Allarme per l’anomalia climatica sulla cima della montagna più famosa e venerata del Sol Levante dopo un’estate e un ottobre caldissimi.
Diritto a resistere, in viaggio per raccontare la lotta indigena per l’ambiente in America centrale
Il 30 ottobre tre giovani attiviste partiranno per l’America centrale con il progetto Diritto a REsistere, per raccontare le storie di lotta dei nativi contro le ingiustizie ambientali. E ispirare tutti noi.
Un viaggio così, LifeGate non poteva lasciarselo scappare. A pensarci bene, il termine viaggio suona anche un po’ riduttivo. Perché Alice Franchi, Magdalene Pellegrin (detta Odi) e Sara Segantin lo hanno pensato ispirandosi alle esplorazioni del passato. Per attraversare l’America centrale hanno rimediato “bussole affidabili” – le idee salde modellate da anni di attivismo – e “scarponi robusti”, cioè la determinazione di costruire una rete che connetta le battaglie dei popoli indigeni per difendere l’ambiente alle richieste di giustizia climatica che arrivano anche dalle nostre piazze. Per allontanare l’idea che non c’è più nulla da fare e che lottare per proteggere il nostro Pianeta, sia oramai tempo perso. Perché tutti abbiamo diritto a resistere.
Il 30 ottobre queste tre donne partiranno per l’America centrale, seguendo un itinerario che le condurrà in territori remoti e immersi nella natura, a contatto con le comunità indigene che li abitano e difendono. È vivendo con loro che troveranno storie di lotta e fatica, che hanno come protagoniste migliaia di comunità che, invisibili, lottano in prima linea per la giustizia climatica nei paesi più vulnerabili. Ciò che differenzia il progetto Diritto a REsistere da altre esperienze è l’obiettivo di dare voce soprattutto alle donne, unendo gli sforzi per espandere i loro diritti con la necessità di proteggere gli ecosistemi che abitano e da cui dovrebbero trarre sussistenza, lavoro e dignità. LifeGate seguirà le tre attiviste lungo tutto il loro percorso, documentando attraverso contenuti social e approfondimenti.
A poche ore dalla partenza, l’attivista per la giustizia climatica Alice Franchi, 23 anni, e la scrittrice naturalista e divulgatrice Sara Segantin, 26 anni, che hanno ideato la spedizione, ci hanno rilasciato in anteprima un’intervista con numerose anticipazioni.
Partiamo dall’inizio. Come è nata l’idea di questo viaggio?
AF: Per me, come per Sara e Odi, questo viaggio inizia da un’amicizia nata facendo attivismo per Fridays For Future. Ma l’idea del viaggio è maturata lo scorso maggio, quando io e Sara ci siamo riviste e abbiamo trascorso del tempo insieme. Avevamo entrambe la necessità di portare un cambiamento. Tanto nelle nostre vite quanto nel nostro agire come attiviste. Volevamo testimoniare le trasformazioni in atto nei paesi più vulnerabili.
È questo che ci ha spinte a partire, insieme alla curiosità di ripercorrere un’impresa del passato compiuta da una donna. Il nostro itinerario, infatti, non parte dal presente, ma ricalca quello tracciato da Harriet Chalmers Adams, un’esploratrice inglese dei primi del Novecento. Fu la prima donna a raccontare le culture e i territori del Centro e Sudamerica sulla prestigiosa rivista National Geographic. Ne abbiamo conosciuto la storia, il coraggio, la curiosità. E ci siamo chieste: perché non rifare lo stesso viaggio testimoniando come sono cambiate le cose in questi 100 anni?
Quindi un’ispirazione che si rifletterà sul progetto Diritto a resistere.
SS: Harriet Chalmers Adams è stata anche la prima a scardinare gli stereotipi e i pregiudizi riguardo alle donne esploratrici. Ha fondato la Society of Woman Geographers, dal momento che la Royal Geographical Society era chiusa alle donne. E nei suoi viaggi tra l’America Centrale e l’America Latina ha saputo raccontare non solo le popolazioni indigene e l’ambiente, ma anche il suo essere donna in viaggio, tutte cose che vorremmo riprendere durante il nostro percorso.
Viaggerete dal Messico a Panama, attraverso l’America Centrale. Quali altre tappe vi aspettano?
AF: Fin dall’inizio ci siamo dette che per Diritto a REsistere sarebbe stato fondamentale “radicarsi” davvero nei luoghi, incontrando e vivendo insieme comunità indigene e donne che stanno cercando di cambiare il mondo, lo stesso che noi nel nostro piccolo proviamo a fare. Per questo, in ognuno di questi paesi incontreremo tantissime realtà che ci racconteranno le loro storie di lotta e resistenza.
Per quanto riguarda l’itinerario, al viaggio originale di Adams abbiamo aggiunto una tappa iniziale. Partiremo infatti da Cancún, in Messico, per poi scendere verso il Belize. Dopodiché attraverseremo il Guatemala per raggiungere Barra de Santiago, a El Salvador. Percorsa la costa arriveremo in Honduras, e da lì cercheremo il modo più sicuro per attraversare il confine con il Nicaragua, che sarà una delle tappe più delicate del viaggio. Staremo quasi tre settimane in Nicaragua, per poi spostarci in Costa Rica. Arriveremo poi a Bocas del Toro a Panama che sarà una delle ultime tappe prima di ritornare in Italia.
Il volo di andata e ritorno rappresenta la parte più impattante del viaggio per quanto riguarda le emissioni di anidride carbonica, ma abbiamo lavorato per compensare le emissioni generate tramite un’attività di riforestazione in Guatemala dedicata proprio al nostro progetto. Per il resto, ci sposteremo il più possibile con i mezzi pubblici e a piedi.
Un itinerario ancora poco raccontato e con più di qualche sfida.
SS: Di certo il viaggio porta con sé qualche pericolo. Come detto, passeremo delle settimane in Nicaragua, dove incontreremo due realtà, tra cui Ometepe Bilingual School, dove si insegna lo spagnolo e l’inglese ai bambini. Per salvaguardare la nostra incolumità scriveremo del Nicaragua solo dopo aver attraversato il confine con il Costa Rica, dove il governo ha chiuso circa 3.000 organizzazioni non governative.
Al confine tra questi due paesi viene portata avanti una costante repressione delle comunità indigene che si oppongono ai piani di deforestazione per favorire l’allevamento, da destinare all’esportazione di carne. Basti pensare che il 93 per cento della deforestazione in Mesoamerica è dovuto all’allevamento di carne consumata sulle tavole occidentali. Per questo c’è una rabbia enorme delle persone nei confronti degli allevamenti, perché vuol dire bruciare villaggi interi, uccidere persone e devastare comunità. Desideriamo documentare tutto questo perché in Italia se ne parla davvero troppo poco. Incontreremo tante persone a cui non daremo volto ma voce, perché ogni giorno rischiano la vita per difendere il loro diritto a resistere.
Chi vi aspetta una volta arrivate e come siete entrate in contatto con le realtà locali?
AF: Sin dall’inizio ci siamo imposte di andare alla ricerca di progetti davvero locali, coordinati e vissuti da persone che vivono in quei luoghi. Nulla di calato dall’alto, insomma. Questo ovviamente ha allungato i tempi necessari alla ricerca. Specie nei paesi più contaminati dal turismo selvaggio e dove le dinamiche di sfruttamento delle risorse si sono cronicizzate, come il Belize e il Messico, abbiamo notato più diffidenza all’inizio. Lì le persone sono stanche di essere raccontate in modo colonialista a causa di quello che chiede il turismo. Mentre sentieri meno battuti come il Guatemala e El Salvador ci hanno aperto le braccia, gioiosi nell’essere considerati. Era come se dicessero: “Esistiamo anche noi“. Oggi possiamo dire che, prima ancora di partire, sappiamo già tanto dei territori che visiteremo. E questo solo grazie alle relazioni che abbiamo costruito con chi ci aspetta. Per esempio, in Guatemala siamo entrate in contatto con il progetto Tuq’tuquilal, che riunisce circa 60 famiglie, tutte parte della comunità indigena del luogo, impaginate in diverse attività. Tra queste c’è la produzione del cacao, che qui avviene in attenta simbiosi con la natura. Il mese scorso ho avuto il piacere di accogliere in Italia una delle co-fondatrici del progetto, Monica, che ci ha dato una mano a coordinare parte delle attività. E penso anche a Felipe, un prete di El Salvador che ci ospiterà. È un vero un rivoluzionario!
SS: A El Salvador incontreremo anche un’associazione di donne che si occupa della conservazione delle mangrovie e della microfauna marina, un’attività che non solo protegge l’ecosistema ma garantisce sostentamento e sicurezza alimentare alle comunità di nativi di Barra de Santiago. A Panama incontreremo Juan Diego Vásquez, il più giovane deputato del paese, e la persona che ha sognato, proposto e ottenuto una legge per i diritti della natura nel suo paese. Sempre a Panama ci attende una delle storie più incredibili: saremo ospiti della Sea Turtle Conservancy, che lavora per tutelare le tartarughe marine. La cosa curiosa è che le donne che fanno parte dell’associazione fino a non molti anni fa vivevano di pesca alla tartaruga, mentre oggi lottano per la sua sopravvivenza. E queste sono solo alcune delle persone che incontreremo, la lista è davvero lunga!
Il fatto di concentrarvi molto sul ruolo delle donne è frutto di un approccio ben preciso.
SS: Abbiamo voluto che questo progetto fosse intersezionale, che adottasse, cioè, uno sguardo capace di leggere i problemi come parti interconnesse di fenomeni complessi. Per noi affrontare la tematica ambientale significa gettare luce sulla condizione femminile, perché sono soprattutto le donne a pagare il prezzo più alto dello sfruttamento del suolo o delle devastazioni degli ecosistemi. Sappiamo per esempio che in queste aree, il 70 per cento delle donne lavora nella filiera agroalimentare, ma solo una piccola percentuale possiede la terra su cui lavora. E sappiamo anche che le donne sono le maggiori vittime della violenza che spesso si accompagna a queste dinamiche, tra privazione, sfruttamento, stupri e carestie. Dobbiamo tenere insieme la necessità di conservare e proteggere gli habitat naturali e quella di riconoscere maggiori i diritti alle donne, soprattutto per quanto riguarda il loro rapporto con la terra.
Sarete lì anche per rovesciare un paradigma. Perché solo chi vive per proteggere l’habitat può insegnare al meglio come prendersene cura.
AF: Se pensassimo di andare in Centro america, tra popolazioni indigene che quelle terre le difendono da secoli, pensando di poter insegnare qualcosa, avremmo di sicuro sbagliato approccio. Sin dall’inizio ci siamo dette che il nostro viaggio sarebbe stato improntato per prima cosa all’ascolto di chi ci troveremo di fronte. Solo in questo modo potremo capire come trovare le giuste connessioni attraverso cui comunicare nel modo giusto l’insieme di tematiche legate al concetto di giustizia climatica. Per farlo, dobbiamo per prima cosa chiedere permesso per raggiungere il loro modo di pensare, le loro parole, i loro strumenti.
Vogliamo essere lo strumento attraverso cui queste comunità possano esercitare il proprio diritto a resistere, che deve partire dal loro modo di pensare e dalle loro soluzioni, non dalle nostre. Spesso queste persone non conoscono nel dettaglio il significato del concetto di crisi climatica, ma ciò non significa che non sappiano avvertirne gli effetti o provare a elaborare delle soluzioni in merito. è per questo che ascoltare occuperà la maggior parte del tempo durante il nostro viaggio, perché solo così possiamo cercare di creare un ponte tra il nostro e il loro mondo, che deve prendersi cura dello stesso, grande, ecosistema.
Il cuore del vostro viaggio può riassumersi in due parole: fare rete.
SS: Per noi il concetto di “fare rete” può essere spiegato in due modi che mettono in comunicazione la realtà da cui proveniamo con quella che andremo a vivere. Vogliamo innanzitutto far scoprire a tutte le persone che ci accoglieranno che non sono sole, nonostante molte di queste siano isolate, spesso anche socialmente, perché indigene. Il nostro itinerario può diventare per loro un’occasione di incontro, anche fisico, mentre spostiamo il loro compagnia tra due paesi, dove ognuno scopre dell’esistenza dell’altro.
Diritto a REsistere ha poi anche un altro intento, e cioè quello di testimoniare realtà che possano fornire un antidoto al senso di impotenza e frustrazione che si avverte nelle nostre società. Mostrare le lotte di persone semplici ma con una grande forza d’animo, che nel pararsi di fronte una ruspa sfidano in realtà un intero sistema economico, dovrebbe darci la forza di fare lo stesso. Non intendiamo idealizzare queste comunità, riconosciamo che sono piccole e che commettono degli errori, ma continuano a lottare in tante, tantissime. è per questo che fare rete è cruciale tanto per noi quanto per loro, perché tutti siamo chiamati a difendere lo stesso Pianeta.
Oltre alla copertura di LifeGate, il progetto Diritto a REsistere produrrà servizi e collegamenti in diretta per Radio3scienza – Radio3 e Geo – Rai 3. Tutte le informazioni sul progetto saranno disponibili su un sito dedicato, accessibile a partire da venerdì 29 settembre.
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