In pochi giorni, l’Emilia-Romagna si è ritrovata al centro di una emergenza che riguarda l’acqua, ma soprattutto le infrastrutture e la particolare morfologia del territorio: una pianura, ex palude, densamente abitata, che ha bisogno di acqua per l’agricoltura ma che, in quanto ex palude, ne teme gli eccessi. Secondo Paride Antolini, presidente dell’Ordine dei geologi dell’Emilia-Romagna, il problema è lì: inutile prendersela con la crisi climatica se a mancare è l’adattamento e la gestione del territorio. Di seguito l’intervista che abbiamo realizzato.
Dopo settimane di siccità, è bastato un violento temporale a provocare morti e distruzione. L'alluvione in Emilia-Romagna rilancia il tema della salvaguardia del territorio. Ne abbiamo parlato con Paride Antolini, presidente dell'Ordine dei geologi della Regione pic.twitter.com/NdD0ATf7we
Dottor Antolini, a memoria d’uomo, lei si ricorda alluvioni del genere nella sua zona? Da queste parti cose del genere non erano mai successe, ma conoscendo il territorio, sapevo già che ci sarebbero stati problemi di questo tipo. Quando osservavo le scene dei mesi scorsi in Liguria, in Veneto, mi dicevo: “Se qui dovesse piovere così, succederebbe anche da noi”, il nostro territorio non può reggere una pioggia del genere. Appena è successo, infatti, la pioggia ha messo in crisi gli argini.
Gli eventi estremi sono ormai sempre più frequenti, lei però sostiene che quanto avvenuto non sia una questione di cambiamenti climatici: cosa intende? Se crolla un argine, e questa volta ne sono caduti più di uno, non è un problema di cambiamenti climatici, ma di gestione del territorio: è un problema strutturale dell’argine, delle terre con cui è stato costruito, che nel tempo non avevano più quelle caratteristiche geo-meccaniche idonee (la porosità e la saturazione del terreno la sua capacità di assorbire l’acqua, ndr). A questo punto anche in una piena ordinaria, con piogge prolungate che possono capitare d’inverno, l’argine si imbeve di acqua e crolla.
Questo vuol dire che non è stata fatta una adeguata gestione del territorio? Questo vuole dire che le centinaia di chilometri di argini che abbiamo in Emilia-Romagna vanno monitorate e studiate per capire se ci sono altre zone di criticità, che possono essere date dal terreno che si è impoverito, ma anche da altre cose banali: per esempio se esistono delle tane di animali costruite nei cunicoli degli argini. Si può ovviare con determinati interventi, per esempio sono state fatte delle sperimentazioni su alcuni tratti di alveo nella regione in cui venivano catturati questi animali e portati a monte dove non potevano creare danni. Funzionava: poi, finiti i fondi, finita la sperimentazione. Insomma, gli interventi da fare sono tanti, ma per capire se un argine è in crisi o meno anche la tecnologia ci può aiutare: ce ne sono alcune, come le sonde, che permettono di studiare l’argine in modo non invasivo.
Ma non è stato fatto, oppure non è bastato? Queste sono operazioni che generalmente vengono fatte localmente, quando si rilevano delle criticità. Ma non vengono fatte sistematicamente sull’intera lunghezza del fiume per capire se ha dei problemi. Quello che dico io è che serve una struttura tecnica a monte: uffici pubblici non sotto-dimensionati e con le giuste competenze, con tecnici, geologi, forestali, ingegneri, geometri, che studino il problema e intervengano su tutta l’asta fluviale (cioè su tutto il fiume, ndr) per fare una gestione organica in grado di prevenire questi problemi.
Il governo ha creato una struttura centralizzata che si occupi della crisi idrica: siccità, ma anche eventi eccezionali come quello capitato in Emilia-Romagna, che sono un po’ il rovescio della medaglia. Cosa ne pensa? Sono contrario a una struttura centralizzata, questi problemi vanno risolti localmente. Comuni di 100-200mila abitanti hanno la capacità di avere degli uffici preposti a questo lavoro, che poi viene fatto in coordinamento con la Regione: insieme, si riescono a creare équipe di lavoro importanti. Chi gestisce il territorio localmente è colui che lo conosce veramente. Cosa può fare una struttura nazionale che non conosce il territorio? Arriva e impone una visione che magari è quella del bacino del fiume Tevere che non ha nulla che a fare con quello del Sillaro. Ogni bacino ha i suoi problemi e richiederebbe interventi differenziati, non si può intervenire ovunque allo stesso modo.
E i comuni più piccoli, che non hanno risorse e uffici preposti? Bisogna spingerli a unirsi: è chiaro, un piccolo comune di mille abitanti che struttura può avere? Ma una unione di comuni può funzionare. Ma glielo dico subito: il problema è politico, perché poi c’è una amministrazione di un colore, una di un altro che cominciano a litigare. Perché si tratta di gestire i fondi che vengono dall’Europa: chi ha la capacità di gestire questi fondi costruisce e crea, chi non ha questa capacità si può solo lamentare. Io, lavorando con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, vedo che i comuni strutturati costruiscono scuole, fanno lavori, corrono, mentre gli altri fanno fatica. È normale, ma non serve la struttura centralizzata da Roma.
In Emilia-Romagna, per esempio, che tipi di intervento servirebbero? Viviamo in una regione così densamente popolata che appena un fiume tracima ci sono case ovunque e i margini di intervento sono limitatissimi. Però ci sono interventi anche poco appariscenti che possono funzionare. Per esempio in montagna, la parte boscata va conservata, perché un bosco vergine trattiene molta più acqua di un bosco che viene periodicamente tagliato. E poi gli argini: invece di continuare ad alzarli, che più lo fai e più ne aumenta l’instabilità, si può pensare di allargarli, soprattutto in pianura. Dobbiamo dare spazio alle acque, cercare di creare quelle che vengono chiamate aree di laminazione o casse di espansione. Quando c’è una piena, destinare queste aree, che possono essere agricole, all’alluvionamento temporaneo. Un ettaro di terreno destinato ad accogliere alcuni metri cubi di acqua. Anche se qui c’è il problema che i proprietari di questi terreni potrebbero non essere d’accordo…
Questi sarebbero interventi strutturali? Sì, ma più diluiti nel tempo, più soft, meno impattanti e invasivi di altri. Rientrano in un gestione organica della situazione con a monte degli uffici e delle competenze che non lavorano solo nei momenti della criticità, ma continuativamente per ripensare la gestione delle aste fluviali. Ma negli ultimi anni i colleghi che lavorano negli uffici pubblici si lamentano tutti della contrazione dei dipendenti, dei finanziamenti, delle difficoltà che hanno.
Quali sarebbero gli “altri” interventi più invasivi a cui si riferisce?
La questione di dragare i fiumi, per esempio, di “pulirli” dai sedimenti. I fiumi in Emilia-Romagna non vanno assolutamente dragati, quando entrano in pianura, il dislivello che c’è con il mare è ormai di pochi metri e hanno già raggiunto il loro livello di deflusso ottimale. C’è tutto un sistema messo in piedi dai consorzi di bonifica che convogliano le acque in zone di raccolta con le idrovore. E tanto meno non serve fare delle barriere trasversali nei fiumi per fermare i materiali, come è stato fatto. Anche perché tutto è collegato.
Alcune foto della situazione del Po all'impianto Sussidiario 2 a Stellata di Bondeno (FE). Il Consorzio Burana sta facendo eseguire lavori di dragaggio ad una draga per permettere alla poca risorsa irrigua di essere prelevata. Grazie a Consorzio della Bonifica Burana#droughtpic.twitter.com/aHeXHtUvtU
Con cosa? Con il mare, per esempio. Dopo le mareggiate ci lamentiamo che il mare erode la spiaggia, che non arrivano più sedimenti. Ecco, quando si fanno interventi sulle aste fluviali bisogna pensare anche a questo, ovvero che poi non consentono più il trasporto di materiale solido a mare, perdiamo le nostre spiagge. Poi ci possono essere delle situazioni puntuali e particolari dove ci sono accumuli eccessivi di ghiaia e allora sì, ma sono operazioni molto localizzate.
La siccità di questo inverno ha influito sugli allagamenti della scorsa settimana? Guardi, la diga di Ridracoli (a Bagni di Romagna, provincia di Forlì-Cesena, ndr), 33 milioni di metri cubi di acqua, un mese fa tracimava: tutta questa grande siccità in Romagna non c’è stata. Siamo sempre in deficit, è vero, ma c’è stata una buona piovosità, più che in Lombardia. E comunque se non avesse piovuto sulle Alpi, le assicuro che la diga non sarebbe tracimata. È un problema.
Speriamo sia servito almeno come campanello d’allarme… Lo sa benissimo anche lei: queste cose qui si ripeteranno, ormai ciclicamente, siamo abituati. Ogni uno o due anni. Abbiamo un territorio estremamente fragile, colpito da alluvioni, frane, mareggiate e ogni volta siamo qui a raccontarci le stesse cose: bisogna invertire la tendenza nella gestione del territorio. Ormai sembra una frase banale, ma è così.
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