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Gli Emirati Arabi Uniti crescono a ritmi vertiginosi, ma a pagarne il prezzo sono i lavoratori immigrati
Dietro allo scintillante skyline di Dubai, ci sono i disperati che lo costruiscono. Milioni di persone, provenienti dall’Asia e dall’Africa, che si indebitano per il viaggio della speranza e finiscono in una rete di sfruttamento da cui non riescono ad uscire. Nei cantieri di Expo 2020 si attuano politiche da manuale, ma fuori è tutta un’altra storia.
Ultimo aggiornamento: 5 maggio
L’estensione e i ritmi di sviluppo vertiginosi degli Emirati Arabi Uniti richiedono un afflusso costante e massiccio di manodopera, tanto che gli immigrati rappresentano l’88 per cento della popolazione e fino al 95 per cento della forza lavoro. A fronte di un reddito pro capite tra i più alti del mondo, il 70 per cento di questi è impegnato in occupazioni a basso reddito, principalmente nel settore dell’edilizia e del lavoro domestico.
Il reclutamento della forza lavoro è un business che parte dai marciapiedi polverosi degli stati più poveri di India, Pakistan, Nepal, Bangladesh, Nigeria, Ghana (e molti altri) per arrivare alle “supply company”, le miriadi di società di fornitura di personale che gravitano intorno alle multinazionali – i cosiddetti “big contractor” – che gestiscono appalti da milioni e milioni di dollari. Il meccanismo è pressoché identico in tutti e sette gli Emirati. Se i colossi societari sono più esposti e quindi soggetti a maggiori controlli, le aziende più piccole, che sono la maggior parte, si stabiliscono strategicamente ai margini, dove si può fare finta di non vedere.
Negli Emirati, chi lavora nei cantieri di Expo 2020 è un privilegiato
Dalle testimonianze raccolte a Dubai, chi lavora nei cantieri di Expo 2020 è un privilegiato. Tra le priorità dell’evento, infatti, è stata pubblicamente inserita la tutela dei lavoratori: orari regolari, rispetto delle norme di sicurezza, buone sistemazioni, cibo di qualità, assicurazioni e benefit. “Connecting minds, creating futures” è il titolo dell’esposizione mondiale che, tra i vari sottotemi, ha scelto quello della sostenibilità. Questione che solleva non poche perplessità, considerando i quattro milioni di metri cubi di allestimenti – quattro volte quelli di Expo 2015 a Milano – costruiti in un’area semi desertica al confine con Abu Dhabi.
L’apertura era fissata per il 20 ottobre di quest’anno, ma l’evento è stato posticipato al 2021 a causa del nuovo coronavirus. Dal 25 marzo anche gli Emirati Arabi Uniti hanno attivato misure di contenimento per contrastarne la diffusione, invitando gli abitanti ad uscire solo per reale necessità, a viaggiare in auto con tre persone al massimo e sospendendo tutti i voli per almeno due settimane. Proseguono i lavori per Expo nel rispetto delle norme di igiene, protezione e sicurezza dettate dal ministero della Salute e dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
L’esperienza a Dubai di Shehzad Ahmad, pakistano
Purtroppo, fuori da quell’area la realtà è ben diversa. Salari non pagati, troppe ore di lavoro esposti a temperature roventi, nessuna assicurazione, visto non regolare, sistemazione in campi di lavoro fatiscenti: sono le principali denunce di chi prova a ribellarsi e a reclamare i propri diritti. Shehzad Ahmad ha 22 anni, è pakistano e ora vive in Arabia Saudita. In una lunga video chiamata ci racconta i suoi 27 mesi di inferno a Dubai, con la speranza di risparmiarli a qualcun altro. “Dopo la laurea, non trovavo lavoro e dovevo aiutare la mia famiglia. Un agente del mio paese mi ha proposto di andare a Dubai, promettendomi una carriera. Mi è costato 2.500 dollari [circa 2.270 euro, ndr], un sacco di soldi che abbiamo chiesto in prestito a dei parenti”, esordisce.
Dal sogno di una vita migliore all’incubo dello sfruttamento
“Una volta sceso dall’aereo, mi hanno portato in un stanza buia e sporca dove già dormivano undici persone, io ero il dodicesimo e ho capito che tutte le promesse fatte erano una truffa” – continua Ahmad –. Sudavamo nei cantieri per dodici ore al giorno con un’ora di pausa, tiravamo su le impalcature degli edifici; di notte quando di giorno faceva troppo caldo. Non avevo nessuna esperienza ed era pericolosissimo. Per i primi tre mesi non mi hanno pagato; sono sopravvissuto grazie ai miei amici che mi compravano il cibo. Poi è arrivato lo stipendio: 15 dollari al giorno [circa 13,60 euro, ndr], meno di 300 al mese.
Il livello di frustrazione era altissimo. Sul cantiere non potevo aprire bocca, i responsabili della società appaltatrice mi rinfacciavano che per me loro sborsavano al mio capo 80 dollari al giorno, lui però me ne dava meno di un quarto, o addirittura nulla. Alla fine ho deciso di denunciarlo e di andare in tribunale; la legge era dalla mia parte, stavo vincendo la causa ma continuava a non pagarmi. Poi un giorno il mio capo è arrivato per dirmi che mi avrebbe licenziato e che sarei dovuto tornare in Pakistan. Il mio visto era in scadenza, così ho dovuto lasciar perdere la causa, perché non avevo più soldi”.
Gli unici quattro mesi di lavoro regolare, Shehzad Ahmad li ha passati proprio nel sito di Expo. “Ci hanno trattato benissimo, meno ore di lavoro, più riposo e maggiore sicurezza. È un’area governativa, sottoposta a controlli continui ed è tutta un’altra cosa. Da qualche anno gli Emirati hanno buone leggi che tutelano i lavoratori, ma questi essendo più deboli non hanno i soldi per affrontare la causa e pagare gli avvocati; spesso poi vengono minacciati, come è successo a me. Ad esempio la legge obbliga le società a sistemare i dipendenti in stanze di quattro persone al massimo, condizione che non esiste in alcuna delle realtà che forniscono manodopera, dove come minimo si dorme in dieci con un solo bagno a disposizione”.
Una volta sceso dall’aereo, mi hanno portato in un stanza buia e sporca dove già dormivano undici persone, io ero il dodicesimo. Allora ho capito che tutte le promesse non erano altro che una truffa.Shehzad Ahmad, originario del Pakistan
Le leggi negli Emirati ci sono, ma non vengono rispettate
Stessa società, stesso ruolo, ma trattamenti diversi. Se sei impiegato nei siti di Expo hai vita più facile. Proteggere l’immagine dell’evento mondiale viene prima di tutto. A.A. ha 27 anni, è ingegnere, anche lui pakistano, ed è alle dipendenze di una delle più grosse compagnie di Dubai. Per evitare ritorsioni, chiede che il suo nome non venga pubblicato. “Ovviamente questo colosso è riuscito a costruirsi un’immagine perfetta, ma in realtà molti di noi si stanno attivando per denunciare delle irregolarità: ogni mese ci viene trattenuta parte dello stipendio senza che nessuno riesca a spiegarci il motivo, gli edifici dove abitiamo sono molto distanti dal luogo di lavoro e fuori da tutto, senza nemmeno un negozio intorno. Il cibo che ci danno è pessimo, ma non riusciamo a procurarcene altro. In camera noi siamo in dieci, con un bagno. Nell’ala accanto alla mia ci sono i colleghi che stanno lavorando in Expo: dormono in stanze da quattro, hanno il servizio di lavanderia gratuito, cibo gratis e tutta una serie di privilegi che noi non ci sogniamo neppure”.
Gli Emirati Arabi Uniti hanno recentemente approvato una serie di nuove leggi per evitare gli abusi e difendere i lavoratori, ma sono le società di reclutamento del personale che riescono più facilmente a sfuggire al controllo, facendo firmare agli immigrati, entrati con visto provvisorio, contratti nei quali accettano di non avere alcuna garanzia. Per Ramesh Chandra, manager indiano che lavora a Dubai dal 1994 e membro attivo della Gtwca (Gulf telangana welfare and cultural association), associazione che dà assistenza agli immigrati in difficoltà provenienti dallo stato del Telangana, in India, ci spiega che “senza dubbio lo scenario è molto cambiato, e in generale le condizioni sono migliorate; oggi esistono regole, maggiori sistemi di controllo e di protezione. Il problema, però, si è spostato sulle società di fornitura del personale, che si sono aperte la strada perché i grandi gruppi hanno ridotto il numero di dipendenti a causa della congiuntura economica mondiale negativa che sta toccando anche gli Emirati Arabi Uniti”.
Un legame a doppio filo, anzi, a doppio taglio
Ecco che milioni di persone, tra le più povere e disposte a tutto, mosse da promesse di ogni tipo, senza alcuna idea di dove stiano andando e a fare cosa, arrivano negli scintillanti paesi del Golfo, con un visto di sei o dodici mesi, accettando che il rapporto di lavoro possa interrompersi in qualsiasi momento. Per loro non esiste alcuna tutela. La definizione del salario minimo garantito non è contemplata e il sistema della “kafala”, o sponsorizzazione, lega a doppio filo il dipendente al titolare, che può sequestrarne il passaporto, decidere di licenziarlo e rispedirlo nel paese d’origine. Dal canto suo, il dipendente non può svincolarsi in nessun modo dal rapporto di lavoro subordinato a meno che non sia il titolare stesso a concederglielo.
Un meccanismo dai tratti disumani che gioca sulla disperazione, e in cui ogni pedina che si muove pretende di guadagnare la propria parte. Dalla commissione dell’agente che ti ferma per strada e ti riempie la testa di sogni all’agenzia di viaggi che ti raddoppia il prezzo del visto, fino al datore di lavoro che ti spreme sapendo che hai un bisogno disperato di soldi e sei disposto ad accettare qualunque condizione, perché quello che ti offre è sempre meglio del nulla assoluto da cui provieni.
C’è chi cerca di cambiare le cose…
Eugene Lucky è un ragazzo nigeriano che da oltre due anni lavora ad Abu Dhabi. A febbraio scorso ha aperto un canale YouTube per mettere in guardia i suoi connazionali e cercare di proteggerli da questo sistema di truffe. “Quasi ogni giorno sento storie di africani sull’orlo della disperazione perché sono stati truffati. C’è chi crede di avere pagato per un visto di lavoro e si trova in mano un visto turistico, chi arriva all’aeroporto e, non sapendo dove andare, senza nessuno che capisca l’inglese, segue aguzzini che lo derubano. Giovani che sgobbano dodici, tredici ore al giorno senza essere pagati, ma non sanno a chi rivolgersi. Sono stati i miei amici in Nigeria, a cui ho parlato di questa situazione, a dirmi di fare qualcosa; dovevo trovare un sistema per limitare questo fenomeno e ho pensato a un canale YouTube dove fornire informazioni e diffondere maggiore consapevolezza”.
… rischiando il carcere e la tortura
Il Golfo resta un’area blindata e molto difficile da indagare; anche le organizzazioni internazionali per i diritti umani faticano ad accedere ai dati ed entrare in contatto con le persone. L’ottobre scorso la Human righs watch ha riportato che grossi appalti continuano ad essere assegnati a società di dubbia condotta, come la saudita Binladin group, che si è aggiudicata un contratto da 105 milioni di dollari per realizzare hotel e un parco acquatico a Dubai. Nel 2017 la società aveva ritardato il pagamento del salario a migliaia di lavoratori, che sono scesi in strada per scioperare e ribellarsi, finendo però in prigione e sottoposti a torture. Nonostante questo, la multinazionale Binladin group – di proprietà della famiglia di Osama Bin Laden, leader e fondatore di al-Qāʿida – gestisce una quantità sorprendente di appalti sia in ambito privato che pubblico, anche nella municipalità di Dubai, nel settore delle strade e dei trasporti.
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