Le bandiere dei talebani hanno ripreso a sventolare sull’Afghanistan e le donne stanno pagando il prezzo più caro. Il reportage a due anni di distanza.
Un rogo di strumenti musicali nelle campagne di Herat, la chiusura dei centri estetici e dei saloni di bellezza e il divieto per le bambine a partire dai 10 anni di frequentare la scuola: queste sono soltanto le ultime imposizioni emanate dall’esecutivo dei talebani a due anni di distanza dalla loro riconquista del potere e dalla proclamazione della nascita del nuovo Emirato islamico (de facto, anche se formalmente è ancora una Repubblica islamica). Dal 15 agosto del 2021 – giorno in cui la bandiera bianca con impressa la professione di fede è ritornata a garrire per le vie delle città – ad oggi, in Afghanistan, si è assistito alla creazione di una vera e propria dittatura teocratica e all’instaurazione di un regime di apartheid di genere nei confronti delle donne.
Il mondo si è già dimenticato dell’Afghanistan
Sono trascorsi 24 mesi da quando il mondo intero si commuoveva di fronte alle immagini della fuga precipitosa e incontrollata all’aeroporto di Kabul di migliaia di cittadini afgani che scappavano dall’avanzata dei ribelli islamisti, e prometteva loro che non li avrebbe abbandonati. Così però non è stato e a dirlo è il report pubblicato dall’organizzazione International rescue committeeTwo years on: Afghans still lack pathways to safety in the European Union, che ha denunciato le politiche europee per il reinsediamento e l’apertura di vie d’accesso all’Europa definendole “negligenti” poiché, stando al dossier, “sono stati accolti 41.500 cittadini afgani, tra il 2021 e il 2022: un numero ampiamente insufficiente rispetto alle possibilità dell’Unione europea e del numero di cittadini a rischio”.
E se oggi molti afgani attendono sospesi nel limbo dei paesi confinanti e alle periferie dell’Europa, secondo le stime delle Nazioni Unite le persone che hanno lasciato il paese sono più di 2,6 milioni, oltre 40 milioni invece, vivono sotto il regime teocratico dei talebani e sotto il morso di una crisi economica che si acuisce di anno in anno. E il prezzo più caro di questa situazione lo stanno pagando proprio le bambine, le ragazze e le donne afgane discriminate, soggette a persecuzioni, a violazioni dei propri diritti e delle proprie libertà, imprigionate dai burqa e schiacciate dal maglio dell’immobilismo internazionale.
Cos’è il ministero della Prevenzione del vizio e promozione della virtù
“Una donna che non indossa il burqa si comporta come un animale”, questa scritta, accompagnata dalla fotografia di una donna coperta dal burqa e di un’altra velata con il niqab, domina la piazza principale di Kandahar. Tutti coloro che transitano nel centro della capitale spirituale dell’Emirato islamico si soffermano a leggere il manifesto. Un giovane ragazzo che spinge un carretto, storce lievemente il volto, osserva e poi, con gli occhi bassi, ritorna a lavorare. Un uomo, fermo con il suo taxi proprio sotto quell’imperativo di condotta che non ammette concessioni e non tollera repliche, attende alcuni passeggeri. Si presentano due famiglie. Gli uomini entrano nel veicolo le donne invece, coperte dai burqa, vengono fatte sedere nel bagagliaio. Poi il taxi riparte scrutato da uno zelante funzionario della polizia religiosa incaricato di far rispettare l’ordine e gli ordini della morale islamica che prevedono, tra le altre cose, che una donna viaggi nel baule di una automobile se su questa vi è un uomo che non è suo marito.
Barbe nere, jalabya bianche e un florilegio di fucili automatici a tracolla, dall’Ak47 sovietico all’M16 statunitense, a testimonianza del passaggio tra le polveri dell’Afghanistan di innumerevoli eserciti stranieri. I custodi della morale perlustrano le vie cittadine, coprono di vernice tutte le immagini femminili sulle vetrine dei negozi, sui mezzi pubblici affiggono manifesti che specificano come una donna si deve coprire, organizzano i posti di blocco e si accertano che nessuno violi le disposizioni imposte dal ministero della Prevenzione del vizio e promozione della virtù. La polizia religiosa risponde infatti al dicastero più discusso e più radicale dell’esecutivo dell’ Amir al-Mu’minin (“comandante dei credenti”), Haibatullah Akhundzada. Da quando infatti i talebani hanno preso il potere i clerici più oltranzisti e i gruppi più conservatori si sono inseriti negli apparati vitali del governo afgano reintroducendo la sharia e pretendendone l’applicazione radicale attraverso una serie di leggi che ha molti richiami con quelle dell’Emirato talebano degli anni Novanta.
La sharia e le scuole clandestine
Nel paese asiatico sono state reintrodotte infatti le esecuzioni pubbliche a dimostrazione del ritorno della “giustizia talebana”, è stata vietata la musica in quanto corruttrice dei costumi, attraverso una pluralità di editti le donne sono state estromesse dai ruoli amministrative, licenziate dai posti di lavoro, è stato proibito loro di lavorare per organizzazioni straniere, di comprare contraccettivi e addirittura di farsi visitare da un medico se questo è un uomo. E se si considera che le ragazze sono state allontanate dalle università allora si può ben capire come quest’ultimo ukase sia una privazione del diritto alla salute per le donne, dal momento che non ci potranno più essere medici nella condizione di assisterle e curarle.
Seguendo una strada che si arrampica tra pietraie e piccole case, nella periferia di Kabul, si raggiunge un anonimo edificio arroccato in vetta a un tratturo assolato e controllato da un paio di ragazzi poco più che adolescenti. Porte e finestre sono coperte da pesanti tende che impediscono a curiosi e passanti di osservare cosa sta avvenendo all’interno dove una giovane insegnante sta tenendo una lezione di letteratura a decine di studentesse. Si tratta di una delle scuole clandestine per alunne nate nella capitale dell’Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani. Maestri e professori hanno deciso di insegnare di nascosto per cercare così di opporre una resistenza intellettuale ai dettami dell’Islam radicale e offrire in ogni caso un’istruzione alle giovani allieve.
“Se i talebani dovessero fare irruzione ora credo che le conseguenze sarebbero molto gravi. Ma la paura non può fermarci, non possiamo smettere di dare un’educazione alle ragazze afgane, non possiamo impedire loro di studiare e avere un futuro. Con le nostre lezioni noi stiamo dando a queste studentesse una candela affinché possano guidare domani l’Afghanistan fuori dalle tenebre in cui si trova oggi. Senza istruzione non può esserci cambiamento nel nostro paese”. A parlare è Laleh, una delle docenti della scuola che da quando non può più andare all’università ha deciso di mettere la sua conoscenza e i suoi studi al servizio delle giovani alunne dell’Afghanistan: “Da quando hanno preso potere i talebani io non sono più una persona: non posso viaggiare, non posso studiare, non posso coltivare le mie passioni, non sono più io. Oggi in Afghanistan se sei una donna non sei più nessuno, non hai più diritti e libertà. Questa situazione deve finire e per questo dobbiamo continuare a fare quello che stiamo facendo; nonostante i rischi e i talebani”.
UNAMA is deeply concerned with today’s announcement by the Taliban that all women must cover their faces in public, should only leave their homes in cases of necessity, & that violations will lead to the punishment of their male relatives. Full statement: https://t.co/D7XEsmv1tepic.twitter.com/Iw35PbDju5
Afghanistan: la più grande crisi umanitaria al mondo
Oltre ad essere vessato dal regime dei talebani l’Afghanistan oggi sta affrontando la più grande crisi umanitaria del mondo e la situazione è peggiorata nella prima metà dell’anno con il numero di persone bisognose di assistenza umanitaria aumentato di mezzo milione, passando da 28,3 milioni all’inizio del 2023 a 28,8 milioni alla fine di maggio e 875mila bambini sono in uno stato di malnutrizione acuta. Subito dopo l’ agosto 2021 si è iniziato a parlare della tragica crisi economica in cui versa il Paese – spiega Stefano Sozza, direttore del programma di Emergency in Afghanistan -“La popolazione non riesce più ad accedere a beni e servizi essenziali, tra questi le cure sanitarie. Lo testimoniamo direttamente nei nostri centri dove rispetto al 2022 abbiamo visto cambiare la tipologia di pazienti”. E il report pubblicato a marzo dall’ong italiana Emergency, operativa nel Paese asiatico con tre ospedali, un centro di maternità e 42 posti di primo soccorso, rivela anche che un afgano su due non può acquistare i medicinali necessari per curarsi e uno su cinque ha perso un parente o un amico che non è riuscito ad accedere alle cure di cui aveva bisogno; cinque su dieci hanno dovuto risparmiare su cibo e abbigliamento per poter pagare delle prestazioni sanitarie e nove su dieci hanno chiesto denaro in prestito. Per rendersi conto di quanto sta avvenendo nel Paese asiatico basta dirigersi nel quartiere di Sharak dove, in una casa di terra battuta vive Awa Akbari, una donna hazara di 28 anni, madre di quattro figli. La casa è spoglia, i bambini dormono sul tappeto e la donna mostrando un sacco degli aiuti umanitari racconta: “Questo è il solo bene di cui dispongo. Il mio bambino più grande deve subire un’operazione al cervello e io non ho soldi per pagare l’intervento. Sono una madre da sola con quattro bambini e non ho più un lavoro da quando i talebani hanno preso il potere. La sola cosa che mi resta da fare è vendere la mia figlia più piccola così da consentire a suo fratello di sottoporsi all’intervento. Ho chiesto 1.200 dollari per lei, ha solo tre anni e non capisce quello che sto per fare. Immaginate il dolore che provo? In ogni caso sappiate che lo faccio anche per lei sperando che a farsene carico sarà una famiglia che può garantirgli una bella vita. Io posso solo prospettarle un futuro come il mio. E la mia, non è vita!”. Poi Awa si interrompe e si copre il volto e rimane immota e muta in un’istante che sembra non avere fine, proprio come l’Afghanistan di oggi: un Paese che da vent’anni di guerra ha ricevuto in eredità soltanto macerie e fantasmi senza soluzione di continuità.
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