonomamente e che poi vengono validate da parti terze.

Quali sono le maggiori sfide legate alla compilazione del Dpp?
Una delle cose in assoluto più difficili è controllare in maniera capillare la supply chain. Noi lavoriamo con gli stessi fornitori da più di 10 anni, quindi ci portiamo dietro dei rapporti di lunghissima data, il che è un vantaggio enorme perché, letteralmente, sono cresciuti insieme a noi. Periodicamente facciamo incontri con loro e poi abbiamo sistemi di controllo abbastanza rigorosi con personale Save The Duck che svolge audit periodici. In questo senso abbiamo la fortuna di avere un controllo diretto, funzionale anche a portare il mood dell’head quarter a chi collabora con noi. Aver costruito rapporti così solidi ci consente oggi di essere dei rompiscatole numero uno. Perché per ottenere tutta questa massa enorme di dati serve tenacia: abbiamo dovuto spiegare ai fornitori perché avevamo bisogno di quei dati e non è  semplice far capire che non lo facciamo per danneggiarli. È molto comune nel settore tessile questo senso di sfiducia nei confronti di chi ti chiede troppo, per paura che il committente possa saltare un livello e andare direttamente al produttore. È chiaro che non arriviamo tanto in profondità da sapere anche da dove arrivano tutti i polimeri di cui sono composti i nostri capi, però in alcuni casi siamo riusciti ad arrivare a livelli di supply chain molto dettagliati, come chi produce il filo e le materie prime e, nel caso dei filati riciclati, da dove arrivano le bottiglie riciclate.

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Fisicamente il digital product passport si presenta sotto forma di QR code, strumento dal quale si accede alle informazioni dettagliate sul prodotto raccolte dall’azienda e validate da parte terza © Toa Heftiba

Qual è l’obiettivo finale del digital product passport?
Per noi è importante spingere sul senso di responsabilizzazione dell’utente. Noi arriviamo fino a un certo punto, ma quando il prodotto esce dai nostri magazzini ne perdiamo il contatto e, per quanto ci facciamo responsabili del fine vita, l’idea di base che sottende a tutto è anche quella di insegnare alla nostra clientela di averne cura. Per noi un modo efficace di farlo è spiegare com’è fatto quello specifico capo e come mantenerlo al meglio. Il digital product passport ha tante funzioni, tra cui quella educativa; vuole diffondere un concetto di responsabilità estesa anche al cliente, non solo al produttore. Si tratta di uno strumento vivo, che vedrà anche delle fasi di sviluppo prossime e che vogliamo promuovere tanto, perché siamo sicuri che avere sempre a disposizione questo tipo di informazioni sarà uno sprone per le persone nell’essere guidate attraverso delle scelte diverse. Avere un’etichetta che ti riporta sempre a come mantenere un prodotto, dove mettere il packaging se lo vuoi buttare: è come avere un bigino sempre in tasca.

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