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Cos’è l’ecofemminismo e come promuove la rivoluzione inclusiva
Donne e ambiente come soggetti delle stesse forze di oppressione. L’ecofemminismo lega queste due figure influendo sulle politiche internazionali.
Dalle piazze fino alle sale dell’Onu, nel corso degli ultimi decenni i movimenti ecofemministi sono emersi a gran voce, chiedendo che l’inestricabile nesso tra genere e ambiente non venga più ignorato e condannando l’attuale modello economico a favore di alternative più inclusive e sostenibili.
Le origini e gli sviluppi dell’ecofemminismo
Coniato negli anni Settanta dalla poliedrica autrice Françoise d’Eaubonne nel suo libro “Le féminisme ou la mort”, il termine ecofemminismo indica una filosofia che evidenzia il nesso tra ecologia e femminismo, ponendo l’attenzione sull’intreccio dei rapporti di dominio che opprimono e violano con forza sia l’ambiente che la donna. Nel corso degli anni, questa relazione tra donne e ambiente è stata sviluppata da diverse pensatrici, dando vita a movimenti ecofemministi eterogenei e prospettive variopinte. Da Carolyn Merchant e Val Plumwood che proponevano una forte associazione tra la figura della donna e la natura, con un’idea di donna quale Madre della Terra, a Vandana Shiva che esaltava il legame tra donne e ambiente, quali vittime comuni del dominante modello di sviluppo neocolonialista, fino a Mary Fellow e Marilyn Waring, che tra la fine del 1980 e l’inizio degli anni 90’ presentavano la correlazione tra le diseguaglianze di genere e la degradazione ambientale sulla base del ruolo di riproduzione sociale rivestito dalla donna.
In Italia, il pensiero ecofemminista ha iniziato a diffondersi solo dopo Chernobyl. In seguito al disastro ambientale, molte donne, tra cui Laura Cima, principale esponente del movimento ecofemminista italiano, hanno avanzato istanze ecologiste all’interno di movimenti ambientalisti e femministi, dando così vita ad un femminismo ecologista che è riuscito ad accedere alla sfera istituzionale già con le elezioni regionali nella seconda metà degli anni Ottanta.
In ogni angolo del pianeta, nelle piazze e dentro le sale del potere
Tornando al livello globale, nonostante le critiche verso alcuni di questi e dei successivi filoni di pensiero, le varie correnti dell’ecofemminismo hanno marciato sotto la guida di valori e obiettivi comuni e, con la loro forza propositiva ed innovativa, hanno cavalcato l’onda femminista intersezionale di quegli anni promotrice dell’interconnessione di diverse forme di ineguaglianza e discriminazione, riuscendo nel 1992 a far sentire la propria voce all’interno della Conferenza Onu su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro e trovando ascolto anche nel 1995 alla Conferenza Onu sui diritti delle donne a Pechino, dove per la prima volta è stata assodata la necessità di promuovere e difendere in modo congiunto i diritti ambientali e i diritti delle donne. Nonostante questo significativo avanzamento, il pensiero ecofemminista si è in seguito affievolito per alcuni anni, per poi vigorosamente risorgere con il nuovo millennio e nuovi stimolanti dibattiti e pratiche. Ne sono esempi, le lotte ambientaliste di donne come Berta Cáceres, difensora honduregna che si è opposta alla costruzione di una diga sul fiume Gualcarque, considerato sacro dagli indigeni Lenca, e Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement, un’organizzazione non governativa che si occupa di riforestazione, conservazione ambientale e diritti delle donne in Kenya. Le loro storie si uniscono a quelle di moltissime altre donne e uomini che ancora oggi continuano a lottare per difendere i loro territori e i loro diritti.
Quale nesso tra genere e ambiente?
Ma qual è il profondo legame che unisce ecologia e femminismo? Quale relazione intercorre tra le donne e l’ambiente? L’ecofemminismo nutre le sue radici nella consapevolezza che le donne e la natura sono soggette alle stesse forze di oppressione: il sistema economico capitalista tramite la colonizzazione dei territori e l’estrazione delle risorse da un lato, e il patriarcato dall’altro, ha stabilito un sistema di dominazione, sfruttamento e violazione della terra e dei corpi e diritti delle donne. Questo attuale modello economico di sviluppo non incide solamente in modo diretto sull’ambiente, tramite il deterioramento dei terreni e l’eccessivo sfruttamento delle risorse volto all’arricchimento e alla conquista di capitale, bensì è responsabile anche dei cambiamenti climatici che stiamo sperimentando negli ultimi decenni. La crescita industriale ha portato ad un aumento senza precedenti della concentrazione di CO2 nell’atmosfera, provocando un innalzamento delle temperature globali e trasformazioni climatiche che richiedono oggi imminenti azioni di adattamento e mitigazione. La maggiore attenzione posta al tema a partire dagli Accordi di Parigi del 2015, ha risvegliato la consapevolezza degli effetti climatici non solo sull’ambiente, ma anche sulle comunità.
L’attivismo per un nuovo mondo
Grazie al lavoro di advocacy di molti movimenti, il pensiero ecofemminista è riuscito a influenzare in modo considerevole alcune politiche a livello internazionale ed europeo. Tuttavia, rimane necessario continuare a lottare per l’adozione di misure che prendano in considerazione sia i diritti delle donne, il loro empowerment, la loro inclusione nei processi decisionali, sia la difesa dell’ambiente e la cura del Pianeta, con un approccio olistico e di genere. Da qui il fondamentale ruolo dell’attivismo sociale e politico: in molti angoli della Terra, i movimenti ecofemministi stanno scendendo in piazza, guidati da un pensiero globale e azioni a livello locale, per decostruire un modello oppressivo e violento e crearne uno nuovo, più inclusivo, equo e sostenibile. Alla guida di queste iniziative troviamo spesso giovani donne che grazie alle loro esperienze e alla loro visione diventano agenti fondamentali di questo cambiamento. Italian Climate Network, insieme al mondo associativo ed istituzionale mondiale, da anni denuncia il violento impatto che i cambiamenti climatici hanno sui diritti umani, ed in particolare sulle donne, poste in condizioni di maggiore vulnerabilità proprio da quelle società patriarcali fautrici del cambiamento climatico.
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