Se è vero che il 2024 verrà ricordato come l’anno che ha portato alle urne 2 miliardi di elettori in tutto il mondo, è indiscutibile che le elezioni presidenziali Usa di martedì 5 novembre potrebbero, da sole, segnare uno spartiacque nella storia recente della politica internazionale. Negli Stati Uniti gli elettori sono chiamati alle urne per decidere chi tra l’attuale vicepresidente Kamala Harris e l’ex presidente Donald Trump diventerà il quarantasettesimo presidente. Il testa a testa tra i due candidati iniziato con la subentrata di Harris a Joe Biden, sembra confermato dagli ultimi sondaggi. Ciò significa che ogni voto conterà, nonostante le sorti della nazione si giocheranno soprattutto nei cosiddetti “swing states”, meno prevedibili e, per questo, decisivi: Pennsylvania, Georgia, North Carolina, Michigan, Arizona, Wisconsin e Nevada. Ma se entrambi i candidati si stanno adoperando per mobilitare il maggior numero di elettori possibile, per alcuni segmenti della società il diritto di voto non è un esercizio scontato, a causa di politiche controverse che negli ultimi anni hanno eretto barriere.
La soppressione del voto alle elezioni presidenziali Usa
All’uscita dai seggi molti americani sono soliti indossare la spilla “I voted” – ho votato – per comunicare la propria partecipazione nel processo elettorale. Ma se quest’anno i creativi della Public Domain hanno pensato di creare un adesivo che afferma l’esatto opposto – “I Couldn’t Vote“, non ho potuto votare – c’è un motivo serio e concreto che riguarda l’accesso al diritto di voto negli Stati Uniti. In base al quindicesimo emendamento della Costituzione americana “Il diritto di voto dei cittadini degli Stati Uniti non potrà essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato in ragione della razza, del colore o della precedente condizione di schiavitù”. Ma questo fondamentale principio si scontra con politiche e comportamenti che sembrano avere l’obiettivo specifico di ostacolare una parte della popolazione.
Con il termine “voter suppression” si intende un fenomeno che affonda le radici nella storia americana sin dalle origini, quando prima della Guerra civile il voto era riservato unicamente agli uomini bianchi. Anche dopo la ratifica del quindicesimo emendamento nel 1870, che impediva agli stati di negare tale diritto su basi etniche, le leggi Jim Crow istituite nel sud per mantenere una segregazione de facto continuavano a escludere gli afroamericani. A partire dalle elezioni del 2020 sono stati approvati numerosi provvedimenti – 78 leggi e 400 proposte di legge – che incidono in modo sproporzionato sui diritti di voto delle minoranze, degli anziani e di coloro che votano per la prima volta.
Secondo uno studio condotto dal Center for public integrity, negli ultimi 4 anni ben 26 stati hanno reso il voto meno accessibile. Le strade verso un restringimento dell’accesso al diritto di voto sono molteplici, spaziando dai farraginosi processi burocratici che rendono complesse le modalità di iscrizione nei registri elettorali – obbligatoria per votare negli Stati Uniti – a norme restrittive riguardo al voto per corrispondenza. Un’altra fragilità del sistema riguarda la difficoltà a raggiungere i seggi nelle località più remote. Dal 2018, infatti, sono stati chiusi più di 100.000 seggi elettorali, rendendo sempre più difficile per le persone che cercano di accedere ai seggi elettorali: Texas, Arizona e Georgia figurano tra gli Stati più colpiti. Le storture del sistema elettorale americano riguardano anche i neo-elettori. In Texas, per esempio, si può votare con il porto d’armi, ma non con la tessera studentesca.
Il muro sul voto negli Stati del sud
Una ricerca pubblicata su The Conversation mostra che la minor accessibilità al voto riscontrata dal 2020 ha riguardato soprattutto il 43 per cento degli Stati del sud e il 31 per cento di quelli del Midwest, un’ampia regione nella zona centrale del paese che comprende, fra gli altri, stati popolosi come l’Illinois e politicamente cruciali come Michigan e Wisconsin. Per quanto riguarda questo nutrito gruppo di stati i dati rivelano che le perdite più significative nell’accesso al voto si sono verificate tra la popolazione di elettori afroamericani. Le professoresse di politica statunitense Kathryn Schumaker e Allyson Shortle, che hanno curato la ricerca, sostengono che i provvedimenti legislativi più restrittivi in tal senso siano stati presi negli stati a guida repubblicana – nell’86 per cento dei casi – mentre solo il 5 per cento degli stati a guida democratica ha innalzato muri nei confronti del voto.
Hanno poi individuato una correlazione tra gli stati più restrittivi e i tassi di affluenza alle elezioni di Midterm del 2022, già tradizionalmente caratterizzate da un’affluenza più bassa rispetto alle presidenziali. In questi contesti il tasso di affluenza medio alle urne è stato del 45,8 per cento – con il caso limite del Mississippi, il più basso di tutti, con il 32,5 per cento – rispetto al 49 per cento degli stati che non avevano introdotto limitazioni. “Una differenza statisticamente significativa che si pone al di sotto del tasso medio di affluenza in tutti gli Stati Uniti, pari al 46,2 per cento”, scrivono Schumaker e Shortle.
Harris, Trump e il voto delle minoranze
Riguardo alle principali minoranze del paese, non c’è dubbio che le fasi finali della campagna elettorale, sia divenuta via via più aspra nei toni. Domenica 27 ottobre questo climax ha raggiunto l’apice durante il comizio organizzato da Donald Trump al Madison Square Garden di New York. Dal palco il comico Tony Hinchcliffe ha dato sfogo a una retorica estremamente violenta e apertamente razzista, arrivando a definire Porto Rico “un’isola di spazzatura galleggiante”. Le parole di Hinchcliffe hanno fatto infuriare il comitato elettorale dell’ex presidente, preoccupato per i possibili effetti sul voto dei portoricani e, più in generale, dei latinos – ovvero i 36 milioni di persone che parlano spagnolo e vivono negli Stati Uniti, pari al 15% del totale degli aventi diritto di voto – e che nel 2020 avevano dato grande appoggio proprio a Trump. Anche solo perdere i voti dei portoricani potrebbe costare caro all’ex presidente, dal momento che secondo il Pew Research Center le persone provenienti dall’isola del nordest del mar dei Caraibi conta quasi 6 milioni di persone sparse per i 50 stati americani. Ancor più importante è che l’elettorato portoricano potrebbe rivelarsi decisivo in stati chiave come la Pennsylvania, dove è rappresentato da quasi mezzo milione di persone.
Chairman of the Republican Party of Puerto Rico Ángel Cintrón calls comedian Tony Hinchcliffe comments on Puerto Rico “unfortunate, ignorant and entirely reprehensible.”
Hinchcliffe’s called the island a “floating island of garbage in the middle of the ocean.” pic.twitter.com/fsf3SpOlno
Non c’è quindi da stupirsi se Kamala Harris abbia cercato di cogliere la palla al balzo attaccando Trump sulla questione, affermando che lotterà per Porto Rico e per le sue famiglie dopo le elezioni presidenziali Usa. Per dare un’idea dell’importanza strategica che la componente portoricana potrebbe avere sulle elezioni, basti pensare che lo stesso giorno i democratici hanno presentato un nuovo programma per lo sviluppo economico di Porto Rico, incassando allo stesso tempo il sostegno di personalità importanti come il cantante Bad Bunny, Jennifer Lopez e Ricky Martin.
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Per quanto riguarda il voto degli elettori afroamericani in pochi sostengono che Trump possa avere la meglio. La comunità nera conta più di 34 milioni di elettori, circa il 14 per cento degli americani con diritto di voto. Ciononostante, gli ultimi sondaggi dimostrano che, pur propendendo per Harris, gli elettori neri sono meno sicuri che la sua presidenza sia veramente in grado di imprimere una direzione migliore alle loro vite, soprattutto dal punto di vista economico. In questo senso, i democratici sembrano pagare lo scotto di 4 anni di presidenza Biden, ritenuta incapace di mantenere fede alle promesse date.
L’imprevedibilità degli swing states
Il voto della popolazione alle elezioni presidenziali Usa avrà certamente un peso fondamentale nello stabilire chi diventerà il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, ma il sistema elettorale americano è fondato sul principio del “Winner takes all”, il vincitore si prende tutto. In questo contesto il ruolo decisivo verrà svolto dai cosiddetti Grandi elettori, e cioè i 538 rappresentanti dei singoli stati che insieme formano il Collegio elettorale. Il numero di persone che ne fanno parte è la somma dei membri della Camera dei rappresentati, dei senatori e di 3 Grandi elettori per la capitale Washington, che non fa parte di nessuno stato. Ogni Grande elettore viene nominato dal partito che rappresenta, solitamente quello Democratico o Repubblicano. Non tutti gli stati hanno dunque lo stesso “peso”: in California, lo stato più popoloso, i Grandi elettori sono 54, mentre stati scarsamente abitati come Dakota del nord, del sud e Wyoming ne hanno 3. Per questo motivo il sistema elettorale statunitense ha consentito negli anni di avere presidenti eletti senza avere la maggioranza delle preferenze popolari: è successo con Donald Trump nel 2016 in corsa con Hillary Clinton, e George W. Bush, che aveva sfidato Al Gore nel 2000.In virtù di questo sistema ci sono swing states più decisivi di altri come la Pennsylvania, che assicurerebbe 19 Grandi elettori.
What would happen if Donald Trump wins Nevada? If Kamala Harris wins Pennsylvania?
Secondo gli ultimi dati elaborati da Nate Silver e FiveThirtyEight, Trump sarebbe in vantaggio sia in Pennsylvania che in Georgia, North Carolina e Arizona. Se ciò dovesse essere confermato la prossima settimana, il suo ritorno alla Casa Bianca è praticamente certo. Tuttavia, come ha fatto notare YouTrend, il divario tra i candidati è talmente sottile che “basterebbe infatti un piccolo errore nelle rilevazioni per far passare tutti i sette stati dal lato di Trump o di Harris”. Su questa linea sottile si gioca il futuro delle elezioni più importanti degli ultimi anni.
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