La storia di Eluana Englaro non è ancora finita

Condannato dalla corte dei Conti l’ex direttore generale della Sanità della Regione Lombardia che impedì di interrompere i trattamenti di Eluana Englaro.

Eluana Englaro morì il 9 febbraio del 2009 a 39 anni, dopo 17 anni trascorsi in stato vegetativo irreversibile a seguito di un incidente stradale. Morì dopo una lunga battaglia che la famiglia portò avanti per rispettare le sue volontà: sospendere l’alimentazione e l’idratazione artificiale che la tenevano in vita.

Dopo poco più di quindici anni dalla sua morte, all’inizio di giugno 2024 la corte dei Conti ha condannato in appello l’ex direttore generale della Sanità della Regione Lombardia Carlo Lucchina. L’accusa è di aver impedito a Eluana Englaro di ottenere l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale che la mantenevano in stato vegetativo dal 1992, dopo che sia la Cassazione che la corte d’Appello di Milano le avevano riconosciuto questo diritto. Quando il padre, Beppino Englaro, in qualità di tutore, chiese la sospensione dei trattamenti per la figlia e di staccare il sondino con cui veniva alimentata, l’allora direttore generale firmò una nota in cui dichiarava che le strutture sanitarie si occupano della cura dei pazienti, il che comprende la nutrizione, e di conseguenza i sanitari che l’avessero sospesa sarebbero venuti “meno ai loro obblighi professionali”.

Englaro, a quel punto, si rivolse al Tribunale amministrativo regionale (Tar) che nel gennaio 2009 accolse la sua richiesta, ma la Regione non diede corso alla sentenza ed Eluana fu spostata in una struttura in Friuli, dove morì il 9 febbraio. A quel punto la Regione Lombardia fu condannata a pagare circa 175mila euro per i danni subiti dalla famiglia Englaro. Dopo che nel 2017 la sentenza del Tar divenne definitiva, la corte dei Conti avviò il procedimento per Lucchina. In primo grado l’ex direttore generale fu assolto dai giudici, che descrissero la sua decisione come “ponderata”. La sentenza è stata però ribaltata dai giudici d’appello che lo hanno, invece, condannato a pagare la cifra che la Regione fu costretta a liquidare a Beppino Englaro, stabilendo che l’amministrazione sanitaria non può negare il diritto di rifiutare le cure tutelato dalla Costituzione. Come ha riportato il quotidiano Corriere della Sera, la corte dei Conti ha scritto nella sentenza che la decisione di Lucchina è stata “una concezione personale ed etica del diritto alla salute”. L’ex direttore generale ha allora controbattuto che “non è stata un’obiezione di coscienza, ma sono state applicate le direttive arrivate anche dell’avvocatura regionale”, aggiungendo che valuterà un possibile ricorso in Cassazione.

Beppino Englaro ha dichiarato all’agenzia di stampa Ansa che sapeva di avere un diritto ed era chiaro che lo stavano ostacolando, “tanto che sono dovuto uscire dalla regione”, aggiungendo anche che “ora sono problemi loro, io giustizia me la sono dovuta fare da me, sempre nella legalità e nella società, loro hanno commesso qualcosa che non dovevano commettere. Per me era tutto chiaro anche allora, li ho dovuti ignorare e andare per la mia strada”.

Sulla recente condanna di Lucchina si sono espresse varie figure politiche, come il senatore di Fratelli d’Italia, Ignazio Zullo, capogruppo in commissione Sanità al Senato, che ha dichiarato che la notizia “fa orrore” perché secondo lui Lucchina difese “il sacro diritto a vivere”, mentre per Gilda Sportiello, deputata del Movimento 5 Stelle, si è trattato di una “condanna emblematica”. Questo dimostra come il caso, ma più in generale il dibattito sul tema del fine vita, non sia ancora assolutamente concluso in Italia.

La storia di Eluana Englaro e della battaglia giuridica portata avanti dalla sua famiglia per far valere i suoi diritti, infatti, è più lunga di così e rappresenta un pilastro nelle lotte per il fine vita, che includono il testamento biologico, il consenso informato e l’eutanasia.

La storia del caso Eluana Englaro

Era il 18 gennaio 1992 quando, sulla provinciale che collega Calco a Lecco, in Lombardia, l’auto guidata da Eluana Englaro slittò su una lastra di ghiaccio e finì contro un palo. Englaro fu allora portata all’ospedale di Lecco, nel reparto di rianimazione, con gravi lesioni al cervello e una frattura a una vertebra cervicale che causò l’immediata paralisi di tutti e quattro gli arti.

Qualche mese dopo, ad aprile, fu dimessa dal reparto di rianimazione, ma rimase incosciente. Dopo diversi mesi arrivò la diagnosi definitiva: a causa delle lesioni molto estese e irreversibili alla corteccia cerebrale e della degenerazione dei tessuti, Eluana Englaro si trovava in uno stato vegetativo permanente. Nel 1996 Eluana Englaro venne dichiarata interdetta per assoluta incapacità dal Tribunale di Lecco e l’anno successivo Beppino Englaro, suo padre, ottenne da un giudice l’autorizzazione a diventare il suo tutore.

Ma fu nel 1999 che iniziò la battaglia legale della famiglia Englaro per ottenere l’autorizzazione a sospendere l’alimentazione artificiale, fatta di sentenze che continuano a essere emesse, come quella recente nei confronti di Lucchina. La lotta degli Englaro cominciò in quanto, soprattutto il padre Beppino, era convinto che Eluana non avrebbe voluto vivere in quello stato. In un’intervista rilasciata al quotidiano Repubblica nel dicembre 2016 il padre della ragazza raccontò come la figlia, quando era in vita, avesse espresso la sua volontà di non voler vivere in condizioni come quelle in cui, poi, si è ritrovata. Nell’intervista Beppino Englaro dichiarò che dopo aver visto lo stato in cui versava un amico in coma, la figlia gli aveva detto: “Se capita a me preferisco morire” aggiungendo come lui non abbia “potuto fare altro che cercare di darle voce”.

Nel gennaio del 1999 Beppino Englaro chiese per la prima volta al Tribunale di Lecco di interrompere l’alimentazione artificiale della figlia, che considerava un accanimento terapeutico, in contrasto con l’articolo 32 della Costituzione, secondo cui “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il Tribunale di Lecco respinse però la sua richiesta, sostenendo che l’alimentazione forzata non poteva essere considerata come una cura medica e che, dunque, non fosse possibile invocare l’articolo 32 della Costituzione. Il padre di Eluana Englaro fece allora ricorso alla corte d’Appello che, alla fine dello stesso anno, rigettò nuovamente l’istanza, poiché, secondo la Corte, era ancora in corso un dibattito sulla considerazione o meno dell’alimentazione artificiale come accanimento terapeutico. Lo stesso ragionamento indusse di nuovo, nel 2002 e nel 2003, il Tribunale di Lecco e la corte d’Appello di Milano a respingere altre richieste dello stesso tipo da parte di Englaro.

Qui si innescò una spirale fatta di continui ricorsi e rifiuti, fino ad arrivare al 2007 quando si pronunciò per la prima volta la Corte di Cassazione, cioè il più alto grado di giurisdizione nel sistema giudiziario italiano, che escluse che l’idratazione e l’alimentazione artificiali costituiscano, in sé, una forma di accanimento terapeutico. La Cassazione, però, evidenziò anche un elemento che si rivelò essenziale per l’intero caso: decise che il giudice poteva, su istanza del tutore, autorizzarne l’interruzione, anche se soltanto in presenza di due circostanze concomitanti. Da un lato la condizione di stato vegetativo doveva essere irreversibile, e dall’altro dovevano esserci “elementi di prova chiari, univoci e convincenti” della volontà della paziente dimostrando che, se cosciente, non avrebbe dato il suo consenso alla continuazione del trattamento.

La Cassazione, però, decise di rimandare comunque la decisione alla corte d’Appello di Milano che, il 9 luglio del 2008, accolse il ricorso di Beppino Englaro per interrompere il trattamento di idratazione e alimentazione forzata che teneva in vita la figlia. Questo significa che la corte d’Appello riconobbe che esistevano le circostanze richieste dalla Cassazione e che era quindi possibile dimostrare che, se Eluana Englaro fosse stata in vita, avrebbe dichiarato la sua volontà nell’interrompere l’alimentazione forzata. Nonostante la lunga questione processuale si fosse, di fatto, conclusa con l’autorizzazione a Beppino Englaro di interrompere l’alimentazione artificiale da cui sua figlia era dipendente, il tormento del padre di Eluana Englaro non era ancora finito.

L’intromissione della politica e dell’opinione pubblica

Nel frattempo il caso di Eluana Englaro aveva acquisito sempre più visibilità mediatica e la sentenza favorevole alle istanze presentate da Beppino Englaro causarono varie manifestazioni e moti d’opinione opposti. Da una parte, le associazioni che sostengono la libertà di scelta riguardo alle decisioni personali sugli ultimi momenti di vita organizzarono manifestazioni a sostegno della famiglia Englaro, come i Radicali Italiani. Dall’altra parte invece movimenti e associazioni cattoliche, ma non solo, si impegnarono in dimostrazioni contrarie alla decisione di interrompere la vita di Englaro. Il cardinale Angelo Bagnasco, che all’epoca era presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei), parlò di “inaccettabile epilogo eutanasico” e altre personalità come i giornalisti Magdi Allam, che lanciò appelli favorevoli alla continuazione delle cure, e Giuliano Ferrara che, invece, invitò la cittadinanza a depositare davanti al Duomo di Milano varie bottigliette d’acqua in segno di protesta simbolica contro l’interruzione dell’idratazione artificiale.

Alla decisione della corte d’Appello si opposero anche le Suore Misericordine, che fin dal 1994 si erano prese cura di Eluana Englaro in una casa di cura a Lecco. Le religiose si rifiutarono di interrompere l’alimentazione e l’idratazione forzata e il padre di Eluana decise di trasferire la figlia in un’altra struttura sanitaria dove avrebbe potuto dare seguito a quanto consentito dalla giustizia. Ma la reazione contraria si estese anche alla politica sia locale che nazionale. Nel settembre 2008 il Parlamento italiano, che era composto da una maggioranza di centrodestra, e il governo Berlusconi in carica in quel momento, decisero di evitare in ogni modo che la sentenza fosse messa in atto. Il 17 settembre Camera e Senato presentarono un conflitto di attribuzioni alla corte Costituzionale, sostenendo che la Cassazione avesse invaso la sfera di competenza del Parlamento italiano. Meno di un mese dopo la corte Costituzionale dichiarò il ricorso inammissibile e invitò il Parlamento a colmare il vuoto in materia di fine vita.

Nel frattempo una nota della direzione Sanità della Regione Lombardia vietava di mettere a disposizione strutture sanitarie regionali per l’interruzione delle cure e l’allora ministro del Lavoro Maurizio Sacconi emanò un atto di indirizzo con cui definiva illegale procedere all’interruzione dell’alimentazione forzata nelle strutture del Servizio sanitario nazionale (Ssn). Nel gennaio del 2009 il Tar della Lombardia annullò il provvedimento della Regione, condannandola per non aver indicato alla famiglia Englaro una clinica dove interrompere l’alimentazione, ma la decisione del ministero del Lavoro rendeva comunque difficile mettere in pratica l’interruzione dell’alimentazione forzata per Eluana Englaro. Beppino Englaro allora, viste le difficoltà riscontrate in Lombardia, decise di trasferire Eluana nella clinica “La Quiete” di Udine, di proprietà comunale e non legata al servizio sanitario nazionale. Ma l’ostruzionismo non era ancora finito.

Sempre nel febbraio 2009 il governo guidato dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi provò a fermare la famiglia con un decreto legge, approvato all’unanimità da tutto il Consiglio dei ministri, che aveva come obiettivo quello di vietare in qualunque caso e su tutto il territorio nazionale la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione dei pazienti. Lo stesso Berlusconi, in una conferenza stampa a Palazzo Chigi in cui presentava il decreto legge, sostenne la sua opposizione affermando che Eluana Englaro avrebbe addirittura potuto “in ipotesi, generare un figlio”. Poco dopo l’emanazione di quel decreto legge, però, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che già aveva espresso le sue perplessità riguardo alla proposta in una lettera indirizzata a Berlusconi, lo rigettò, giudicando il decreto legge incostituzionale.

Deciso a non demordere, il governo trasformò il decreto legge in un disegno di legge, cioè un testo sottoposto all’esame del Parlamento, al contrario dei decreti legge che sono approvati dal Consiglio dei ministri. I presidenti di Camera e Senato, allora Gianfranco Fini e Renato Schifani, convocarono in via straordinaria le camere per approvare il più velocemente possibile il disegno di legge proposto dal governo, con il fine di evitare l’interruzione dell’alimentazione forzata di Eluana Englaro.

Ma era ormai troppo tardi. Alle ore 5:45 di venerdì 6 febbraio i medici della clinica “La Quiete”, dove si trovava Eluana, avevano interrotto l’alimentazione e l’idratazione forzate e alle 20.24 del 9 febbraio 2009 Beppino Englaro ricevette una telefonata da parte del primario di rianimazione della clinica che annunciava la morte di Eluana, avvenuta poco prima.

La notizia arrivò al Senato mentre si stava discutendo sull’approvazione del disegno di legge, suscitando clamore e reazioni scomposte da parte di molti senatori che erano fortemente contrari a quanto avvenuto. Il disegno di legge fu ritirato poco dopo e nel novembre 2009 il tribunale di Udine archiviò il procedimento contro Beppino Englaro e il personale della clinica “La Quiete” per omicidio volontario, aperto dalla Procura della Repubblica di Udine, dopo che una perizia sull’encefalo di Eluana Englaro confermò che i danni conseguenti all’incidente avvenuto nel 1992 erano anatomicamente irreversibili.

A che punto sono consenso informato, testamento biologico ed eutanasia in Italia?

Il caso di Eluana Englaro è stato emblematico e ha alimentato in Italia un ampio dibattito sulle questioni legate al fine vita, che riguardano temi molto vari tra loro, dal testamento biologico, al consenso informato, fino all’eutanasia. “La battaglia giudiziaria e le sentenze ottenute da Beppino Englaro in difesa della volontà della figlia Eluana, sono state il pilastro fondamentale, insieme alle sentenze sui casi Welby e Piludu, della legge 219/2017 sulle Dat (disposizioni anticipate di trattamento, ndr)”, ha spiegato a LifeGate Matteo Mainardi, coordinatore della campagna sul fine vita dell’associazione Luca Coscioni.

La legge 219 del 2017 sul consenso informato e sulle Dat, infatti, stabilisce che una persona deve dare il proprio “consenso libero e informato” a ogni trattamento sanitario che la riguardi. Ogni trattamento sanitario, quindi, deve essere stato prima autorizzato dalla persona interessata attraverso quello che viene chiamato consenso informato. “Con le sentenze Englaro si è riconosciuto nel nostro Paese il principio all’autodeterminazione della persona riguardo i trattamenti sanitari”, ha continuato Mainardi, “e, oltre a questo, si è fatto un passettino in più”. Matteo Mainardi, infatti, ha aggiunto che grazie alle sentenze che hanno riguardato il caso Englaro, si è anche riscontrato che il rispetto della volontà della persona deve essere riconosciuto anche quando questa persona non è più in grado di esprimere in autonomia quelle volontà.

Sempre secondo il campaigner dell’associazione Luca Coscioni, la recente sentenza della Corte dei Conti che ha condannato l’ex direttore generale della Sanità della Regione Lombardia Carlo Lucchina, “risuona oggi come monito a chi pensa di poter imporre i propri personali convincimenti etici, morali o religiosi, sulla volontà e l’autodeterminazione altrui”.

manifestazione Eluana Englaro
Negli ultimi anni sono stati fatti alcuni passi avanti nei confronti del “suicidio assistito” ma l’eutanasia legale rimane ancora un tabù © Getty Images

Il tema del fine vita, infatti, è da anni al centro di un acceso dibattito tra una parte dell’opinione pubblica, principalmente cattolica, che si oppone ferocemente alle questioni che riguardano, ad esempio, l’eutanasia e un’altra parte, prevalentemente laica, che si dichiara favorevole alle pratiche di fine vita che lasciano la libertà alla persona di decidere per sé in un momento tanto delicato.

Ad oggi, in Italia, lo strumento del testamento biologico, o biotestamento, è utilizzato da centinaia di italiani, ha spiegato ancora Matteo Mainardi, aggiungendo che dall’approvazione della legge 219/2017 in poi, non si è più assistito a vicende come quella subita da Beppino ed Eluana Englaro. Il discorso è invece diverso per l’eutanasia legale, che rappresenta ancora tabù per la nostra politica.

Negli ultimi anni sono stati fatti alcuni passi avanti nei confronti del “suicidio assistito”, legalizzato nel 2019 dalla Corte Costituzionale e che si differenzia dall’eutanasia perché l’eutanasia non necessita della partecipazione attiva del soggetto che ne fa richiesta, mentre il suicidio assistito sì, perché prevede che la persona malata assuma in modo indipendente il farmaco letale. Inoltre, l’eutanasia richiede un’azione diretta di un medico, che somministra un farmaco di regola per via endovenosa, mentre il suicidio assistito prevede che il ruolo del sanitario si limiti alla preparazione del farmaco che poi il paziente assumerà per conto proprio. Grazie alla sentenza della Corte costituzionale, il 16 giugno 2022, Federico Carboni, conosciuto prima della sua morte con il nome di fantasia “Mario”, è stato il primo italiano ad ottenere il suicidio medicalmente assistito in maniera legale in Italia.

I passi avanti sul tema del suicidio assistito sono stati fatti soprattutto grazie ad azioni di disobbedienza civile come quelle portate avanti dal politico e attivista Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ma anche attraverso le attività di altri gruppi. “Come associazione Luca Coscioni su questo fronte abbiamo coinvolto le Regioni in un percorso legislativo (non indispensabile, ma necessario) al fine di garantire tempi e procedure certe a chi intende affrontare questo percorso” ha concluso Mainardi.

Il tema dell’eutanasia, invece, è più complesso e sembra ancora inaffrontabile per la classe politica italiana. Nel 2021 l’Associazione Luca Coscioni si è fatta promotrice della campagna “Eutanasia Legale”, alla quale hanno partecipato anche altri partiti, soggetti e movimenti come i Radicali Italiani, Più Europa e Possibile, raccogliendo più di 1,2 milioni di firme successivamente depositate in Corte di Cassazione per indire un referendum sul tema del fine vita.

L’obiettivo del referendum era quello di abrogare parzialmente la norma penale che impedisce l’introduzione dell’eutanasia legale in Italia. Se fosse stato approvato, infatti, l’eutanasia attiva sarebbe divenuta legale nelle forme previste dalla legge sul consenso informato e il testamento biologico, e in presenza dei requisiti introdotti dalla sentenza 242 del 2019 della corte Costituzionale, ma sarebbe rimasta punita se “il fatto è commesso contro una persona incapace o contro una persona il cui consenso sia stato estorto con violenza, minaccia o contro un minore di diciotto anni”. Questo referendum, però, non si è mai tenuto. La corte Costituzionale, infatti, nel 2022 l’ha giudicato inammissibile perché a seguito dell’abrogazione, anche se parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

Sentenze come quella della corte dei Conti nei confronti dell’ex direttore generale della Sanità della Regione Lombardia Carlo Lucchina rappresenta sicuramente un punto positivo nella battaglia per il fine vita, ma la strada è lunga e i risultati ottenuti non sono ancora quelli desiderati e sperati da chi si batte per questo diritto.

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