Il 27 novembre aprono le candidature per la seconda edizione di Women in Action, il programma di LifeGate Way dedicato all’imprenditoria femminile.
Cosa si intende per eco gender gap
Esiste un divario di genere nel modo di affrontare la crisi climatica? Proviamo a tradurre il fenomeno dell’eco gender gap in dati oggettivi.
- Eco gender gap è un termine usato per indicare una maggior attenzione delle donne alle problematiche ambientali.
- Nel green marketing si è registrata una maggiore tendenza del genere femminile ad acquistare prodotti sostenibili.
- Le donne sono più coinvolte nell’attivismo ambientale? Ci sono tanti studi, ma le prove non sono così evidenti.
È vero che la sostenibilità è una questione di genere? Se sì, per quale motivo? Sono domande interessanti e legittime, alle quali non è facile rispondere. Per questo, meritano di essere esplorate da due prospettive differenti, ma comunicanti: il marketing e la psicologia climatica. Due aree che hanno provato a tradurre il fenomeno in dati comprensibili e il più possibile contestualizzati: per via di molteplici variabili da considerare, si tratta di un tema complesso che spesso sfugge a facili etichettature.
Green marketing: chi è più coscienzioso negli acquisti?
Eco gender gap è un termine che nell’universo dei mass media è apparso solo di recente. Nel 2018 la società di ricerche di mercato Mintel aveva pubblicato uno studio che mostrava come gli uomini britannici fossero meno coscienziosi delle donne in fatto di abitudini sostenibili, come il risparmio energetico e idrico, il riciclo dei rifiuti e gli acquisti consapevoli.
“Nelle indagini degli anni Ottanta e Novanta, il consumatore green veniva sempre connotato a seconda di variabili socio-demografiche derivanti dal marketing tradizionale – spiega Fabio Iraldo, professore di management alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa –. Ci si chiedeva: chi privilegia l’acquisto sostenibile? Generalmente si trattava di donne, persone abbienti e colte”. Così veniva confezionato un identikit del consumatore consapevole. Poi però, a fine anni Novanta, questa impostazione venne fortemente messa in discussione. “Si comprese che non sono le variabili anagrafiche a rivelare quanto un consumatore sia green – aggiunge Iraldo –. Allora cominciò a diffondersi la logica che fossero l’impatto ambientale del prodotto e la sensibilità del compratore a contare di più”.
Nell’indagine Why eco-labels can be effective marketing tools dell’Istituto di management del Sant’Anna di Pisa, i ricercatori hanno identificato tre variabili che, statisticamente, incidono di più sulle scelte sostenibili. “La prima, forse quella più significativa, è l’idea che un determinato prodotto possa garantire un evidente beneficio ambientale (possibilmente certificato). La seconda è il gender, ovvero l’incidenza del genere femminile in grado di influenzare positivamente la scelta d’acquisto. La terza variabile è il costo: all’aumentare del prezzo, diminuisce la disponibilità ad acquistare il prodotto”, conclude Iraldo.
La digitalizzazione ridurrà il divario
A livello statistico, quindi, esiste un divario di genere. Abbiamo chiesto al professor Iraldo se nell’ambito del marketing e della comunicazione ci fosse allora una deliberata targhettizzazione di prodotti green solo per il genere femminile, lasciando agli uomini poche opzioni. “Non direi – risponde il professore –. Le campagne di marketing sono già abbastanza orientate a sensibilizzare il pubblico maschile. Nel mercato delle auto si valorizza sempre di più l’impatto ambientale inferiore. Per questo credo che nel prossimo futuro vedremo dei segni di risveglio da parte degli acquirenti maschi che saranno più sensibilizzati da queste campagne”. Il settore della moda, con quello della cosmesi, negli ultimi cinque anni ha realizzato investimenti significativi in campagne pubblicitarie di prodotti a minor impatto ambientale. “Non c’è una prevalenza di genere, però. Patagonia, per esempio, ha prevalentemente clienti di genere maschile”.
La Sustainable products initiative, uno degli obiettivi del Green deal europeo, incluso nel nuovo Piano d’azione per l’economia circolare, prevede di istituire un passaporto digitale dei prodotti (dpp) che raccolga dati sulla loro catena del valore. Con questo passaporto, il consumatore avrà la possibilità di visionare le caratteristiche del prodotto in maniera molto più agile. “Le nuove generazioni avranno più facilmente accesso alle informazioni riguardanti la sostenibilità ambientale e, dal momento che l’utilizzo di questi dispositivi è trasversale, penso che l’eco gender gap si assottiglierà fisiologicamente”, fa notare Iraldo.
Il coinvolgimento delle donne nell’attivismo ambientale
Tutte le persone, attivisti e non, percepiscono la crisi climatica in modo differente. Per valutare il maggior coinvolgimento di un genere rispetto all’altro, bisogna tenere in considerazione numerosi fattori e variabili che vanno contestualizzate. “La letteratura sul divario di genere è ampissima ed è una delle più complicate da valutare”, afferma Anna Castiglione, psicologa sperimentale e co-direttrice del Climate psychology and action lab. “Ci sono svariati studi che mostrano come il coinvolgimento delle donne nell’attivismo ambientale sembri essere maggiore grazie a fattori ‘mediatori’. I principali sono l’egualitarismo e il caring, cioè una preoccupazione per le future generazioni e per l’ambiente. Ci sono studi che mostrano come la maggior percezione del rischio sia un altro fattore che inneschi un maggiore attivismo nelle donne, almeno nelle intenzioni”.
Castiglione però suggerisce cautela nel trarre conclusioni rigide e schematiche perché pochi di questi studi si basano sull’oggettiva osservazione del comportamento, mentre la maggior parte si basa sulle intenzioni (self-report) riportate sui questionari. “Questo è problematico perché tutti tendono a voler sembrare più attivi di quelle che sono – aggiunge la psicologa –. Negli studi di genere dai primi anni Duemila ai giorni d’oggi ci sono risultati molto contraddittori. Questo però non significa che l’eco gender gap non esista”. Un altro dei fattori che si pensa influenzino questa disparità è il modo di guardare alla crisi climatica, che sia da un punto di vista economico, scientifico o sociale: il tema dei diritti è più caro al genere femminile.
La fluidità delle nuove generazioni
Un articolo pubblicato nel 2016 sul Journal of consumer research ha rilevato che “gli uomini possono essere motivati a evitare o addirittura opporsi a comportamenti sostenibili al fine di salvaguardare la propria identità di genere”. Uno studio della Penn state university, pubblicato sulla rivista Sex roles, ha scoperto che gli uomini potrebbero non essere disposti a portare un sacchetto della spesa riutilizzabile, o riciclare, per paura di essere percepiti come gay o effeminati.
“Penso che sia un fatto legato alla provenienza e all’età delle persone considerate – commenta Anna Castiglione –. Ci sono sicuramente luoghi che insistono all’interno di una bolla conservatrice, dove il tipo di azioni nel quotidiano viene ancora targhettizzato per definire la sessualità e la virilità dell’individuo. Nelle realtà meno urbanizzate ci potrebbero essere ancora queste situazioni. Ma le nuove generazioni hanno acquisito una fluidità nel concepire il ruolo femminile e quello maschile; nell’avere determinati valori che sono molto più flessibili rispetto alla generazione dei nostri genitori in cui la virilità e il machismo avevano sicuramente più importanza”.
Oltre ad essere psicologa, Anna Castiglione è da anni una vera attivista di piazza. Ha fatto parte di gruppi come Exctinction Rebellion e il Sunrise Movement e nelle sue esperienze ha sempre trovato un perfetto bilanciamento di genere. “L’ambientalismo climatico si è mischiato giustamente ad altre fondamentali questioni sociologiche, come l’uguaglianza di genere e di etnia. Penso per esempio alla carenza di persone di colore nei movimenti, una rivendicazione importantissima perché è un dato di fatto. Ritengo giusto celebrare star del clima come Greta Thumberg e Alexandria-Ocasio Cortez per unire anche le battaglie sociali, ma non bisogna sbilanciarsi nell’esagerare sul fatto che solo le donne siano in prima fila nella lotta contro la crisi climatica, quando la prova non è così evidente. Ci sono tanti personaggi dell’attivismo climatico come Bill McKibben, Avram Noam Chomsky, Bernie Sanders o l’attivista indigeno Xiuhtezcatl Martinez che da anni si battono valorosamente”.
L’eco gender gap è un fenomeno dalla mille sfaccettature che necessita di un’accurata contestualizzazione dei dati, soprattutto sotto il profilo sociologico. Di certo la società si sta evolvendo, e sempre più persone – giovani e anziani, donne e uomini, attivisti e non – tenderanno a essere più coscienziosi sia nel ruolo di consumatori sia in quello di partecipanti attivi alla lotta contro la crisi climatica.
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