Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Emanuele Giordana e i rohingya. Puoi capire Suu Kyi, ma ingiustificabile
Aung San Suu Kyi ha annunciato la creazione di un’agenzia di soccorso per tentare di fermare l’esodo dei rohingya dal Myanmar. “Ma davanti al pogrom il suo comportamento è ingiustificabile”. L’intervista a Emanuele Giordana.
“Mentre è in corso l’esodo più grande della storia recente non dovuto a un conflitto, un pogrom, un genocidio, questo annuncio di Aung San Suu Kyi non dice molto”. A parlare è Emanuele Giordana, l’unico giornalista italiano a essersi recato di recente presso gli esuli rohingya. La (di fatto) premier birmana ha detto giovedì scorso alla tv di stato che il suo governo formerà un’agenzia di soccorso per i perseguitati musulmani. Tuttavia rimane scettico Giordana, che è stato docente di Cultura indonesiana, direttore di varie testate e inviato in vari paesi asiatici.
“The Lady”, come chiamano i birmani la donna che ha guidato il Myanmar dalla dittatura militare a una bozza di democrazia, ha parlato di un progetto che aleggia in ambito diplomatico da molto tempo e che dovrebbe finalmente fornire assistenza umanitaria ai rifugiati rohingya e rimpatriarli. Ma non è chiaro come, visto che i rohingya non godono di alcun diritto in Myanmar o ex Birmania, non avendone mai ottenuta la cittadinanza.
Pogrom contro i Rohingya: esodo biblico in un mese
Finora, su una popolazione di un milione di persone, si contano 536mila persone fuggite dallo stato Rakhine del Myanmar in Bangladesh in poco più di un mese. A questo numero biblico, si aggiungono 200mila individui già presenti nel distretto bengalese di Cox’s Bazar, al di là della frontiera con il Myanmar, dove Giordana è andato lo scorso gennaio per Internazionale.
La “pulizia etnica”, denunciata da organizzazioni umanitarie come Human rights watch (Hrw) anche in un’intervista a LifeGate e dalle stesse Nazioni Unite, è cominciata nel 2012, anche se le discriminazioni durano da decenni.
“Bisogna vedere se i militari permetteranno al governo civile di realizzare un’agenzia con presenze anche straniere”, spiega Giordana, classe 1953, che ha fatto dell’Asia passione e professione di una vita. Nell’intervista che segue, lo scrittore di numerosi libri sulle questioni asiatiche che aggiorna sul blog personale Great Game, aiuta a sciogliere i nodi, la propaganda e le troppe bugie diffuse sulla questione Myanmar-Rohingya-Aung San Suu Kyi.
Come valuta l’annuncio dell’agenzia civile di soccorso?
C’è una lotta evidente fra il governo civile e la compagine militare, che ha annunciato un rapporto che dovrebbe mettere in crisi tutte le accuse mosse dalla comunità internazionale e dagli operatori umanitari. L’annuncio, invece, di Aung San Suu Kyi non dice molto. L’unica novità è che questa agenzia dovrebbe contenere dei personaggi esterni al Paese, ma bisogna vedere se i militari le permetteranno di costituirla in questo modo. Un portavoce anonimo intervistato dal quotidiano britannico Guardian dichiara che Aung San Suu Kyi vuole dimostrare che il governo civile e non i militari possono occuparsi delle vittime di questo pogrom. Però, non prende posizione su questo spaventoso esodo di massa e, quindi, le bocce rimangono ferme. Per quanto si possa capire il comportamento di Aung San Suu Kyi, tutto ciò è ingiustificabile.
Mezzi d’informazione e ong vengono accusati da lei stessa di voler far crollare il suo sogno di democrazia. In realtà, stanno denunciando la persecuzione di un popolo. Pensa che abbia qualche ragione di attaccarli?
C’è un movimento che chiede la restituzione del Nobel per la Pace. Io, personalmente, non sono d’accordo perché il Nobel le è stato attribuito nel 1991 per qualcosa che ha fatto e che tale rimane nella storia. Purtroppo, rimane nella storia anche quello che lei sta facendo adesso, cioè molto poco, non abbastanza. Non prende una posizione decisa e non nomina nemmeno il termine ‘rohingya’. Sembra una situazione senza via d’uscita. Lei sa che il suo governo è a tempo, perché i militari possono per Costituzione fare un colpo di stato. Possono bypassare il governo civile e metterlo in mora, sostituendolo con un ‘governo di salute pubblica’ o qualcosa di simile diretto dai militari. Suu Kyi, di fatto, ha le mani legate.
Suu Kyi non ha mai condannato apertamente la campagna razzista contro i musulmani rohingya che dura da decenni da parte dei nazionalisti Bamar, di religione buddista, e ha citato una legge emanata dalla giunta militare nel 1982 per non concedere loro la cittadinanza.
Non solo. Secondo quella legge è cittadino birmano chi lo era sotto la dominazione britannica e, dunque, anche i rohingya. Vivono da secoli in quel territorio che è stato in ordine cronologico indipendente, occupato dai birmani, dagli inglesi, dai giapponesi, nuovamente dagli inglesi e infine ancora dai birmani. I rohingya sono sempre stati lì. Sono i confini che si sono allargati come un elastico, non le persone che si sono trasferite. Ci sono stati degli spostamenti, ma in seguito sono rimasti stanziali per secoli. Fa parte dei movimenti sociali. Proprio noi che stiamo negando lo ius soli a chi è nato in Italia, non abbiamo molto diritto di parola.
Ma è vero che se Aung San Suu Kyi si esponesse di più, se dicesse la verità sulle persecuzioni, finirebbe il suo governo?
Credo di sì, ma ci sono anche ragioni di opportunità del governo civile stesso. Il Rakhine è una zona economicamente importante che deve essere mantenuta stabile per consentire a chi sta investendo in quell’area di lavorare. Suu Kyi ha anche l’appoggio del governo di New Delhi che vuole espellere non si sa dove i 40mila rohingya rifugiati in India. Certamente è di responsabilità dei militari, invece, ciò che è avvenuto dalla legge del 1982 a quelle più recenti del 2012, che hanno consentito il trasferimento di terre da piccoli proprietari a grandi conglomerati. Si conta un milione e 200mila ettari finora ceduto.
Il land grabbing birmano di cui abbiamo di recente scritto su LifeGate.
Sì. Se i militari decidono che il governo civile sta dando troppo fastidio, fanno uscire i soldati dalle caserme e il sogno democratico finisce. Nonostante questi rischi, il comportamento del governo civile – ripeto – è ingiustificabile.
Come si fanno a giustificare interi villaggi distrutti, stupri di massa, bambini gettati nel fuoco, persone ridotte alla fame (vedi ultimo rapporto di Hrw)?
Non solo. Si sta verificando il più grande esodo di massa della storia recente non legato a un conflitto. Dalla Siria milioni di persone sono scappati dalla guerra. Qui assistiamo a un popolo in pace che viene espulso in un brevissimo periodo.
Evoca i pogrom del secolo scorso. Si può fare ancora qualcosa?
Si può tentare di capire la situazione e cercare la strada migliore, che non è quella di togliere il Nobel a Suu Kyi, ma di fare pressione politica, impegnarsi di più nel Consiglio di Sicurezza Onu, convincere la Cina (maggiore alleato del Myanmar, ndr.) a prendere una posizione più dura, cosa che finora non è avvenuta. Serve una mobilitazione diplomatica che non si è ancora vista.
In questi giorni una delegazione di diplomatici occidentali, tra cui il nostro ambasciatore in Myanmar Pier Giorgio Aliberti, si è recata nello stato Rakhine. Ma, tra politici e osservatori, c’è chi dice che se cadesse Aung San Suu Kyi sarebbe peggio.
Si sacrificano 550mila persone, per salvarne 50 milioni? Si può capire, ma non si può giustificare.
Sembra si sia fatta, finora, una mera conta delle vite umane. Cosa può fare la diplomazia, in concreto?
Ipotizzo che quando il nostro ambasciatore è andato nel Rakhine, davanti a una caserma bruciata, gli abbiano detto che sono stati i ‘terroristi’. Quello che può fare un diplomatico è un’altra cosa. Potrebbe inviare un rapporto al nostro governo e invitarlo a prendere una posizione più decisa, più mirata. Ad esempio, vietando ai militari birmani di viaggiare in Italia e andare alle fiere delle armi. Le sanzioni vanno ben studiate. Non si deve fermare l’intera Birmania, ma si possono dare dei segnali forti. L’accusa sarebbe più precisa: non contro il governo civile, ma contro i militari al potere.
Il governo civile e i militari parlano di ‘terroristi’. Chi sono, in realtà, gli insorti dell’Arakan rohingya salvation army (Arsa)?
Bisogna distinguere un gruppo insurrezionalista armato, secessionista, come l’Arsa, dai terroristi. È di ispirazione islamica, ma ha dichiarato di non essere affiliato né ad Al Qaeda, né allo Stato Islamico. Si può criticare la scelta della lotta armata, ma non lo si può bollare di terrorismo. È una guerriglia che conduce azioni militari. Non colpiscono con bombe la popolazione per terrorizzarla, ma attaccano postazioni militari come faceva Ernesto Che Guevara in Bolivia. Presumibilmente, non vogliono per forza uno Stato Islamico, ma uno stato per la loro comunità sul quale sia possibile negoziare uno statuto speciale come quello del nostro Trentino Alto Adige, per esempio.
Già all’inizio della “pulizia etnica”, nel 2012, si temeva che si lasciasse il campo a organizzazioni insurrezionaliste. In campo umanitario si usa anche la parola “genocidio”, come ha fatto l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu nella sua lettera a Suu Kyi.
Non c’è dubbio. È così che si sono formati gli insorti. Concordo, inoltre, con l’uso del termine genocidio. L’espulsione di una comunità dal suo Paese senza che possa rientrare è una forma di genocidio.
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