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Si scrive dumping sociale, si legge concorrenza sleale
Il dumping sociale minaccia la concorrenza e i lavoratori. Una risoluzione del Parlamento europeo lo condanna e propone delle soluzioni.
Dopo mesi di negoziati, il Parlamento europeo ha adottato il 14 settembre una risoluzione dedicata alla lotta contro il fenomeno noto come dumping sociale. È lo stesso rapporto a dare per la prima volta a livello europeo una definizione ufficiale. Il lessico è formale, ma il significato esplicito:
[il dumping sociale] copre un’ampia gamma di pratiche intenzionalmente abusive (…) che permettono lo sviluppo di una concorrenza sleale riducendo illegalmente i costi operativi e legati alla manodopera e danno luogo a violazioni dei diritti dei lavoratori e allo sfruttamento di questi ultimi.
Il dumping sociale nella vita di tutti i giorni
Un esempio pratico è il distacco comunitario di lavoratori, un dispositivo legale che permette a una ditta europea di mettere a disposizione di un’altra un suo dipendente. Ma la sua applicazione può dar luogo a derive. È così che ad esempio una troupe giornalistica francese ha scoperto, in un cantiere del nord della Francia, la presenza di operai rumeni alle dipendenze di un subappaltatore italiano, pagati meno del salario minimo legale locale. Un altro colosso francese del mattone è stato colto a fare affari con un’agenzia di lavoro interinale registrata in Irlanda ma basata a Cipro, che gli forniva lavoratori polacchi o portoghesi a bassissimo costo. Ma il dumping sociale non è esclusivo del settore delle costruzioni. Anche nei trasporti i casi abbondano. Sono lavoratori distaccati quelli che guidano i camion che attraversano il continente ogni giorno – il cosiddetto cabotaggio – ma anche i piloti di note compagnie aeree.
Un paradosso nel cuore del mercato unico
Il dumping sociale nasce da un paradosso tutto interno all’Unione europea come ha illustrato ai suoi colleghi Guillaume Balas, l’eurodeputato socialista francese autore del rapporto alla base della presa di posizione del parlamento. Se da un lato infatti la nascita di un mercato unico ha permesso la libera circolazione di merci, capitali e persone attraverso le frontiere, dall’altra ogni stato ha conservato i propri standard sociali. Il risultato è che quando le imprese si sono trovate a competere sul mercato unico, alcune hanno colto l’occasione offerta dalla libera circolazione per assoldare i migliori professionisti, altre hanno invece puntato su una riduzione del costo del lavoro e sul peggioramento delle condizioni lavorative.
Black list e salario minimo per dire stop al dumping sociale
Il documento approvato dal Parlamento propone alla Commissione una lunga serie di misure. Alcune sono elementari, come la creazione di una lista nera delle società colpevoli di gravi violazioni della legislazione europea in materia sociale e di lavoro in modo da escluderle da appalti e sovvenzioni pubbliche. Altre sono molto più radicali e si attaccano alla radice degli squilibri all’interno dell’Unione. Fra queste, l’istituzione di salari minimi nazionali che raggiungano gradualmente “almeno il 60 per cento del rispettivo salario medio”. Un richiamo rivolto anche all’Italia perché acceleri i tempi per l’introduzione di un salario minimo.
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