Pubblicate nella notte le nuove bozze di lavoro alla Cop29 di Baku, compresa quella sulla finanza climatica. Strada ancora in salita.
Si salvi chi vuole
Il dramma che vive la città di Valencia è soltanto un assaggio di ciò che rischiamo senza un’azione immediata e drastica sul clima.
La catastrofe di Valencia era annunciata. No, non si tratta qui di alimentare le polemiche contro le autorità regionali, che hanno inviato alla popolazione locale i messaggi di allerta solo quando parte del territorio era già sott’acqua. O contro il 112, servizio appaltato a un’azienda privata che è andato in tilt quasi subito per le troppe chiamate ricevute. Né contro il presidente conservatore della Generalitat Valenciana Carlos Mazón, che appena entrato in carica ha avuto la brillante idea di abolire l’Unità di emergenza, creata solo pochi mesi prima quando l’ente era governato dai progressisti. La questione, qui, va ben al di là dei confini della Spagna.
Stragi come quella di Valencia sono state annunciate da decenni
Sono almeno cinquant’anni che la comunità scientifica aveva previsto la catastrofe. Non questa catastrofe. Non il giorno in cui si sarebbe verificata, poiché ovviamente impossibile. Ma che i cambiamenti climatici sono questo, sì, ce l’aveva detto. La moltiplicazione della frequenza e dell’intensità degli eventi meteorologici estremi è stata annunciata con largo, larghissimo anticipo. Il problema è che il mondo non ha voluto ascoltare quelle voci, rendendosi così corresponsabile del disastro. Reso ancor più grave dal modo in cui l’umanità ha deciso in troppi casi di trasformare in modo insensato i territori.
Andiamo con ordine. A generare un disastro epocale – con un centinaio di morti e danni per miliardi di euro nei bilanci ancora provvisori – è stato il fenomeno meteorologico noto con il nome di Dana: una depressione isolata ad alti livelli nell’atmosfera, che si forma specificatamente nella regione mediterranea. Gli spagnoli la chiamano “goccia fredda”, ma il soprannome attiene in realtà soprattutto alle conseguenze che provoca: il brusco cambiamento di pressione atmosferica genera infatti piogge torrenziali, venti violenti e un calo repentino della temperatura.
La ragione per la quale il fenomeno si produce soprattutto in autunno è legata al contrasto tra le masse d’aria fredda in discesa dalla regione polare e l’aria calda e umida al di sopra del Mediterraneo. Le cui acque quest’anno hanno raggiunto record folli, sfiorando in molte zone occidentali del bacino i 30 gradi centigradi. Il carburante perfetto per episodi come Dana. La miccia che ha scatenato l’esplosione, anch’essa direttamente legata al riscaldamento globale.
A pesare non è solo il clima ma l’uso scellerato dei territori
Ma non basta. Ad aggravare drammaticamente la situazione c’è anche lo scellerato uso dei territori che per decenni abbiamo avallato, ignorando le conseguenze che ciò avrebbe provocato. Dagli anni Cinquanta in poi in Spagna – ma in Italia la situazione è del tutto simile – si è costruito ovunque: nei pressi dei fiumi, dei laghi, del mare. Sui pendii. In zone a rischio conclamato. Nella regione di Valencia le piane inondabili sono praticamente tutte antropizzate e urbanizzate. I suoli cementificati e impermeabilizzati. Secondo un calcolo di elDiario.es, realizzato a partire dai dati del catasto, quasi un milione di case in Spagna si trova in zone a rischio inondazione. Eppure, nessuno se n’è mai realmente preoccupato. Anche perché la stessa nazione europea ha costruito numerosissime barriere in rapporto alla superficie, il che ha indotto una falsa aspettativa negli abitanti: che si fosse pronti ad affrontare alluvioni, tempeste e piene dei fiumi.
La realtà è un’altra. Perché i cambiamenti climatici la realtà la cambiano. Le ramblas, i canali di evacuazione dei corsi d’acqua, non bastano più se a precipitare è la pioggia attesa in un anno intero. Per capirci: se si fosse trattato di neve, staremmo ragionando su quanti giorni di scavi servirebbero per far riemergere le case. E il fatto che tutto ciò si sia prodotto a Valencia, città scelta come Capitale verde europea 2024 per la sua ambiziosa strategia che coniuga sostenibilità ambientale e qualità di vita dei cittadini, conferma come le azioni locali, per quanto benvenute, utili e lodevoli, non bastano.
Con il riscaldamento climatico in atto siamo chiamati a cambiare paradigma. Scale di valutazione. Misurazioni. E scelte politiche, beninteso. Ma senza un’azione immediata, drastica e priva di esitazioni, dovremo cambiare anche vocabolario. Di fronte ai disastri come quello di Valencia non si tratterà più di parlare di ricostruzione, ma di ripensamento. Non più di risarcire chi ha subito danni affinché possa ripararli, ma di predisporre piani per spostare milioni di persone in aree sicure. Perché questo sarà il solo modo di evitare ulteriori stragi.
Non siamo più in tempo per evitare catastrofi come quella di Valencia, ma siamo in tempo per evitare l’inimmaginabile
Invece, a pochi giorni dalla ventinovesima Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sul clima di Baku, scopriamo che le promesse avanzate finora dai governi di tutto il mondo ci porteranno, se va bene, ad un aumento della temperatura media globale di 2,6 gradi centigradi. Se va male, 3,1. E ciò a cui assistiamo oggi è quello che accade con 1,1-1,2 gradi. Nel frattempo la nazione ospitante, l’Azerbaigian, si concede un piano di straordinaria espansione dello sfruttamento delle fonti fossili, lasciandoci presagire l’ennesimo spettacolo pietoso di delegati governativi incapaci di trovare accordi seri e concreti. E dirigenti di aziende private sorridenti a stringere mani davanti alle telecamere per festeggiare la creazione di alleanze per il clima che si riveleranno prese in giro.
Invece di prendersela con chi manifesta bloccando le strade o imbrattando la facciata di un palazzo, gli stati si preoccupassero di agire. E non soltanto sulla mitigazione dei cambiamenti climatici, ma anche sull’ormai inevitabile e necessario adattamento ad essi. Perché se non siamo più in tempo per evitare catastrofi come quella di Valencia, siamo ancora in tempo per evitare l’inimmaginabile. Se lo si vuole, possiamo ancora salvarci.
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