
La scelta di Trump di uscire dall’Oms e di smantellare Usaid ha già messo in crisi decine di progetti umanitari e di sviluppo nel mondo.
I primi 38 giorni di Donald Trump alla Casa Bianca sono stati contraddistinti da un turbinio di decreti, annunci, decisioni (anche clamorose) e polemiche.
Sono passati trentotto giorni da quando il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha varcato per la prima volta la soglia della Casa Bianca. Trentotto giorni carichi di annunci, decreti, impegni e colpi di scena che hanno diviso ancor di più l’opinione pubblica americana e quella del mondo intero. Trentotto giorni che hanno fatto ricredere chi pensava che le promesse avanzate durante la campagna elettorale, soprattutto quelle più drastiche, sarebbero state ammorbidite nel corso del mandato. Al contrario, ciò di cui davvero non si può accusare Donald Trump è di aver peccato di incoerenza.
“Non credo che ci sia mai stato un presidente che abbia realizzato tutto quello che abbiamo fatto noi, in così poco tempo”, ha dichiarato il miliardario nel corso di una conferenza stampa tenuta il 16 febbraio, nel corso della quale ha affermato anche che la sua popolarità “è al 55 per cento”, che “le aziende già cominciano a tornare nel nostro paese”, che la situazione al suo arrivo “era catastrofica” e che “sono state avviate discussioni incredibilmente produttive con i capi di stato stranieri in materia di sicurezza, stabilità e pace”.
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Un’affermazione che ha lasciato interdetta perfino l’emittente Fox News, tradizionalmente vicina alle posizioni repubblicane, tenuto conto che in poche settimane Trump è stato protagonista di una brusca telefonata con il premier australiano Malcolm Turnbull (alleato storico degli Usa), quindi di uno scontro aperto con il presidente messicano Enrique Pena Nieto sulla questione del muro che Washington vuole costruire alla frontiera. Mentre in un’intervista concessa a due giornali europei subito prima dell’investitura ha attaccato a testa bassa le politiche della cancelliera tedesca Angela Merkel, aggiungendo l’auspicio di una disintegrazione dell’Unione europea.
Decisamente migliori, invece, i rapporti con Israele, soprattutto dopo che la Casa Bianca si è dichiarata non favorevole alla soluzione a due stati tra la nazione ebraica e la Palestina (marcando un cambiamento epocale nella politica storica perseguita sulla questione dagli Stati Uniti).
Per quanto riguarda la politica interna, nei primi 31 giorni – ovvero un mese esatto – di lavoro Donald Trump ha pubblicato 23 decreti, firmato cinque progetti di legge (e inviato 189 tweet), chiesto le dimissioni di uno dei suoi più stretti consiglieri, licenziato il ministro della Giustizia e visto due altri membri del suo governo lasciare gli incarichi prima ancora che questi fossero confermati dal Senato.
Sin dai primissimi giorni, il nuovo presidente ha puntato a smantellare la riforma delle polizze sulla salute voluta dal suo predecessore Barack Obama (e nota con il nome di “Obamacare”). Trump ha promesso “una copertura sanitaria per tutti”, ma non ha finora presentato alcun progetto concreto per rimpiazzare la normativa.
Ciò che ha già reso esecutivo, invece, è lo stop a tutte le assunzioni di funzionari federali, come promesso in campagna elettorale. Così come la guerra dichiarata ai media.
Al contrario, già il 25 gennaio è stata pianificato un deciso aumento del numero di agenti, in particolare con l’obiettivo di rafforzare i presidi alle dogane in chiave anti-migratoria: le forze dell’ordine potranno contare su quindicimila nuovi effettivi. Sempre in tema di immigrazione, due giorni più tardi il presidente degli Stati Uniti ha pubblicato uno dei decreti più discussi della sua amministrazione, ribattezzato “muslim ban” (bando per i musulmani) dai suoi oppositori. La giustizia americana ha bloccato l’atto, ma Donald Trump non si è arreso, promettendo un nuovo decreto, a suo avviso necessario “per lottare contro il terrorismo”.
Sul piano militare, il primo raid americano nello Yemen che ha ordinato il nuovo presidente non è stato per nulla fortunato. Il bilancio è stato infatti di un soldato americano morto, assieme a numerosi civili uccisi. Successivamente, lo Yemen ha ritirato l’autorizzazione concessa agli Stati Uniti che consentiva a questi ultimi di intervenire sul proprio territorio.
Ancora in materia di politica estera è risultata finora particolarmente ambigua la posizione nei confronti della Russia di Vladimir Putin. Sabato, nel corso di una conferenza internazionale sulla sicurezza a Monaco, in Germania, il suo vice Mike Pence ha spiegato di “considerare Mosca responsabile” dei conflitti in Ucraina e Siria. Ha quindi ricordato “l’impegno instancabile” del suo paese nella Nato, benché Trump l’avesse poco tempo prima definita un’alleanza “obsoleta”.
Per quanto riguarda l’ambiente, inoltre, le scelte di Trump sono andate sin dall’inizio in direzione opposta rispetto a quelle di Obama. Dopo il rilancio degli oleodotti Keystone XL e Dakota Access, il presidente ha atteso la conferma del Senato (arrivata il 17 febbraio) per vedere Scott Pruitt, climato-scettico vicino all’industria fossile, installarsi alla testa dell’Agenzia per la protezione dell’ambiente.
Un giorno prima, un decreto è passato quasi inosservato, nonostante la sua portata: il testo firmato da Trump esenta le imprese minerarie dell’obbligo di bonifica dei corsi d’acqua nelle aree vicine ai giacimenti. Mentre per un’altra normativa, che impone alle compagnie petrolifere di ridurre le fughe di metano originate dai pozzi, è stata avviata la procedura di abrogazione.
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