Dal mischiglio della Basilicata alla zucca malon del Friuli al cappero di Selargius, in Sardegna: i presìdi Slow Food che valorizzano prodotti dimenticati, ma di fondamentale valore per la biodiversità, il territorio e le comunità.
El Salvador, dove l’agroecologia ripara i danni delle monocolture e dei pesticidi
Viaggio in El Salvador dove regna la tecnica della monocoltura, per comprendere le ragioni che spingono gli agricoltori a scegliere l’agroecologia.
San Salvador è una metropoli caotica che si trova a ridosso di un vulcano ancora attivo. Ho visitato la capitale di El Salvador nell’ottobre del 2022, con l’intenzione di scrivere un reportage su alcuni contadini salvadoregni che hanno scelto di adottare pratiche agroecologiche. L’idea era quella di capire il motivo alla base di una scelta così virtuosa, in un paese dove per decenni ha imperato la logica della monocoltura.
Sono andato allora a intervistare Pedro Cabeza, un osservatore dell’associazione Acafremin, la quale da anni sta realizzando campagne di sensibilizzazione sugli impatti delle monocolture in El Salvador. Appena sono entrato nel suo ufficio, ho notato un fascicolo con dei fogli in disordine sulla scrivania. “È la versione preliminare di uno studio sugli impatti delle monocolture di palma da olio e canna da zucchero” dice Pedro. Ma prima di passarmelo mi avvisa che è in fase di revisione e ancora non è stato pubblicato. Dopodiché mette a fare un caffè e, visto che mi vede boccheggiare a causa del calore, fa partire un ventilatore.
El Salvador, lo studio che analizza l’impatto delle monocolture sulla salute
“Al di là degli impatti ambientali e sociali, abbiamo l’impatto sulla salute. Questo è stato studiato qui in El Salvador. In tutte le comunità che si trovano intorno alle monocolture di canna da zucchero c’è una grande incidenza della malattia di insufficienza renale cronica. La gente soffre di questa malattia a causa dell’inquinamento e delle condizioni in cui vive”, spiega Pedro.
Da circa venti anni in El Salvador è stata scoperta un’epidemia di insufficienze renali croniche dovute a “cause non tradizionali”. Si usa la definizione cause non tradizionali perché il deterioramento della funzione renale di cui mi parla Pedro non è legato ai fattori di rischio più comuni per questa malattia, quali il diabete, l’ipertensione, l’obesità e soprattutto l’invecchiamento. In questo caso invece, la maggior parte delle persone colpite è rappresentata da uomini giovani, tra i 30 e i 40 anni, che non hanno particolari malattie pregresse e vivono in comunità agricole.
La discussione scientifica sulle possibili cause è ancora aperta, ma al momento la tesi più accreditata suggerisce che la malattia renale sia multicausale e derivi dall’effetto sinergico di due o più fattori. Il primo è la disidratazione a cui sono sottoposti i lavoratori agricoli, amplificata da condizioni di lavoro brutali e ondate di calore sempre più estreme (El Salvador si trova interamente nel cosiddetto Corredor Seco, una delle regioni del mondo che a causa dell’aumento della siccità soffre maggiormente l’impatto della crisi climatica). Il secondo fattore suggerisce che l’innesco sia un agente tossico, ovvero pesticidi o altri prodotti chimici di sintesi usati nelle piantagioni.
Il numero esatto dei decessi non è noto, ma le stime parlano di migliaia di vittime. Ad ogni modo la reale dimensione del fenomeno potrebbe essere sottostimata perché molti pazienti preferiscono morire a casa e quindi non vengono registrati nei sistemi di sorveglianza ospedaliera. Nei luoghi in cui la malattia è endemica si ritiene che i tassi di mortalità in El Salvador siano 10 volte superiori a quelli di altri paesi dell’America Latina, e 30 volte superiori a quelli che normalmente si riscontrano nei maschi adulti.
La regione in cui l’epidemia di malattie renali è stata scoperta è anche una delle zone dove sono presenti più monoculture di canna da zucchero: il Bajo Lempa.
Al di là degli impatti ambientali e sociali, abbiamo l’impatto sulla salute. Questo è stato studiato qui in El Salvador. In tutte le comunità che si trovano intorno alle monocolture di canna da zucchero c’è una grande incidenza della malattia di insufficienza renale cronica. La gente soffre di questa malattia a causa dell’inquinamento e delle condizioni in cui vive.
In viaggio nella storia del Bajo Lempa, in El Salvador
Il Bajo Lempa si trova in una pianura costiera fertile, a metà strada tra l’asfalto della Carrettera Litoral e le acque agitate dell’oceano Pacifico. Qui il fiume più lungo de El Salvador, il rio Lempa, abbraccia il mare, mescolando le sue acque a quelle dell’oceano, in un susseguirsi di insenature e sinuose foreste di mangrovie allergiche alla linea retta.
La vicinanza dell’oceano e del fiume Lempa fa sì che la regione si allaghi spesso. Lo scorso 9 ottobre la tempesta tropicale Julia ha sommerso gran parte del Bajo Lempa. Sono rimasto bloccato a San Salvador per dieci giorni perché le strade per raggiungere le comunità più interne erano impraticabili. Appena mi hanno dato l’okay ho preso il primo chicken bus disponibile. Nonostante siano passati dieci giorni dall’arrivo di Julia, il sentiero che ho imboccato è ancora una poltiglia di fango. Avanzare significa schivare i punti in cui il fango è più rappreso. All’improvviso mi imbatto in un campo completamente allagato in cui alcune vacche, invece di pascolare, sono costrette a nuotare nell’acqua.
Nel Bajo Lempa nelle case dei contadini, di fianco alle foto dei familiari, ci sono immagini di Ernesto Che Guevara e Fidel Castro. La maggior parte degli abitanti è beneficiaria del Programa de transferencia de tierra (Ptt), ovvero un programma governativo che nel 1992 ripartì 1.000 chilometri quadrati di terra a ex guerriglieri socialisti. Il conflitto armato in Salvador è durato tredici anni, ed è stato combattuto tra i rivoluzionari del Fronte Farabundo Martí per la liberazione nazionale (Fmln) e i vertici della dittatura militare che ha governato il paese durante cinquant’anni.
È difficile stabilire l’inizio delle ostilità. Alcuni per convenzione prendono in considerazione la data dell’assassinio di monsignor Romero, avvenuto per mano di uno squadrone della morte nel marzo 1980. Ma la verità è che l’intero decennio precedente – tra desaparecidos e repressioni di manifestazioni politiche sfociate nel sangue – è stato un lento e cruento apprendistato alla violenza. Durante più di venti anni un’intera generazione di salvadoregni è stata educata solamente a fare la guerra. Quando nel 1992 la guerra è terminata, reinserire queste persone nella vita civile è stato un problema.
Con il Ptt si tentò la soluzione agricola. Furono consegnati lotti di terreno incolto a ex guerriglieri, per permettere loro di coltivarlo e di vivere dei suoi proventi. Ma a conti fatti, con gli anni, molti decisero di vendere il suolo, o affittarlo agli zuccherifici locali, i quali pagavano una rendita irrisoria, ma almeno fissa.
Canna da zucchero, uso massiccio di pesticidi e violazioni dei diritti umani
Oggi giorno gli zuccherifici dominano l’economia della regione, la quale si basa sull’esportazione di un’unica pianta: la canna da zucchero. Nonostante le dimensioni ridottissime, El Salvador è uno dei maggiori esportatori al mondo di questa pianta; e il Bajo Lempa grazie al suo clima favorevole è una delle aree dove sono presenti più monocolture. La superficie di suolo destinata a questo vegetale aumenta di anno in anno. Secondo l’Associazione dei produttori di zucchero locale, l’agroindustria salvadoregna conta circa 800 chilometri quadrati coltivati a canna da zucchero. Negli ultimi anni c’è stata un’accelerata: tra il 2006 e il 2016 il suolo occupato da questa pianta è passato da 574 a 800 chilometri quadrati, con una crescita annua di circa il 38 per cento.
Di pari passo con il consumo di suolo, è aumentato anche l’uso di pesticidi e altri prodotti chimici. Lo studio dell’associazione Acafremin mostra che l’importazione di prodotti chimici di sintesi in El Salvador è triplicata negli ultimi vent’anni. Nel 2016 la questione è stata oggetto di una relazione della Procuradoria para la defensa de los derechos humanos, un importante ente indipendente che ha il compito di controllare il rispetto dei diritti umani. Nella relazione si può leggere che “l’uso indiscriminato di fitofarmaci ha generato violazioni dei diritti umani ed effetti negativi sulla salute umana e sull’ambiente”. Il rapporto raccomandava alle autorità di rispettare i principi di precauzione e prevenzione, al fine di evitare conseguenze di grande impatto.
Nel Bajo Lempa, questi principi non sono stati mai applicati. Ancora oggi una delle tecniche di irrigazione più frequente è la fumigazione aerea, con pesticidi che vengono lanciati indistintamente su piantagioni, abitazioni e coltivazioni private. Le condizioni di sicurezza sono pessime. Un contadino mi ha rivelato che, per sopportare il duro lavoro sotto al sole, alcuni lavoratori cercano refrigerio versandosi addosso il liquido in cui sono diluiti erbicidi e pesticidi. Come è stato osservato in uno studio, le condizioni di stoccaggio e vendita di questi prodotti mancano di adeguate misure di biosicurezza.
Emmanuel Jarquin Romero, esperto di salute e sicurezza sul lavoro e presidente dell’Agenzia per lo sviluppo e la salute agricola, spiega che per motivi agronomici i tre prodotti più importati in El Salvador sono, in ordine di importazione, 2-4D, paraquat e glifosato. A causa della pericolosità per la salute umana, in numerosi paesi l’uso di questi tre prodotti è oggetto di un forte dibattito scientifico. Ma il punto è che in Salvador ne vengono usati molti altri dichiaratamente illegali e dannosi. “Ci sono molte molecole proibite importate nel corso dei secoli”, sostiene Jarquin. “Esistono nel paese regolamenti sull’uso di prodotti agrochimici, ma bisogna essere realisti: il problema è che sono alternative a basso costo, ed è per questo che gli agricoltori sono disposti ad acquistarle”, sostiene Jarquin.
I numeri (e i danni) della coltivazione di canna da zucchero in El Salvador
Una ricerca dell’Università di El Salvador sostiene che l’industria dello zucchero contribuisce al 2,8 per cento del prodotto interno lordo del paese, e genera il 4 per cento delle esportazioni. Il settore dà lavoro a 50mila persone direttamente, e 200mila indirettamente (queste cifre si riferiscono principalmente al periodo della zafra, ovvero della raccolta della canna da zucchero, la quale si svolge da novembre ad aprile). Ma è pur vero che gran parte di questo profitto è destinato esclusivamente agli zuccherifici. La maggior parte della popolazione del Bajo Lempa è dedita all’agricoltura di sussistenza. Per trovare un reddito alternativo, molti uomini vengono assunti come lavoratori stagionali durante la zafra. Più del 50 per cento della popolazione vive in povertà. Le condizioni abitative sono precarie, i servizi sanitari, insieme al livello di istruzione, alle infrastrutture fondamentali, all’acqua potabile, al sistema della raccolta dei rifiuti, alle comunicazioni e all’energia; tutto questo è assente o di pessima qualità.
Il problema delle monocolture di canna da zucchero è che non rispondono a una necessità sociale. Ad esempio noi della comunità non ci arrabbiamo che loro coltivano la canna da zucchero, questa è la loro produzione, però quando arriva il momento del raccolto dovrebbero innaffiare con acqua, e non con quei veleni tossici.
Nel Bajo Lempa lo sviluppo delle monocolture ha portato a considerare illimitate le risorse naturali. Tutto ciò a costo di trasformazioni evidenti: la fertilità del suolo è andata diminuendo; le malattie renali si diffondono con la forza di epidemie; l’ecosistema naturale di mangrovie, il quale fornisce riparo dalle frequenti inondazioni del rio Lempa, si sta perdendo; tantissime specie selvatiche e acquatiche hanno perso il loro habitat originario e stanno progressivamente scomparendo.
L’alternativa dell’agreoecologia
Il primo passo per comprendere perché, nel Bajo Lempa, alcuni contadini hanno scelto di adottare pratiche agroecologiche è chiedersi cosa si intende con questo termine. Spesso agroecologia è stata usata come “parola ombrello”, indicando tecniche di coltivazione molto diverse tra loro, e in alcuni casi anche in conflitto. Darne una definizione precisa non è facile. Così l’ho chiesta a Walter Gómez, ingegnere agronomo dell’associazione Cesta, una delle prime associazioni ambientaliste del Salvador.
“Se analizziamo tutti i problemi causati dalle monoculture, come ad esempio la perdita di biodiversità, l’inaridimento del suolo, i problemi di salute, i deficit nutrizionali, l’agroecologia in questo paese è un atto politico” afferma l’ingegnere agronomo. Walter è un omaccione di 50 anni, quando parla sa metterti a tuo agio con un tono di voce calmo e rassicurante. Da qualche anno Cesta sta realizzando programmi di agroecologia in varie zone del Salvador, così Walter si muove in lungo e in largo con un pick-up dalle ruote inzaccherate a tenere corsi di formazione per i contadini interessati. Per lui lo scambio di conoscenza che avviene in questi incontri è fondamentale: “Permette di convincere i contadini che esiste una forma alternativa di fare agricoltura rispetto a quella usata dalle monoculture”.
Walter partecipa alle assemblee del Comitato per la sicurezza alimentare (Csa) come delegato dell’America Latina. Il Csa è una piattaforma internazionale legata alla Fao in cui si condividono buone pratiche in materia di sicurezza alimentare. La sua sede è a Roma, per questa ragione Walter visita spesso l’Italia. “Ricordo ancora che in un bar mi hanno fatto pagare un tiramisù e un cappuccino 18 euro” sorride. Nel 2018 ha partecipato alle consultazioni per l’elaborazione di una guida della Fao sull’agroecologia. Il risultato è un documento in cui sono stati stabiliti alcuni principi imprescindibili per parlare di coltivazione agroecologica.
Nell’autogestione degli ecosistemi naturali lo spreco non esiste
Uno dei primi principi è evitare lo spreco. Carlos Molina è un contadino che vive nel Bajo Lempa, nella comunità Puerto nuevo. È beneficiario del PTT, e nel piccolo orto che il governo gli ha assegnato coltiva mais e fagioli. Possiede anche alcuni alberi di mango e qualche animale, mucche e galline per lo più. Il mango e i prodotti che ricava dall’allevamento li vende a un coyote, cioè un intermediario che li rivende a prezzi più alti al mercato. Di solito i coyote sono persone che hanno un pick-up e possono guidare sulle strade sconnesse della zona. Carlos invece vive solo di questo: dei prodotti del suo orto e dei suoi animali.
A volte la puzza di bruciato che proviene dalle piantagioni arriva sino al suo naso. Le monocolture di canna da zucchero circondano letteralmente la sua proprietà, e una delle tecniche che usano è la quema, ovvero dei falò controllati che servono a eliminare le fastidiose spine che sono nel fusto della pianta che i contadini chiamano pica pica, e facilitarne così la raccolta. Quando chiedo a Carlos se anche lui fa dei falò per bruciare le foglie dei suoi alberi di mango, mi risponde così:
No, non si bruciano le foglie, bruciandole si perde il fertilizzante. Lascio che le foglie marciscono a terra perché questo è fertilizzante per l’albero.
Le monocolture perseguono benefici economici, quindi per velocizzare la raccolta e diminuire la mano d’opera usano la quema. “Il punto però è che gli impatti ambientali sono terribili” spiega Walter Gómez. Tra le varie conseguenze, con i falò si immette anidride carbonica in atmosfera, si inaridiscono i suoli e si diminuisce la biodiversità. Le fiamme possono essere fatali per i numerosi animali selvatici che trovano rifugio tra gli alti steli della pianta. E poi sono “la causa principale degli incendi che colpiscono le riserve forestali che sono a ridosso delle piantagioni”, commenta l’agronomo di Cesta.
Lo spreco è un concetto umano. Nell’autogestione degli ecosistemi naturali, però, lo spreco non esiste: tutto serve a qualcosa. È questo che Carlos cerca di dire quando mi spiega perché ha scelto di non bruciare alcun residuo colturale. Lasciare che le foglie del suo mango si depositino sul terreno crea del fertilizzante organico. Le foglie infatti rilasciano sostanze nutrienti per l’albero, come il fosforo e il potassio. La copertura naturale può inoltre ridurre l’erosione del suolo, ed è utile anche durante i periodi di pioggia intensa, in quanto trattiene l’acqua e permette una migliore evapotraspirazione del suolo.
Le persone pensano che sia più facile usare un prodotto chimico, bruciare i residui colturali, poi piantare nuovi semi e stop, non c’è più bisogno di lavoro fisico con il machete. È proprio qua dove si è perso il controllo. Quando ero un bambino si utilizzavano solo pratiche organiche. Mi ricordo, avevo forse otto, o dieci anni, quando iniziò la cosiddetta rivoluzione verde. Prima si usavano prodotti organici, poi con questa si cominciarono ò a usare prodotti chimici di sintesi, i fertilizzanti, gli erbicidi, i fungicidi.
Il re dei fertilizzanti
A pochi chilometri dalla finca di Carlos, vive Juan Luis Avilés Moreno. Anche lui è beneficiario del Ptt, si è trasferito nel Bajo Lempa nel 1991. Quattro anni dopo, nel 1995, ha iniziato a lavorare con il biologico. È uno dei primi contadini della zona ad esser passato all’agroecologia.
Quando lasciai la guerriglia partecipai a un programma che si chiama “trasferimento di tecnologia”, e da lì entrai nel processo dell’agricoltura biologica. Mi motivava conoscere quanto ci dicevano i nostri formatori: con acqua e merda non c’è raccolto che si perda.
Un altro principio dell’agroecologia per la Fao è la diversificazione. Nei suoi 17 mila metri quadri di campo, Juan Luis non coltiva mai per due anni di fila lo stesso vegetale. La rotazione e la messa a riposo del terreno sono regole fondamentali. Così come l’uso di abono verde, ovvero la coltivazione di piante di supporto, come le leguminose, utili a proteggere il suolo e recuperarne la fertilità. Le piante di fagiolo, ad esempio, apportano nitrogeno al terreno.
Poco distante dai fagioli, noto un enorme acquitrino. I danni economici della tempesta Julia ammontano a circa cinquemila dollari, mi dice. Con l’acqua, anche le zanzare aumentano, e mentre chiacchieriamo una scia di insetti mi insegue ronzandomi attorno alle gambe. Juan Luis se la ride dicendo che è il mio sangue fresco ad attirarle. Così siamo costretti a spostarci al chiuso, verso la sua abitazione. Dopo aver imboccato un piccolo sentiero fangoso, passiamo di fianco a un grande cumulo scuro coperto da un telo di plastica. Gli domando cosa sia, e Juan Luis risponde: “È il mio bokashi”.
Il bokashi è probabilmente il fertilizzante organico più diffuso in El Salvador. Serve ad apportare i nutrienti di cui il suolo ha bisogno, ma ha anche una funzione rigenerativa migliorando la capacità del terreno di assorbire l’acqua. Si ottiene attraverso la fermentazione di alcuni ingredienti, non esiste una ricetta fissa: sono i prodotti locali a disposizione del singolo contadino che determinano come produrlo, e questo lo rende accessibile a molti. Si prepara in circa quindici giorni, e ha un costo abbastanza basso: circa 12 dollari per un quintale di prodotto. Nel Bajo Lempa, dove l’allevamento di bovini è molto diffuso, il bokashi si produce spesso mescolando sterco di mucca a gallinaza (cioè sterco di gallina), aggiungendo poi carbone (che è come una spugna che filtra gradualmente i nutrienti per il terreno), acqua e gusci di riso (che assorbono l’umidità e facilitano l’aerazione del composto). Juan Luis mi avverte che durante la fermentazione è importante controllare una serie di fattori, quali la temperatura, il pH, l’umidità e l’aerazione del composto.
Con l’agricoltura organica si fertilizza il suolo, e il suolo poi offre alla pianta quello di cui ha bisogno. Invece nel caso dei prodotti chimici si fertilizza la coltura.
Juan Luis Avilés Moreno, contadino Bajo Lempa
Juan Luis ha accumulato quasi trent’anni di esperienza nella preparazione del bokashi. Poco prima di incontrarci è stato a un evento organizzato negli Stati Uniti, dove ha parlato di come prepara il suo fertilizzante organico. “Non ricordo quanti paesi abbia visitato. Sono stato in Francia, Olanda, Regno Unito, Brasile, Bolivia. Ho partecipato a corsi di formazione, e ho dato lezioni” racconta. “Vado a parlare dei miei fertilizzanti e di come li produco. In pratica vado a parlare della mia esperienza. Non invento nulla” annuisce.
Una questione di emancipazione
Un paesaggio verdeggiante sfila via dal finestrino dell’auto. Alberi di mango si alternano a cedri e alte ceibe. Il pick-up si inerpica su un sentiero asfaltato. Sono diretto con Walter a Santa Cruz Michapa, un municipio a 35 chilometri da San Salvador. Arriviamo verso le dieci di mattina di un giorno settimanale. Le strade sono vuote, non c’è nessuno nel parco centrale. Santa Cruz Michapa lo hanno soprannominato municipio dormitorio perché molti degli abitanti sono pendolari che percorrono circa un’ora di autobus al giorno per recarsi al lavoro a San Salvador. Chi non lavora nella capitale, vive di espedienti o, se gli va bene, lavora nel campo. Siamo qui perché Walter vuole presentarmi le Guardiane della semilla criolla, un collettivo di 15 donne che lavora con l’agroecologia.
Entriamo nel patio di un’abitazione. Il pavimento è in terra, il tetto è una lamiera ondulata di ferro. Su un tavolo sono sistemate alla rinfusa delle pannocchie di mais. Intorno a me, sedute in cerchio, ci sono quattro donne. “Durante la pandemia non ci lasciavano uscire, e spesso chi andava ad acquistare frutta e verdura alla Tiendona (il mercato più grande di San Salvador) tornava contagiato dalla Covid” racconta Iris Ivete Santos.
Iris ha 44 anni, ed è divorziata da 6 anni. Sta crescendo da sola una bambina di 14 anni, un’altra di 22 e un ragazzo di 24, che per fortuna ha già un lavoro. È lei a prendere la parola. Racconta come passare all’agroecologico ha significato evitare il contagio e, allo stesso tempo, avere cibo con cui sfamare le proprie famiglie. “Abbiamo capito che durante un evento come la pandemia non è la stessa cosa dover uscire a comprare gli alimenti, e produrli da sé nel proprio orto”.
Iris spiega che il passaggio all’agroecologico è avvenuto, oltre alla pandemia, anche grazie a un incontro fortuito. È stato nel 2020, durante un corso di formazione di Cesta, che le donne del collettivo hanno conosciuto Walter Goméz. Da quel momento si è materializzata l’idea di avere un proprio orto e coltivarlo con prodotti organici. Ana Gladys Martinez, un’altra componente del collettivo, aveva già vari anni di esperienza in quanto a fertilizzanti ed erbicidi organici, e insieme agli agronomi di Cesta ha supportato le altre donne nel processo di transizione. Al momento, al di là degli orti individuali di ciascuna guardiana, il collettivo gestisce con pratiche agroecologiche anche un terreno municipale di 7mila metri quadri.
La trasformazione al biologico è avvenuta gradualmente. Se in un terreno si sono sempre usati prodotti chimici, il passaggio all’agroecologico non può essere brusco. Il suolo ha bisogno di tempo per abituarsi. All’inizio è possibile mescolare i fertilizzanti chimici con quelli organici, poi pian piano si può ridurre la quantità del chimico, e dopo pochi anni lo si può eliminare del tutto. Al contrario dei prodotti chimici, i fertilizzanti organici come il bokashi e la gallinaza ci mettono più tempo ad agire. Ma a lungo termine i benefici sono evidenti.
La terra sta già cambiando colore, perché le stiamo dando il trattamento di nutrimento del suolo, le mettiamo fertilizzante organico, il bokashi. Vediamo proprio che sta cambiando la consistenza del suolo e del terreno
Quando chiedo il perché del loro nome mi rispondono che deriva da un’intenzione precisa. “Guardiana della semilla criolla perché vogliamo recuperare i semi e le tecniche colturali che usavano i nostri antenati”. Un’altra regola fondamentale dell’agroecologia è scegliere la varietà di seme che si adatta meglio alle condizioni climatiche. Scegliere il seme giusto offre una maggiore resa rispetto alle varietà non selezionate, in quanto può migliorare la resistenza della pianta alle malattie e alle condizioni climatiche avverse.
Non solo sostentamento, l’obiettivo delle Guardiane è convertire la produzione organica in una fonte di guadagno. Per questa ragione ogni mese, nel parco centrale di Santa Cruz Michapa, si organizzano fiere dove le componenti del collettivo vendono i loro prodotti. È anche un modo per fare pubblicità ai metodi agroecologici con cui si coltivano gli alimenti.
Cerchiamo l’indipendenza economica delle donne. Sogniamo un giorno in cui riusciremo ad avere più mercato. Il collettivo vuole produrre in grande. Così ottenendo più denaro dalla vendita dei prodotti, potremo essere più indipendenti, perché molte di noi sono madri single, o che hanno un compagno ma che allo stesso modo non riescono ad arrivare a fine mese.
Saluto le Guardiane ed entro in auto con Walter. Mi sembra di aver compreso che l’agroecologia in El Salvador significa molte cose: evitare gli sprechi, diversificare le colture, scambiare in maniera orizzontale i saperi. Ma è anche un modo per adattarsi di volta in volta al contesto locale, rafforzare i legami delle comunità, offrire spazi di autonomia ai piccoli produttori, e permettere loro di adattarsi alle crisi, grandi e piccole che siano. Ma ciò che molti contadini hanno voluto dirmi è che, con l’agroecologia, a cambiare è anche il rapporto con l’ambiente: le risorse naturali non sono qualcosa di sfruttabile solo per perseguire profitto, ma un comportamento da comprendere, e con cui negoziare benefici reciproci. Dietro la scelta agroecologica c’è un universo di senso che va molto al di là della mera ragione economica. “Considero l’agroecologia come uno stile di vita”, confessa Walter mentre imbocca la Panamericana in direzione di San Salvador. E forse ha ragione lui.
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